Si può conciliare benessere organizzativo e produttività del lavoro?
Un intervento si sofferma sul benessere al lavoro, la produttività dell’impresa e la partecipazione dei lavoratori in tempo di crisi. I rischi psicosociali, la scarsa produttività delle imprese e le prassi per migliorarla.
Urbino, 7 Nov – In questa persistente fase di crisi economica come si può conciliare il benessere organizzativo con la produttività del lavoro? C’è un rapporto tra questi due concetti? E quali spazi vi potrebbero essere in azienda per arrivare ad accordi in materia di benessere organizzativo?
Per provare a rispondere a queste stimolanti domande possiamo riprendere il contenuto di un intervento al convegno di studi “La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione” che si è tenuto l’8 novembre 2013 presso l’Università degli studi di Urbino, dal titolo”; un convegno organizzato da Olympus – l’Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro – e dal Centro ricerca e formazione di psicologia giuridica dell’ Università di Urbino.
Ricordiamo che gli interventi del convegno sono stati raccolti e pubblicati, a cura di Luciano Angelini (Professore aggregato di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo), tra i “Working Papers” di Olympus con il titolo “ La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione – Atti del Convegno Urbino – 8 novembre 2013”.
Nell’intervento “Benessere al lavoro, produttività dell’impresa, partecipazione dei lavoratori in tempo di crisi”, a cura di Piera Campanella (Università di Urbino Carlo Bo), l’autrice concentra l’attenzione “sul tema dell’organizzazione del lavoro e delle sue possibili modifiche, nonché sul ruolo del sindacato a riguardo, nella convinzione che il rapporto tra autonomia collettiva, profili organizzativi della produzione e benessere lavorativo rappresenti un elemento centrale del dibattito sui rischi psico-sociali”.
Innanzitutto l’intervento delinea il “quadro di fondo” con riferimento al “rapporto inversamente proporzionale tra stato di salute dei sindacati e fenomeni di stress, violenze e soprusi nei luoghi di lavoro”, fenomeni “accentuati anche dalla progressiva decollettivizzazione e individualizzazione delle relazioni di lavoro, dall’allentarsi, cioè, dei legami di solidarietà nella comunità di lavoro”. E si sofferma anche sulla crisi economica attuale e sul fatto che il sistema economico italiano sembra soffrire di “una grave perdita di competitività, dovuta soprattutto a un fenomeno di progressivo e inarrestabile decremento della produttività”.
Rimandando l’analisi della situazione sindacale, della rappresentanza dei lavoratori, alla lettura integrale del documento agli atti, noi ci soffermiamo in particolare sul rapporto tra produttività e benessere organizzativo.
L’intervento ricorda che “la tutela dell’ambiente di lavoro generalmente intesa non è certo profilo estraneo all’esperienza italiana di contrattazione collettiva aziendale, come pure non lo è il tema della conciliazione tra vita e lavoro, che senz’altro ha riflessi positivi sul versante della prevenzione dei rischi psicosociali”. Ma i risultati, in termini della diffusione di buone prassi, “non paiono essere esaltanti”. E anche a livello europeo “il quadro non brilla, se è vero che il Report della Commissione europea dedicato, nel 2011, all’attuazione dell’Accordo quadro europeo sullo stress lavoro-correlato, dà conto di risultati ancora ampiamente insufficienti a riguardo”.
Tuttavia è evidente che il rapporto tra benessere organizzativo e produttività e la possibilità di inserire il tema nell’ambito della contrattazione collettiva dipendono, in realtà, “da come si declina la produttività medesima o, meglio, da quali misure si ritengono essenziali per incrementarla”.
Secondo alcuni autori il problema della scarsa produttività del sistema economico italiano“sarebbe legata non tanto al basso investimento quanto (o comunque ancor più) alla bassa efficienza marginale del capitale, cioè al ridotto contributo di produttività che dal capitale investito si ottiene”. E si è osservato che “la stessa produttività del capitale dipende, a sua volta, ‘in modo significativo da altri investimenti che le imprese fanno, o dovrebbero fare, sull’organizzazione propria e del lavoro, con pratiche innovative’, le c.d. best work organization practices (buone o migliori prassi organizzative) [1]. Un Report stilato dall’ Eurofound a chiusura di un’indagine, “che ha coinvolto più di 27mila stabilimenti, industriali e dei servizi, a livello europeo (Eurofound, 2011), ne ha individuate cinque, le più diffuse in ambito comunitario:
- flessibilità degli orari;
- retribuzioni legate alle performance;
- formazione;
- lavoro a squadre con autonomia decisionale;
- coinvolgimento dei lavoratorie delle loro rappresentanze nel definire l’organizzazione del lavoro”.
Tutte queste prassi – “con una minor incidenza solo per le pratiche di flessibilità oraria – sarebbero capaci di determinare un miglioramento del clima lavorativo, della gestione del personale e della produttività”.
Il problema è che, nell’indagine,l’Italia primeggia “in negativo proprio per la quota di luoghi di lavoro che non adotta nessuna delle pratiche di lavoro considerate: ben il 51% contro una media europea del 32%” [2].
In realtà nelle imprese italiane – continua l’autrice – “l’intervento organizzativo più in uso è quello della flessibilità oraria, intesa, per lo più, nel senso di una intensificazione dei ritmi di lavoro”. Anche se esiste, in verità, “un ambito entro cui l’ottimizzazione della produttività del lavoro è stata declinata dallo stesso legislatore in stretto collegamento con il tema del benessere organizzativo ed è quello della istituzione, nelle P.A., del Comitato unico di garanzia per le pari opportunità, la valorizzazione del benessere di chi lavora e contro le discriminazioni (art. 57, d.lgs. n. 165/2001)”.
In ogni caso, riguardo al tema dell’intervento, se poi dal settore pubblico si passa a quello privato, “è facile avvedersi della scarsa sensibilità dimostrata a ogni livello per il tema del benessere organizzativo”.
Terminiamo la breve presentazione dell’intervento, che si sofferma anche su contrattazione e partecipazione dei lavoratori, con alcune conclusioni dell’autrice.
Si indica come “l’effettiva capacità di contrattare e di partecipare dei lavoratori e dei propri rappresentanti in materia di sicurezza dipenderà dal livello delle relazioni sindacali aziendali e locali”: non vi può essere infatti “una rappresentanza per la sicurezza forte in un contesto di relazioni sindacali debole o persino inesistente, com’è, del resto, tipico di un tessuto economico di piccola impresa”.
In questo senso si auspica “una riforma della legislazione di sostegno della rappresentanza sindacale nei luoghi di lavoro”, una riforma che possa portare “effetti benefici sullo stesso tema della ‘partecipazione equilibrata’ in tema di salute, sicurezza e benessere al lavoro”.
Olympus – Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, “ La prevenzione dei rischi da stress lavoro-correlato. Profili normativi e metodiche di valutazione – Atti del Convegno Urbino – 8 novembre 2013”, a cura di Luciano Angelini (Professore aggregato di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo e Condirettore di Olympus), Working Paper di Olympus 31/2014 inserito nel sito di Olympus il 6 marzo 2014 (formato PDF, 978 kB).
Tiziano Menduto
[1] PINI P. (2013), Quell’organizzazione del lavoro che non cambia, in http://www.lavoce.info ,
15 febbraio
[2] RICCI M. (2013), Ecco le regole d’oro della produttività (ma in Italia metà delle imprese le
ignora), in http://www.ildiariodellavoro.it, 22 febbraio – PINI P. (2013), Quell’organizzazione del lavoro che non cambia, in http://www.lavoce.info, 15 febbraio
Tratto da: www.puntosicuro.it
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