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Diritti e obblighi del lavoratore in materia di sicurezza sul lavoro

L’importanza di contribuire all’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. L’art. 20 del D.Lgs. 81/2008, le responsabilità dei debitori di sicurezza e il principio di affidamento. A cura di Pietro Ferrari.
Brescia, 2 Apr – Nel D.Lgs. 81/08, il secondo comma dell’art. 20 (“Obblighi dei lavoratori”) specifica le modalità attraverso le quali assolvere all’obbligo generale di cui al comma 1:

comma 1.  Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro.

Del secondo comma, specifica rilevanza va evidenziata per la lettera a).

Questa lettera, pur manifestando il medesimo carattere impositivo delle rimanenti (il “deve”dell’obbligo generale rappresentato nel comma 1; e il “devono”, riferito agli obblighi particolari del  comma 2 ), prospetta insieme la generale qualità collaborativa e propositiva che – anche secondo la direttrice comunitaria – deve caratterizzare una corretta pratica della prevenzione:

  1. a) contribuireinsiemeal datore di lavoro, ai dirigenti e ai preposti, nell’adempimento degli obblighi previsti a tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro;

 

E’ appena il caso di richiamare come la direttiva madre (89/391/CEE) riferisca costantemente al contributo di “partecipazione equilibrata tra i datori di lavoro ed i lavoratori e/o loro rappresentanti [per la sicurezza]” (previsione, purtroppo, ancora troppo spesso disattesa).

Peraltro, a seguito dell’entrata in vigore della legislazione di derivazione comunitaria in materia di SSL (cd. <di seconda generazione>, cioè il D.Lgs. 626/94 prima, ed il D.Lgs. 81/08 oggi), i lavoratori non sono più considerati quali semplici creditori di sicurezza, in quanto tali solo destinatari di garanzie rispetto alla propria salute e sicurezza. Ma sono invece chiamati (obbligati) ad assumere un ruolo attivo nelle politiche delle prevenzione.

 

Vediamo allora come nella lettera a), il verbo “contribuire” assuma particolare cogenza e mostri – nella collocazione preminente rispetto al vecchio art. 5, comma 2, del D.Lgs. 626/94 –  l’intenzione del legislatore di investire il lavoratore di un proprio e autonomo ruolo nel sistema e nella disciplina prevenzionali.

Al punto che il lavoratore stesso potrà, in determinate circostanze, divenire depositario di una specifica posizione di garanzia iure proprio  [1]:

La fonte dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, menzionato nel capoverso dell’art. 40 c.p. [“non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”],  può consistere anche nella ‘posizione di garanzia’ assunta di fatto  [2] nei confronti di altra persona, che implica l’obbligo giuridico di comportarsi allo stesso modo di come sarebbe stato obbligato a comportarsi il soggetto tenuto dall’ordinamento, a tali funzioni di garanzia”,  fosse esso il datore di lavoro, il dirigente, il preposto o il delegato ex art. 16.

La Corte di Cassazione, prosegue rilevando come il D.Lgs. 626/94, art. 5 (ora, in modo rafforzato,  D.Lgs. 81/08, art. 20) abbia  “introdotto un nuovo principio: la trasformazione del lavoratore da semplice creditore di sicurezza nei confronti del datore di lavoro a suo compartecipe nell’applicazione del dovere di fare sicurezza, nel senso che il lavoratore diventa garante, oltre che  della  propria  sicurezza,  anche  di quella  dei  propri  compagni  di  lavoro o di altre  persone presenti,  quando  si  trovi  nella  condizione,  in ragione  di una posizione  di  maggiore esperienzalavorativa, di intervenire onde rimuovere le possibili cause di infortuni sul lavoro”.  (G.Porreca “Sulla posizione di garanzia di fatto assunta dal lavoratore”, commento a Cass.Pen. 01.09.2014, n.36452;  in  Puntosicuro, 7 gennaio 2015)

 

L’omissione della dovuta collaborazione costituisce perciò comportamento colpevole del lavoratore, rilevabile in sede giudiziaria. E insieme violazione dell’obbligo contrattuale di correttezza e buona fede (nell’adempimento del contratto), violazione che espone il lavoratore a misure disciplinari.

Infatti essa, al vaglio giudiziario, può portare a dedurre la responsabilità colposa del lavoratore, vale a dire che la condotta del lavoratore abbia avuto efficienza causale nel verificarsi dell’evento lesivo della sua propria integrità psicofisica. La norma posta a fondamento di tale valutazione (e della decisione conseguente), è l’art. 41 del codice penale :

 

Art. 41

Concorso di cause……

Il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento. …

Tale previsione àncora il datore di lavoro alla propria, originaria, posizione di garanzia; e dunque alla responsabilità. E però il capoverso decide che:

Le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento.

 

La qual cosa significa che qualora il comportamento del lavoratore (la causa sopravvenuta) si qualifichi come abnorme – per ciò imprevedibile – e allora da solo sufficiente “a determinare l’evento”, verrà a interrompersi il nesso causale di cui alla prima parte dell’art 41, così liberando il datore di lavoro da responsabilità. Responsabilità che, per converso, ricadrà sul lavoratore.

Significa anche che – tenendo conto del criterio di proporzionalità – il lavoratore risulterà sanzionabile sotto l’aspetto disciplinare. (Si tratta qui del criterio di proporzionalità previsto dalla contrattazione collettiva, e da applicarsi nei casi meno gravi. In quelli invece rilevanti, ben potrebbe operare la stessa risoluzione del rapporto di lavoro per la caduta del legame fiduciario che lega i contraenti nei contratti a prestazioni corrispettive).

 

A conseguenza di quanto sin qui considerato (che consegna, mi pare senza pregiudizi, il quadro delle diverse responsabilità), appare evidente come il lavoratore abbia il diritto di sottrarsi a situazioni di rischio, anche negando la prestazione lavorativa, per la salvaguardia della propria e altrui incolumità.

Presupposto di questo diritto è naturalmente l’inadempimento del datore di lavoro, in  presenza del quale il lavoratore può far valere la cd. eccezione di inadempimento, ex art. 1460 cod.civ., rifiutando di eseguire la prestazione lavorativa rischiosa.

 

Art. 1460

Eccezione di inadempimento

Nei contratti a prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, …

 

La stessa Cassazione civile ha stabilito che “secondo il più recente orientamento di questa Corte, il rifiuto, da parte del lavoratore subordinato, di svolgere la prestazione lavorativa …può essere legittimo – e quindi non giustificare il licenziamento- in base al principio di autotutela nel contratto a prestazioni corrispettive enunciato dall’art. 1460 cod. civ., sempre che il rifiuto sia proporzionato all’illegittimo comportamento del datore di lavoro e conforme a buona fede” .(Cass, Civ. Sez.Lavoro,24.01.2013, n.1693)

 

Questo diritto, e obbligo (ex art. 20, D.Lgs. 81/08), non riferisce esclusivamente alle situazioni di emergenza e di pericolo grave, immediato ed inevitabile, di cui agli artt. 18, comma 1, lett. h), i), m), e 20, comma 2, lett. e), ma va posto in essere ogni qualvolta in lavoratore si trovi nella condizione di dover, altrimenti, porre in atto modalità rischiose di lavoro.

Articolo 18 – Obblighi del datore di lavoro e del dirigente

  1. Il datore di lavoro, che esercita le attività di cui all’articolo 3, e i dirigenti, che organizzano e dirigono le stesse attività secondo le attribuzioni e competenze ad essi conferite, devono:
  2. h) adottare le misure per il controllo delle situazioni di rischio in caso di emergenzae dare istruzioni affinché i lavoratori, in caso di pericolo grave, immediato ed inevitabile, abbandonino il posto di lavoro o la zona pericolosa;
  3. i) informare il più presto possibile i lavoratori esposti al rischio di un pericolo grave e immediato circa il rischio stesso e le disposizioni prese o da prendere in materia di protezione;
  4. m)  astenersi, salvo eccezione debitamente motivata da esigenze di tutela della salute e sicurezza, dal richiedere ai lavoratori di riprendere la loro attività in una situazione di lavoro in cui persiste un pericolo grave e immediato;

 

Articolo 20 – Obblighi dei lavoratori

  1. I lavoratori devono in particolare:
  2. e) segnalare immediatamente al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei mezzi e dei dispositivi…, nonchéqualsiasieventuale condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza, adoperandosi direttamente, in caso di urgenza, nell’ambito delle proprie competenze e possibilità e fatto salvo l’obbligo di cui alla lettera f) [“non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o di segnalazione o di controllo”] per eliminare o ridurre le situazioni di pericolo grave e incombente, dandone notizia al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza;

 

Come si noterà, il cuore dell’obbligo giuridico è compreso e risolto nel “qualsiasi condizione di pericolo”.

A ciò conseguendo che, nell’impossibilità di segnalare o nel caso di segnalazione non considerata, possa decidersi il diniego alla prestazione lavorativa rischiosa. (In realtà: debbadecidersi il diniego; onde evitare di venirsi a trovare in una posizione antigiuridica).

 

E’ sempre la corte di Cassazione ad affermarlo: “il lavoratore sapeva (o era tenuto a sapere, in ragione della sua professione) che per evitare sinistri l’area entro la quale la macchina operava doveva essere delimitata e che nell’impossibilità di segnalare la mancanza di tale delimitazione al datore di lavoro o al suo preposto doveva astenersi dal lavoro per prevenire infortuni“. (Cass.Pen. 13.02.2001, n. 5893)

 

Similmente, la Corte giudica che “il mancato o non completo adempimento, da parte del lavoratore, della prestazione secondo le modalità  specificate dal datore di lavoro può, in ipotesi, trovare una sua giustificazione nell’adozione da parte del datore di lavoro di misure inidonee a tutelare l’integrità fisica del prestatore di lavoro,”.   Il lavoratore, però, per sua parte, dovrà aver provveduto “ad informare il datore di lavoro circa le misure necessarie da adottare, ovvero ad evidenziare l’inidoneità di quelle adottate.” [3]  (Cass.Civ. Sez.Lavoro, 07.05.2013, n. 10553)

 

Naturalmente, (secondo i criteri di ragionevolezza e di responsabilità), ciò non dovrà comportare l’addossamento del rischio ad altri: colleghi, altri lavoratori o terzi.

 

Rispetto invece all’obbligo di adoperarsi direttamente – sia pure nell’ambito delle proprie competenze e possibilità – in caso di urgenza e in presenza di pericolo grave e incombente, deve valere un criterio assolutamente prudenziale. Se infatti talvolta è sufficiente togliere immediatamente  l’alimentazione elettrica, o utilizzare correttamente un estintore, non si deve però ripetere la disperata e tragica lotta che nella notte del 6 dicembre 2007 portò alla morte di sette operai nella fabbrica della ThyssenKrupp a Torino.

Al proposito, non aiuta l’indeterminatezza della specifica norma posta a tutela del diritto del lavoratore, l’art. 44 del D.Lgs. 81/08, pur se “giustificata” dal suo carattere generale:

 

Articolo 44 – Diritti dei lavoratori in caso di pericolo grave e immediato

  1. Il lavoratore che, in caso di pericolo grave, immediato e che non può essere evitato, si allontana dal posto di lavoro o da una zona pericolosa, non può subire pregiudizio alcuno e deve essere protetto da qualsiasi conseguenza dannosa.
  2. Il lavoratore che, in caso di pericolo grave e immediato e nell’impossibilità di contattare il competente superiore gerarchico, prende misure per evitare le conseguenze di tale pericolo, non può subire pregiudizio per tale azione, a meno che non abbia commesso una grave negligenza.

 

Lo stesso utilizzo del termine “pericolo” (Hazard) da parte del legislatore sembra avere carattere psicologico, mentre, con ogni probabilità, ci troviamo già in una condizione di rischio (Risk) o, talvolta, persino nell’eventuazione del rischio in danno.

 

Comunque – ed è ciò che qui preme -, quanto considerato porta a sottolineare l’importanza capitale e inderogabile di puntuali procedure di sicurezzascritte e portate a conoscenza dei lavoratori.

Si richiama che queste rappresentano contemporaneamente un compito del  Servizio di prevenzione e protezione (art. 33, comma 1, lett. c); ) ed un obbligo – giuridicamente indelegabile – per il datore di lavoro (art. 28, comma 2, lett. d);); e che la loro osservanza, rappresenta altresì un obbligo, penalmente sanzionato, per il lavoratore (art. 20, comma 2, lett. b)) :

” b) osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale;”

 

Dunque, entro i termini della diligenza, dell’esperienza e della prudenza, il lavoratore che si sottragga a una condizione di rischio non “controllato”, non potrà essere imputabile, nè sanzionabile.

 

Per illustrare il caso opposto, si propone – a mero titolo esemplificativo – una sentenza della Corte di Cassazione, chiamata a decidere sulla responsabilità di un comportamento, poigiudicato abnorme:

 

un lavoratore, dovendo svolgere lavori in altezza ed essendo al momento occupato il carrello elevatore, posizionava con l’aiuto di un altro operaio un cestello sopra le forche di un muletto facendosi con quello sollevare. Il ribaltamento del cestello provocava una caduta da circa cinque metri, con esito letale.

Già la Corte di appello, diversamente dal giudice di primo grado, aveva giudicato che l’unico responsabile andasse individuato nel collega di lavoro della vittima, il quale “coscientemente aveva aiutato la vittima a porre in atto modalità pericolose di lavoro, pur potendo rifiutare la collaborazione e denunciare l’imprudenza.”

La Corte di legittimità concludeva per la responsabilità di questo lavoratore, argomentando che “nessun rimprovero può essere formulato [nei confronti del datore di lavoro] se la condotta pretesa non poteva considerarsi esigibile in quanto del tutto imprevedibile era la situazione di pericolo da evitare”.   (Cass.7267/2010 cit.)

 

Ciò stà ad evidenziare che “..la posizione di garanzia è solo il presupposto giuridico della responsabilità, la quale, poi, per essere concretamente affermata implica il riconoscimento della “colpa” del garante.”   (Patrizia Piccialli – Consigliere della IV Sezione penale della Corte di Cassazione  “Omicidio colposo e lesioni personali colpose sul luogo di lavoro: condotta penalmente rilevante e interruzione del nesso causale”)

 

A conclusione, seguendo un’impressione non più che personale, parrebbe anche che, nell’ambito del riconoscimento della colpa, stia assumendo rilievo l’attenzione verso il cd. principio di affidamento.

 

Il principio di affidamento – per quanto qui di interesse – prevede che il datore di lavoro il quale abbia adempiuto ai suoi obblighi di sicurezza, ha diritto di attendersi (fare legittimo affidamento) che il lavoratore adempia correttamente ai suoi di obblighi: ossia che osservi diligentemente” le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva ed individuale;”, secondo la prescrizione che – nella gerarchia dell’art. 20, procedente dal generale allo specifico -, è collocata nella lett. b) del comma 2.

 

“A queste conclusioni, d’altra parte, la stessa Corte di Cassazione era giunta in una precedente sentenza del 1993, che, a quanto consta, rappresenta l’unico caso in cui si è fatta applicazione espressa del principio di affidamento alla materia degli infortuni sul lavoro”.

La Corte, nella sentenza in oggetto, era chiamata a giudicare la responsabilità dei “responsabili dell’organizzazione” rispetto ad una esplosione disastrosa (verificatasi durante un travaso di  carburante) causata dal comportamento – poi giudicato gravemente colpevole – di due lavoratori; i quali, nella circostanza, avevano perso essi stessi – insieme ad altre persone – la vita.

La Corte conclusivamente decideva per la non colpevolezza dei responsabili dell’organizzazione, considerando che “i due operai infatti, erano altamente specializzati ed erano stati posti nelle condizioni migliori ..per svolgere il loro lavoro..”.

“I responsabili dell’organizzazione, dunque, facendo leva sul principio dell’affidamento, nonavevano alcun valido motivo per sospettare che quei lavoratori, dotati di particolare competenza, sarebbero venuti meno all’elementare dovere di stare svegli nel momento della esecuzione di quella tutt’altro che difficile manovra di chiusura di un rubinetto e di apertura di un altro rubinetto.” (cit. di Cass. 09.02.1993 in: Adelinda Moretti “Cooperazione colposa e principio di affidamento nei delitti colposi di evento causalmente orientati”, cap. II, par. IV: Il principio di affidamento nel rapporto tra datore di lavoro e lavoratore; 2005).

 

Per inverso (nel senso cioè di decidere la non invocabilità del principio di affidamento) si è pronunciata di recente la Cassazione:

“Non è neanche utilmente invocabile nel caso in esame il principio di affidamento, in forza del quale il soggetto titolare di una posizione di garanzia, come tale tenuto giuridicamente ad impedire la verificazione di un evento dannoso, può andare esente da responsabilità quando questo possa ricondursi alla condotta esclusiva di altri, (con)titolare di una posizione di garanzia, sulla correttezza del cui operato il primo abbia fatto legittimo affidamento.

Come costantemente affermato da questa Corte (v. da ultimo, Sez. IV, 24 gennaio 2012, n.14413, Cova ed altri, rv. 253300), il principio di affidamento non è invocabile sempre e comunque, dovendo contemperarsi con il concorrente principio della salvaguardia degli interessi del soggetto nei cui confronti opera la posizione di garanzia…

In altri termini, non può invocarsi legittimamente l’affidamento nel comportamento altrui quando colui che si affida sia (già) in colpa per avere violato determinate norme precauzionali o per avere omesso determinate condotte e, ciononostante, confidi che altri, che gli succede nella posizione di garanzia, elimini la violazione o ponga rimedio alla omissione: …”  (Cass.Pen. 30.08.2013, n. 35827).

 

Recentissima, invece, la pronuncia della Cassazione civile, la quale confuta “il principio di diritto esposto dalla Corte di merito secondo la quale  <la responsabilità penale può essere affermata non quando manchi semplicemente la prova liberatoria  di aver tutelato l’incolumità dei dipendenti  [che è appunto a base del principio di affidamento, ex art. 1218 cod.civ.], ma soltanto[quando] sussista la prova positiva della omissione di comportamenti doverosi>”.

E lo confuta sulla base  del “consolidato orientamento di questa Corte.. secondo cui …

“in presenza di una fattispecie contrattuale che, ..obblighi uno dei contraenti (il datore di lavoro) a prestare una  particolare protezione rivolta ad assicurare l’integrità fisica e psichica dell’altro (ai sensi dell’art. 2087 c.c.), la fattispecie astratta di reato è configurabile anche nei casi in cui la colpa sia addebitata al datore di lavoro per non aver fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 c.c. ..”.  

(Cass.Civ., Sez.Lav. 03.02.2015, n. 1918)

Art. 1218

Responsabilità del debitore.

Il debitore [qui il datore di lavoro, debitore generale di sicurezza] che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento […] è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.

Anche se il legittimo affidamento è solitamente ricondotto alla clausola generale di buona fede – e dunque alle corrispondenti norme del codice civile, relative alla formazione ed esecuzione del contratto -, la “prova liberatoria” può dirsi si ponga a base del principio di affidamento in quanto determina la “prova” dell’esatto adempimento di sicurezza. Così giustificando nel datore di lavoro il legittimo affidamento sull’operato del lavoratore in rispetto delle misure correttamente adottate.

 

Perché possa operare il principio di affidamento, non sarà tuttavia ancora sufficiente che il datore di lavoro abbia adempiuto ai suoi obblighi di tutela, se non ha posto in essere – anche tramite le diverse figure a ciò preposte – un comportamento vigile sull’osservanza da parte del lavoratore dei doveri suoi propri, ex art. 20.  Infatti il principio di affidamento deve confrontarsi colprincipio di non acquiescenza, il quale è connaturato dall’obbligo per il datore di lavoro di verificare (“in concreto ..avere la consapevolezza..”) il rispetto da parte  del lavoratore delle misure preventive e protettive adottate; altrimenti configurandosi una sua culpa in vigilando(colpa per omessa vigilanza).

 

Né potrà, il principio, operare “con riguardo a quelle norme cautelari, che prescrivono misure ispirate al principio di sicurezza obiettiva [strutture, impianti, macchinari, dispositivi] cioè non dipendenti dalla collaborazione del lavoratore”,  o  “nella ipotesi in cui il datore di lavoro, ed i soggetti ad esso equiparati, abbiano avuto occasione di percepire l’esistenza di una prassi lavorativa in violazione della normativa antinfortunistica -che presuppone, quindi, la durata nel tempo di tale attività- e non siano intervenuti per impedirla.” (Patrizia Piccialli, cit.)

 

Vale dunque la massima che non può invocare l’affidamento chi versa in colpa, chi abbia cioè violato una regola precauzionale.

Infatti“..come più volte affermato, detto principio, ..non opera allorché il mancato rispetto da parte di terzi delle norme precauzionali di prudenza abbia la sua prima causa nell’inosservanza di tali norme da parte di colui che invoca il suddetto principio,”  Cass.Pen. 10.07.2014, n.30483)

 

 

Buon lavoro

 

 

Pietro Ferrari

Commissione salute e sicurezza sul lavoro – Filcams-Brescia

 

 

 

[1] La tesi posta ad affermare -comunque- una posizione originaria di garanzia (iure proprio) del lavoratore, pone problemi complessi, ermeneutici prima (alla dottrina) eppoi di esegesi (alla magistratura di legittimità). Come aspetto “critico” al porsi di tale tesi, sembrerebbe tuttavia operare la correlazione tra presidio costituzionale e art. 2087 c.c., con la posizione del lavoratore in quanto  <soggetto debole> all’interno del rapporto contrattuale.

[2] nel caso in considerazione, dal lavoratore più anziano ed esperto.

[3] Vale forse annotare  che, di norma, l’eccezione di inadempimento è sottoposta al criterio di proporzionalità, cioè di valutazione comparativa dei comportamenti dei contraenti; anche se, nel campo prevenzionale sembra configurarsi, invece, come “assoluta”, avendo ad oggetto beni primari e indisponibili (salute, dignità della persona), garantiti costituzionalmente. Il diniego -o rifiuto alla prestazione- ha valore peraltro contingente, legato all’attesa/aspettativa della risoluzione dell’inadempimento di sicurezza da parte della figura obbligata. In questo senso, il principio giuridico dell’inadimplenti non est adimplendum (a colui che è inadempiente non è dovuto alcun adempimento), lungi dall’assumere valenza ontologica o di slavarsi nella generalizzazione, dovrebbe connettersi precisamente nel sistema di fonte costituzionale e codicistica. Oltre che, successivamente, nella previsione speciale.

 

 

Tratto da: puntosicuro.it

 

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