Cosa si intende per formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza? Di Renata Borgato.
In questo articolo ci riferiamo alla formazione erogata per assolvere l’obbligo definito dal d.lgvo 81/08 e dall’Accordo Stato Regioni del dicembre 2011.
L’articolo 2, comma 1, lettera aa) del “testo unico” definisce la “formazione” come “processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”. Allude quindi a non una singola attività, volta a realizzare un adempimento di tipo formale (magari prevalentemente diretto a evitare sanzioni), quanto a un vero e proprio insieme di iniziative finalizzate a permettere a ciascuno di accrescere le proprie conoscenze in materia di prevenzione dei rischi sul lavoro, di migliorare le proprie capacità operative e soprattutto di aumentare la consapevolezza dell’importanza della prevenzione e della protezione in ogni ambiente di lavoro. La condivisione di questo principio cardine tra tutte le figure (lavoratori, preposti, dirigenti, medico competente, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) costituisce la prima e più efficace misura di prevenzione in quanto allinea gli insegnamenti erogati durante le attività formative “ufficiali” con la cultura diffusa nel luogo di lavoro e con l’organizzazione d’impresa. Se l’impegno aziendale è concentrato in altre direzioni, per esempio sulla produttività, e a questa priorità viene sacrificata la prevenzione, quello che i dipendenti percepiranno, al di là delle dichiarazioni di facciata, è che la sicurezza si può trascurare: quando c’è uno scollamento tra quanto viene detto e quanto viene agito, quello che passa realmente è ciò che viene fatto.
Lo scollamento tra quanto viene ufficialmente detto nelle aule e nelle convention e quanto poi realmente avviene durante il lavoro ha necessariamente delle ripercussioni sui comportamenti dei sottoposti e le contraddizioni si scaricano ai livelli inferiori, spesso proprio sui preposti, chiamati da un lato a vigilare sul rispetto delle norme di sicurezza e dall’altro a farle disattendere per privilegiare le esigenze produttive. O, in alcuni casi, a violarle essi stessi.
Per migliorare la sicurezza nei luoghi di lavoro, occorre dunque ridurre queste discrasie in quanto i risultati della formazione “formale” non possono che essere influenzati dalla formazione “informale” che percorre ogni attività presente nel posto di lavoro. Paradossalmente è questa formazione continua e pervasiva che orienta maggiormente gli atteggiamenti e di conseguenza i comportamenti delle persone. Nulla incide quanto la coerenza dei messaggi e l’esempio concreto, ripetuto e generalizzato.
Dunque, se si vuole far crescere la cultura della sicurezza, ciascuno, coerentemente con il ruolo che ricopre, deve mandare un segnale non contraddittorio che contribuisca al rafforzamento di essa.
Le norme indicano anche le caratteristiche che la formazione dovrebbe avere: sia nell’art. 37 del d. 81 che nell’accordo stato Regioni ricorrono gli aggettivi “sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza”.
Si tratta però di definizioni vaghe. Sufficienti rispetto a cosa? Adeguate a che?
Questa ambiguità consegna la risposta all’interpretazione di chi progetta i percorsi formativi che, di conseguenza, risultano assai disomogenei tra loro. La formulazione stessa dei programmi che compare nell’Accordo Stato Regioni autorizza a privilegiare la sfera delle conoscenze a scapito della costruzione di atteggiamenti. Peraltro concentrarsi sulla trasmissione di contenuti risulta molto più facile che cercare di incidere sulla cultura delle persone. Nel primo caso basta padroneggiare gli argomenti o anche, semplicemente, preparare delle slides da snocciolare in aula. Nel secondo occorre confrontarsi con i discenti e con le loro cornici interpretative.
Il savoir faire che si richiede ai formatori in questo caso è assai più complesso e articolato e comprende la capacità di ascoltare, di confrontarsi, di valorizzare le esperienze e le diversità, di comporre conflitti, di gestire le proprie e altrui emozioni. I contenuti cessano a questo punto di costituire il baricentro per l’azione formativa, ma divengono il pretesto per acquisire quel “deuteroapprendimento” cui faceva cenno Bateson. E quando si è imparato ad apprendere, questa competenza può essere trasferita da un contesto all’altro.
Di conseguenza la formazione dovrebbe essere giudicata sufficiente solo nel caso in cui abbia prodotto effetti abilitanti, cioè quando chi è stato coinvolto sia in grado di elaborare pensieri autonomi in materia di sicurezza, di assumere comportamenti sicuri anche in situazioni non previste e di scegliere tra più opzioni comportamentali quelle adeguate a prevenire il rischio. Si dovrebbe definire “adeguata” una formazione che contribuisca a ridurre quell’80% di eventi indesiderati che continuano a verificarsi. Eventi, lo abbiamo già detto, dovuti all’errore umano.
Un’apertura in questo senso si può scorgere nell’art. 3 dell’Accordo Stato Regioni ove si dice “la metodologia di insegnamento/apprendimento privilegia un approccio interattivo che comporta la centralità del lavoratore nel percorso di apprendimento” e specifica che è opportuno” garantire un equilibrio fra lezioni frontali, esercitazioni teoriche e pratiche e relative discussioni nonché lavori di gruppo… favorire metodologie di apprendimento interattive ovvero basate sul problem solving, applicate a simulazioni e situazioni di contesto su problematiche specifiche … prevedere dimostrazioni, simulazioni in contesto lavorativo e prove pratiche…”
Le indicazioni non sono precisissime e scontano probabilmente il fatto che nella stesura del testo dell’Accordo gli esperti di andragogia e i metodologi abbiano avuto poca o nessuna voce in capitolo. Leggendo il testo, si sente che a proposito di metodologie si è solo orecchiato, senza andare a fondo. Sarebbe infatti bastato un più preciso riferimento per esempio alla notissima teoria dell’Experiential Learning di David Kolb [1]per dare riferimenti operativi più chiari e per evitare quell’enfatizzazione dei contenuti che inficia l’efficacia di molti interventi formativi in materia di sicurezza.
Il decreto 81 sembra comunque alludere in qualche modo a una centratura sul ricevente, cioè a un’attenzione a rendere fruibile per i discenti quanto il docente dice, ove prescrive che il contenuto della formazione sia facilmente comprensibile per i lavoratori e che consenta loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Lo stesso comma prosegue disponendo la “verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo” “ove la formazione riguardi lavoratori immigrati”.
Le non confortanti rilevazioni della conoscenza della lingua italiana da parte di cittadini di madre lingua [2]suggeriscono se non di proporre una prova analoga per i lavoratori italiani almeno una verifica iniziale della loro padronanza della lingua e una costante rilevazione della comprensione, soprattutto quando si faccia uso del linguaggio di precisione [3] o di sigle, acronimi ecc. Né i risultati dell’indagine Pisa [4] fanno sperare che ci si possa aspettare competenze maggiori da parte dei più giovani.
Renata Borgato
Docente, formatrice e consulente aziendale
[1] L’apprendimento esperienziale è un processo dove la costruzione della conoscenza avviene passando attraverso l’osservazione e la trasformazione dell’esperienza. Il ciclo è composto da quattro differenti stadi, l’esperienza concreta, l’osservazione riflessiva, la contestualizzazione astratta e la sperimentazione attiva. Questi quattro stadi sostengono un processo di apprendimento efficace e completo. È possibile iniziare l’apprendimento da qualsiasi punto del ciclo, e ciascuno stadio ha bisogno di abilità diverse per essere svolto nel migliore dei modi.
[2] Vedere in proposito, per esempio, le osservazioni del linguista Tullio De Mauro che, partendo da alcuni dati raccolti da due ricerche straniere dice che il 71% della popolazione si trova sotto il livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà. Quindi secondo gli studi solo il 29% possiede gli strumenti linguistici per usare con padronanza la lingua nazionale. Il 5% non è in grado neppure di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma decifrare solo testi di primo livello su una scala di 5 ed è a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di 2° livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita quotidiana (fonte La Repubblica, 28/11/2011).
[3] Con linguaggio di precisione qui si indica il linguaggio specifico di qualunque disciplina, adatto a esprimere in modo puntuale ed economico un concetto, utile per gli addetti ai lavori, ma non sempre immediatamente comprensibile per gli altri.
[4] Secondo le rilevazioni Pisa (indagine internazionale promossa dall’OCSE per valutare il livello di istruzione degli adolescenti dei 65 principali paesi industrializzati) l’Italia è sotto la media OCSE: 1/5 degli studenti quindicenni italiani ha problemi con la lingua: Alla fine delle scuole superiori gli studenti dovrebbero capire l’articolo di fondo di un giornale, ma tra il 33 e il 40% degli studenti non capisce neppure i test Pisa, che pure sono più facili di esso. In particolare non capiscono le parole e i predicati verbali astratti (es. esimere, desumere)
Fonte: puntosicuro.it
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