Mobbing e stress: l’importanza del contesto organizzativo
Un documento si sofferma sull’organizzazione del lavoro come sistema vivente e sul contesto in cui sorge l’azione del mobbing. La necessità di diagnosi in grado di declinare il disagio lavorativo su un piano organizzativo.
Milano, 25 Ott – Adriano Olivetti nel 1955 disse ai lavoratori di Pozzuoli che la fabbrica era concepita ‘alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza’. Una frase che sottolinea la convinzione che “non si può pensare agli aspetti economici di un’impresa senza pensare alle persone che ‘abitano’ il contesto dell’azienda” e la dimensione umana “resta un elemento con cui è doveroso fare i conti se si vuole riuscire a costruire qualcosa di importante e di utile”.
A ricordare questa frase di Olivetti e a parlare di dimensione umana e organizzazione è un intervento che si è tenuto ad un workshop di Firenze – organizzato dall’Associazione Italiana Benessere e Lavoro (un’associazione che continua l’esperienza del Network sullo Stress e il Disagio Lavorativo attivo presso l’ISPESL tra il 2006 e il 2010) – e che è stato presentato al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” organizzato da AIBEL, ATS Milano e SNOP (Milano, 7 giugno 2016).
Nell’intervento “L’organizzazione del lavoro come sistema vivente: Analisi organizzativa, valutazione del rischio lavoro correlato e limiti delle metodologie semplificate” , a cura del Dr. Enzo Cordaro (Presidente Associazione Italiana Benessere e Lavoro), ci si sofferma in particolare sul disagio sul lavoro, con particolare riferimento al fenomeno del mobbing e al lavoro dei vari Centri Clinici che operano in relazione al tema del disagio lavorativo.
Come interpretare il fenomeno del mobbing?
Per rispondere a questa domanda si indica che è importante provare a comprendere con precisione il “contesto organizzativo in cui sorge l’azione del mobbing, rivolgendo l’attenzione sulla cultura organizzativa che orienta i comportamenti delle persone che insistono in quell’organizzazione”. È importante altresì “svincolare l’analisi fino ad ora quasi esclusivamente riferita ai due ‘contendenti’ (mobber e mobbizzato) come gli attori principali di uno scenario che sembrava apparire come avulso dal contesto in cui il conflitto si generava”.
È insomma necessario “vedere la ‘scena’ inquadrata con un ‘grandangolare’ e non con un ‘teleobbiettivo’”: si deve “guardare anche il contorno della complessità di quello che si ‘muove’ nella realtà in cui si genera il problema mobbing, e non si deve rimanere chiusi nella stretta analisi duale”.
Infatti – continua l’analisi del documento – il mobbing si può considerare come il “frutto di una degenerazione della relazionalità che ha le sue origini nell’ambito di un processo organizzativo che imposta atteggiamenti e comportamenti riferiti a una cultura dominante: se nella cultura di un’organizzazione si potenziano comportamenti in cui la solidarietà nelle relazioni è bandita a favore di una feroce ed esasperata competitività, se le relazioni di funzionamento dell’organizzazione non prevedono la capacità di adeguamento da parte delle persone, se l’efficienza delle prestazioni non si rapporta ad un’adeguata efficacia delle azioni, se i processi comunicativi sono interdetti a favore di un controllo esasperato delle relazioni, se non c’è la volontà di risolvere la conflittualità relazionale che si può generare all’interno dei gruppi di lavoro, siamo, conseguentemente, in una condizione di forte rischio sociale che in quell’organizzazione può esprimere un’azione espulsiva delle persone”.
E tra l’altro è la stessa Associazione Italiana Benessere e Lavoro (AIBeL) a proporre un sistema interpretativo “articolato all’interno di una processualità che si compie nell’ambito di un contesto che si riferisce alla struttura dell’organizzazione dell’impresa e che detta le regole di funzionamento alle persone, le quali condizionano il modo di lavorare, e impostano una cultura organizzativa che definisce comportamenti e modelli comunicativi e relazionali tra i soggetti”.
Se si chiarisce l’importanza del contesto organizzativo “che funziona come setting in cui si generano e si caratterizzano le relazioni”, ci si può riferire al mobbing come fenomeno processuale. Si può considerare la processualità che “induce alla definizione della qualità della vita interna a quell’organizzazione; ovvero la complessità dinamica in cui si articola la relazionalità dei soggetti per saper distinguere e comprenderne la dinamica sociale e valutarne la disfunzionalità”.
Ad esempio quando in un’azienda “si configura una condizione di precarietà che impone programmi di emergenza e non si ha la capacità di proporre un progetto stabile per il superamento del conflitto, si può definire una situazione di rigidità nelle regole organizzativeche possono aggravare la complicazione concernente le costrittività organizzative (aumento della quantità di lavoro, riduzione delle garanzie, incremento dei controlli ossessivi, diminuzione dei tempi di riposo etc.), che riducono lo spazio di autonomia lavorativa individuale e aumenta la fatica”. Ed è una condizione che “genera stanchezza fisica e psichica, caduta dell’attenzione, incremento dell’errore, irritabilità, noia e aggressività. In questa situazione il disagio individuale può assumere anche connotazioni alte, si può incrementare il rischio clinico, ma il rischio dell’insorgenza di patologie stress lavoro correlato sono limitate”.
Qualora poi il sistema dei provvedimenti provvisori “divenga stabile nel tempo, la dimensione dell’organizzazione incrementa ulteriormente il livello di costrittività, aumenta il livello di fatica e il disagio invade anche la sfera più intima che riguarda la percezione del sé riferito alle proprie competenze lavorative. In questo caso si attiva anche la costrittività esistenziale del lavoro, che si riferisce alla stabilità dell’immagine che le persone costruiscono all’interno del ruolo e delle attività che ricoprono sul posto di lavoro, e misura il livello di scostamento dall’immagine soggettiva della realtà in cui ciascun soggetto è inserito. Questo non fa che implementare il disagio apportando, ai problemi sopra citati, altri problemi, come il disinteresse all’attività lavorativa, la caduta dell’immagine positiva di sé, il senso d’inutilità, un certo disturbo dell’umore con connotazioni depressive, l’ansia come emozione prevalente che accompagna l’atto lavorativo, reazioni psicosomatiche”.
E se il sistema vivente – l’organizzazione lavorativa – non riesce ancora a trovare soluzioni per recuperare quanto descritto, la “condizione successiva caratterizza l’insorgenza delle costrittività relazionali, che definisce una condizione dove si esplica una dominanza delle modalità comunicativa simmetrica rigida, si incrementa la conflittualità e la confusione sui contenuti dello scambio comunicativo (l’oggetto del confronto perde la sua identità cognitiva per caratterizzarsi solo come dominante emotiva di espressione di potere), si altera l’affettività, il gruppo diviene competitivo e conflittuale, si genera una condizione di passività relazionale, che caratterizza una cultura del sistema con aspetti ansiosi e paranoidei”.
E in una situazione di disallineamento delle reti conversazionali e rottura delle architetture comunicative si può arrivare alla “tempesta perfetta”, situazione “in cui da un rischio di patologiestress lavoro correlato, si passa ad un forte rischio dove si attivano atteggiamenti di mobbing e, ancora più grave, si generano nuclei di reti morenti, ovvero nuclei che non riescono più a garantire una rete comunicativa e un passaggio comunicativo adeguato alle esigenze di una buona organizzazione, implementando il disagio e l’incomunicabilità dei settori dell’organizzazione”.
In definitiva questa visione sistemica “dove i soggetti di un’organizzazione sono direttamente rapportati al contesto che li contiene, non può essere soddisfatta da una diagnosi di tipo fenomenologico, utile per inquadrare la sofferenza individuale”. È necessaria anche una “diagnosi proposizionale”, una “diagnosi capace di declinare quel disagio sul piano organizzativo”.
L’intervento, che vi invitiamo a leggere integralmente e che si conclude parlando dei compiti deicentri clinici delle Aziende Sanitarie Locali e delle Aziende Ospedaliere Universitarie che attualmente si occupano del disagio mobbing compatibile e della certificazione delle patologie mobbing correlate, sottolinea infine la dimensione sociale e organizzativa.
Infatti in una diagnosi di disagio da lavoro “non si possono non tenere in considerazioni tutte le parti che compongono il sistema, perché è solo se riusciamo a leggere il dato complessivo che possiamo avere una giusta considerazione delle dimensioni specifiche, ad esempio del disagio individuale”. E non si può pensare di “definire la correlazione tra il disagio individuale e la dimensione lavorativa se non si conoscono le condizioni della dimensione sociale in cui il soggetto esplica la sua attività lavorativa”.
“ L’organizzazione del lavoro come sistema vivente: Analisi organizzativa, valutazione del rischio lavoro correlato e limiti delle metodologie semplificate” , a cura del Dr. Enzo Cordaro (Presidente Associazione Italiana Benessere e Lavoro), intervento al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” (formato PDF, 130 kB).
Tiziano Menduto
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Fonte: puntosicuro.it
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