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Attrezzature e Testo Unico: un interpello sull’applicazione dell’art. 23

Roma, 15 Gen – Dopo le critiche e gli articoli, anche del nostro giornale, sull’anomala fase di stasi della Commissione Interpelli prevista dall’articolo 12 comma 2 del Testo Unico in materia di salute e sicurezza nel lavoro e istituita con Decreto Direttoriale del 28 settembre 2011, torniamo finalmente a presentare un nuovo chiarimento in ambito normativo rilasciato dalla Commissione il 20 dicembre 2017.

 

La Commissione Interpelli, presieduta ora dalla Dott.ssa Maria Teresa Palatucci (attuale dirigente della Divisione III “Tutela e promozione della salute e sicurezza sul lavoro” della Direzione Generale dei rapporti di lavoro e delle relazioni industriali del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali), si sofferma su uno dei temi e dei rischi più rilevanti in materia di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro: la sicurezza nell’uso di macchine e attrezzature. E lo fa in risposta ad un quesito sull’articolo 23 del Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro (D.Lgs. 81/2008) in materia di fabbricazione, vendita, noleggio e concessione in uso di attrezzature di lavoro.

 

Articolo 23 – Obblighi dei fabbricanti e dei fornitori

  1. Sono vietati la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti in materia di salute e sicurezza sul lavoro.
  2. In caso di locazione finanziaria di beni assoggettati a procedure di attestazione alla conformità, gli stessi debbono essere accompagnati, a cura del concedente, dalla relativa documentazione.

 

Veniamo dunque all’Interpello n. 1/2017 del 20 dicembre 2017, che ha per oggetto il “Quesito ai sensi dell’articolo 12 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni relativo all’articolo 23, del d.lgs. n. 81/2008” a cui si è data risposta nella seduta della Commissione del 13 dicembre 2017.

 

Il quesito è stato sollevato dalla Regione autonoma Friuli Venezia Giulia che ha proposto istanza di interpello per conoscere il parere della Commissione Interpelli in merito all’ambito di applicazione del suddetto articolo sugli obblighi di fabbricanti e fornitori.

 

In particolare la Regione autonoma Friuli Venezia Giulia chiede se alla luce di una recente sentenza della Cassazione Penale, Sez. 3, 01 ottobre 2013, n. 40590 (Vendita di un macchinario privo delle necessarie condizioni di sicurezza: se è ceduto per essere riparato non c’è violazione) “l’atto di vendita/trasferimento di proprietà ai fini della messa a norma dell’attrezzatura di lavoro, dispositivo di protezione individuale o impianto, non configuri una violazione del precetto normativo di cui sopra limitatamente alle vendite in cui l’acquirente è un rivenditore di tale tipologia di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuale o impianti, ovvero un soggetto che si occupa di revisione e messa a norma degli stessi”.

 

Inoltre la Regione chiede che sia precisato:

– “se la vendita di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuali ed impianti non rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari vigenti, possa ritenersi legittima nel caso nel disposto contrattuale di vendita, noleggio o concessione sia prevista, da parte dell’acquirente, la messa a norma delle stesse prima del loro utilizzo”;

 

– “se l’esposizione ai fini della vendita, noleggio o concessione in uso delle attrezzature, dei dispositivi e degli impianti di cui sopra, in spazi commerciali, compresi spazi all’aperto e fiere, nel caso gli stessi (attrezzature/dispositivi/impianti) non siano rispondenti alle disposizioni normative sulla sicurezza sul lavoro, costituisca violazione al succitato articolo, indipendentemente dal perfezionamento dell’atto di trasferimento, sotto tutte le forme indicate, anche temporanee, del bene, salvo restando la possibilità di esporre limitate parti degli stessi, non potenzialmente funzionanti se non completate dalle parti indispensabili a soddisfare la normativa vigente sulla sicurezza sul lavoro”.

 

Prima di formulare il proprio parere la Commissione Interpelli precisa e sottolinea, come sempre, alcuni aspetti normativi.

 

Si ricorda innanzitutto il contenuto del comma 1 e 2 dell’articolo 23 e si ricorda che coerentemente al divieto espresso nell’articolo il successivo articolo 72, del medesimo decreto legislativo, stabilisce che ‘chiunque venda, noleggi o conceda in uso o locazione finanziaria macchine, apparecchi o utensili costruiti o messi in servizio al di fuori della disciplina di cui all’articolo 70, comma 1, attesta, sotto la propria responsabilità, che le stesse siano conformi, al momento della consegna a chi acquisti, riceva in uso, noleggio o locazione finanziaria, ai requisiti di sicurezza di cui all’allegato V’.

 

Si segnala poi che gli articoli 23 e 72 del D.Lgs. 81/2008 e successive modificazioni, “nel vietare la fabbricazione, la vendita, il noleggio e la concessione in uso di attrezzature di lavoro, dispositivi di protezione individuale o impianti non conformi alla normativa tecnica, intendono perseguire la finalità di anticipare la tutela della salute e dell’integrità fisica dei lavoratori, garantendo l’utilizzo unicamente di quei beni conformi ab origine ovvero di quelli preventivamente adeguati alla normativa”.

 

In questo senso la giurisprudenza in materia (con riferimento alla sentenza della Cassazione penale, sez. III, n. 40590 del 3 maggio 2013) ha affermato “come il divieto posto dall’articolo 23 sopra richiamato possa subire ‘[…] un qualche temperamento in chiave derogatoria laddove la vendita venga effettuata per un esclusivo fine riparatorio della macchina in vista di una futura utilizzazione, una volta ripristinata e messa a norma.’ In particolare, nella pronuncia innanzi richiamata si afferma che sulla base di ‘[…] un principio di ragionevolezza, non disgiunto da una regola di ordine economico generale […] fermo restando che è vietato l’impiego di macchinari non a norma con la conseguenza che una vendita di prodotti di tal fatta è, di regola, vietata stante la conseguenzialità e normalità dell’impiego della macchina nel ciclo produttivo, nell’ottica del passaggio del prodotto industriale alla fase economica successiva (utilizzo), laddove quest’ultimo passaggio non vi sia (come nel caso dello stazionamento del macchinario presso una ditta specializzata esclusivamente nella riparazione per la messa a norma con compiti ben specificati che inibiscono una utilizzazione successiva mediata tramite il venditore all’origine), non può ritenersi vietata la vendita di un macchinario in quanto avente uno scopo ben circoscritto, senza alcuna previsione di utilizzazione’”.

 

Ed è sulla base di questi elementi che la Commissione esprime il suo parere ritenendo che “la circolazione di attrezzature di lavoro, di dispositivi di protezione individuale ovvero di impianti non conformi, senza alcuna previsione di utilizzazione, ma con esclusivo e documentato fine demolitorio ovvero riparatorio per la messa a norma, così come la mera esposizione al pubblico, non ricadono nell’ambito di applicazione delle citate disposizioni normative, in considerazione della relativa ratio legis”, cioè dello spirito della legge.

 

 

Tiziano Menduto

 

 

Scarica la normativa di riferimento:

Commissione per gli interpelli – Interpello n. 1/2017 del 20 dicembre 2017 con risposta al quesito della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia – Prot. n. 22003 – Quesito ai sensi dell’articolo 12 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni relativo all’articolo 23, del d.lgs. n. 81/2008. Seduta della Commissione del 13 dicembre 2017.

 

Corte di Cassazione – Penale Sezione III – Sentenza n. 40590 del 1 ottobre 2013 (u. p. 3 maggio 2013) –  Pres. Gentile – Est. Grillo – Ric. (omissis). – Il costruttore non è responsabile nel caso in cui cede una macchina priva dei necessari requisiti di sicurezza se la stessa non deve essere successivamente utilizzata ma solo sottoposta a riparazione e revisione per poi essere immessa in mercato.
Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

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Le responsabilità del preposto e lo svolgimento dei compiti di vigilanza

Con questa sentenza la Corte di Cassazione ha confermata la condanna inflitta nei due primi gradi di giudizio ad un preposto per l’infortunio occorso in una azienda ad un lavoratore investito dalle forche di un carrello elevatoreguidato da un operatore privo della specifica abilitazione. La penale responsabilità del preposto era stata ravvisata per avere lo stesso tollerato una prassi scorretta e pericolosa in uso nell’azienda della quale era a conoscenza e della quale avrebbe dovuto impedire la prosecuzione nell’esercizio dei compiti di controllo inerenti la sua posizione di garanzia in materia di sicurezza sul lavoro in relazione alle disposizioni di cui all’art. 19 lettere b) e d) del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, contenente il Testo Unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro.

 

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione

La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza dal Tribunale relativamente alla sola determinazione della pena, ha condannato il preposto di un’azienda, esercente attività di somministrazione di alimenti a mezzo di distributori automatici, alla pena di 20 giorni di reclusione ex art. 53 della L. 289/1981, sostituita dalla pena della multa nella misura di Euro 5.000,00 per il reato di cui all’art. 590, comma 3a in relazione all’art. 583, comma 1a cod. pen. per avere cagionato a un tecnico riparatore lesioni gravi consistenti nello schiacciamento del piede, con trauma distorsivo e conseguente incapacità di attendere alle proprie ordinarie occupazioni per 63 giorni, per negligenza, imprudenza ed imperizia e violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro.

 

Era accaduto che il tecnico riparatore di distributori automatici, dopo avere provveduto alla pulizia di una gabbia di protezione dei distributori, si accingeva a caricarla sul muletto condotto dal lavoratore infortunato allorquando, inclinata la gabbia per consentire allo stesso di caricarla, veniva attinto dalle forche al piede sinistro che rimaneva schiacciato fra la gabbia e le forche medesime. Entrambi i lavoratori svolgevano nell’occasione operazioni non comprese nelle loro mansioni ed erano privi di formazione, informazioni ed addestramento sul lavoro da svolgere. La sentenza di primo grado aveva assolto, con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, l’amministratore delegato della società che gestiva l’azienda mentre ha riconosciuto il preposto colpevole del reato di lesioni gravi, anche in relazione al disposto dell’art. 19 lettere b) e d) del D. Lgs. n. 81/2008.

 

Avverso la sentenza della Corte di Appello il preposto ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del proprio difensore, affidandolo ad un unico motivo relativo al vizio di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Lo stesso ha lamentato infatti che la Corte territoriale aveva omesso di valutare la sussistenza dell’interruzione del nesso causale, dovuta al comportamento abnorme ed imprevedibile del lavoratore, circa la scelta di utilizzare il muletto anziché il transpallet e nella parte in cui lo ha condannato per avere omesso l’informazione, la formazione e l’addestramento dei lavoratori (condotta oggetto dell’imputazione dell’amministratore delegato) anziché per la condotta contestagli nel capo di imputazione consistente nell’ avere omesso di vigilare affinché solo i lavoratori in possesso della specifica formazione circa l’utilizzo del carrello elevatore procedessero alle operazioni di manovra e di carico del mezzo.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione. La stessa ha evidenziato, così come avevano già fatto i giudici della Corte di Appello, che presso lo stabilimento nel quale era accaduto l’evento infortunistico si era instaurata una prassi in forza della quale non solo gli addetti alla conduzione dei muletti ma anche i tecnici riparatori, quale era il conduttore dell’attrezzatura al momento dell’accaduto, manovravano i muletti per le incombenze loro affidate, prassi di cui il preposto, peraltro presente il giorno dell’incidente, era a perfetta conoscenza e per evitare la quale non era mai intervenuto.

 

Non corrispondeva inoltre a verità, ha fatto osservare la suprema Corte, che la condanna fosse stata inflitta per la omessa informazione, formazione ed addestramento dei lavoratori, perché la Corte territoriale aveva riconosciuta la sua penale responsabilità solo ed esclusivamente per avere tollerato la prassi scorretta e pericolosa e di cui avrebbe dovuto impedire la prosecuzione nell’esercizio dei compiti di direzione e controllo inerenti la sua posizione di garanzia in materia di sicurezza.

 

In ogni caso, comunque, la suprema Corte, essendosi consumata la prescrizione avuto riguardo alla data di produzione dell’evento ed essendosi pertanto estinto il reato, ha annullata la sentenza impugnata senza rinvio.

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 54825 del 6 dicembre 2017 (u.p. 15 novembre 2017) – Pres. Piccialli – Est. Nardin – Ric. M.C. – Il preposto è responsabile dell’infortunio occorso a un lavoratore attinto dalle forche di un carrello elevatore condotto da un operatore sfornito della specifica abilitazione se, pur sapendolo, non è intervenuto ad impedire l’uso dell’attrezzatura.

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it