E’ affrontato in questa sentenza della Corte di Cassazione il tema dell’applicazione o meno delle disposizioni di salute e sicurezza sul lavoro anche nel caso di una sospensione dell’attività lavorativa o nei momenti di pausa, riposo e quindi della permanenza del nesso causale fra l’accadimento di un evento infortunistico di un lavoratore e le omissioni di misure di sicurezza da parte del datore di lavoro la cui mancanza ha determinato l’evento medesimo. Nel decidere su di un ricorso presentato dai responsabili dell’azienda presso la quale operava il lavoratore infortunato e che avevano chiesto l’annullamento della sentenza emanata dalla Corte di Appello, la suprema Corte ha avuto modo di chiarire che la relazione causale tra la violazione delle prescrizioni dirette a garantire la sicurezza negli ambienti di lavoro e gli infortuni legati al rischio che le prescrizioni violate avrebbero potuto eliminare sussiste indipendentemente dall’attualità della prestazione lavorativa e di conseguenza sussiste anche nei momenti di pausa, di riposo o di sospensione dell’attività stessa.
Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione.
La Corte d’appello ha confermata la sentenza del Tribunale, appellata dal legale rappresentante di una società e dal datore di lavoro di un’impresa gestita dalla società stessa, con la quale questi erano stati condannati alla pena sospesa di sei mesi di reclusione ciascuno, oltre al risarcimento del danno e al pagamento di una provvisionale, per il reato di lesioni colpose aggravate ai sensi dell’art. 590 commi II e III, in relazione all’art. 583 comma 1 n. 1 del codice penale, ai danni di un lavoratore dipendente, operaio addetto alle macchine industriali dell’azienda, per colpa generica e specifica, consistita quest’ultima nella violazione delle norme già contemplate nel D.P.R. n. 164/56 e attualmente recepite nell’art. 115 del D. Lgs. n. 81/2008.
In particolare, gli imputati avrebbero consentito nel caso in esame che il lavoratore infortunato si portasse sul tetto del capannone dell’azienda per allontanare una capretta che vi stazionava e per riparare alcune lastre, in situazione di pericolo di caduta dall’alto e in assenza di dispositivi di sicurezza, così cagionando la caduta dell’operaio da circa sei metri, a causa del cedimento di alcune lastre del tetto, con conseguenti lesioni personali gravi, consistite in un poli-traumatismo con indebolimento permanente del braccio destro e una malattia superiore ai quaranta giorni.
Avverso la sentenza ella Corte di Appello gli imputati, rinunciando alla prescrizione, hanno proposto ricorsi con unico atto e stesso difensore, sostenendo come motivazione principale che l’infortunio non fosse occorso in ambiente lavorativo in quanto lo stesso sarebbe salito sulla tettoia del capannone di sua iniziativa durante la pausa pranzo e che, pertanto, si sarebbe verificata nella circostanza una “sospensione dell’attività lavorativa e una sorta di blocco della normativa che regola lo svolgimento di essa”. I ricorrenti, inoltre, hanno sostenuto che le lesioni sarebbero state conseguenza di un incidente domestico così come lo stesso lavoratore avrebbe dichiarato, recandosi autonomamente al pronto soccorso dopo l’incidente essendo in grado di camminare e parlare.
La parte civile dal canto suo ha messo in evidenza che i giudici di merito avevano smentito che il lavoratore avesse agito d’iniziativa essendo emerso nel corso dei giudizi che lo stesso si era recato sul tetto perché richiesto dal datore di lavoro. Con riferimento poi alle prove testimoniali rese in tal senso dai testi della difesa la parte civile ha fatto presente, altresì, che il Tribunale aveva disposto la trasmissione degli atti al P.M., per quanto di competenza, e che gli stessi erano stati tutti rinviati a giudizio per il delitto di falsa testimonianza.
Le decisioni della Corte di Cassazione
I ricorsi sono stati ritenuti inammissibili dalla Corte di Cassazione. La stessa, richiamando la sentenza di primo grado, ha ritenuto dimostrato che era stato il datore di lavoro ad accompagnare il lavoratore all’ospedale e che doveva escludersi, alla luce delle condizioni in cui il ferito versava, che fosse stato costui e non il datore di lavoro, preoccupato per le conseguenze dell’incidente occorso al proprio dipendente, a riferire di una caduta avvenuta tra le mura domestiche.
Con riferimento a quanto sostenuto dai ricorrenti in merito all’infortunio accaduto durante una sospensione dell’attività lavorativa la suprema Corte ha chiarito che “la relazione causale tra la violazione delle prescrizioni dirette a garantire la sicurezza degli ambienti di lavoro e gli infortuni che concretizzano i fattori di rischio avuti di mira dalle prescrizioni violate sussiste indipendentemente dall’attualità della prestazione lavorativa, e quindi anche nei momenti di pausa, riposo o sospensione dell’attività” per cui la stessa Corte ha ritenuta irrilevante la deduzione difensiva, a fronte della dimostrata esistenza del nesso causale tra la mancanza di misure di prevenzione relative al rischio di caduta dall’alto e l’incarico affidato al lavoratore, seppur addetto ad altra mansione e durante la pausa di sospensione dell’attività lavorativa. L’incarico affidato al lavoratore, peraltro secondo la Sez. IV, non poteva neppure considerarsi eccentrico rispetto all’attività lavorativa che si svolgeva nella stessa azienda in cui si trovava il capannone interessato dalla presenza dell’animale.
All’inammissibilità del ricorso è seguita quindi, a norma dell’art. 616 del codice di procedura penale, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 ciascuno in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che ha liquidate in 2.500 euro con accessori come per legge.
Gerardo Porreca
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Fonte: puntosicuro.it