Bologna, 27 Ago – Le esposizioni occupazionali a cancerogeni di oggi, come ricordato in un intervento al convegno “REACH 2016. TU2016, REACH e CLP. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP e le novità nella gestione del rischio chimico nei luoghi di vita e di lavoro” (Ambiente Lavoro, Bologna 19 ottobre 2016), si prestano sempre meno a una chiave “in bianco e nero”. Una distinzione netta tra “esposti” e “non esposti” ovvero tra “professionalmente esposti” e “non professionalmente esposti” è “sempre meno adeguata a raffigurare la realtà”. E anche la stessa “definizione di gruppi omogenei per esposizione è oggi spesso difficoltosa ed ha un’utilità limitata finché non sia corredata da una stima della tendenza centrale e della dispersione dei valori che caratterizzano ciascuna aggregazione di soggetti”.
A ricordarlo e a cercare di fornire anche informazioni sulle dimensioni dell’esposizione in Italia ai rischi cancerogeni professionali è l’intervento “Il rischio cancerogeno con e senza etichetta: lo scenario, gli interpreti, le sostanze e la sostanza del problema”, a cura di Roberto Calisti (SPreSAL Civitanova Marche – ASUR Marche – Area Vasta 3).
L’importanza di valutare le esposizioni
Riguardo alla difficoltà nel comprendere le reali esposizioni, si indica che, ad esempio, che il titolo di mansione “asfaltatore di strade” ancora oggi va “certamente associato per default ad un’esposizione occupazionale ad IPA”. Ma “sappiamo anche che, per gruppi diversi di asfaltatori, misure di esposizione fatte in contesti diversi in momenti diversi, anche tutti recenti, hanno dato risultati molto diversi”.
E dunque per farsi un’idea preliminare utile del profilo di esposizione ad IPA di un asfaltatore ovvero di un gruppo di asfaltatori è ormai indispensabile “disporre di informazioni aggiuntive rispetto al mero titolo di mansione: ad esempio, avere qualche dato su quanti e quali IPA ci siano negli asfalti in uso, sapere se si asfalta all’aperto o in galleria, sapere se a fine a turno i lavoratori si fanno una doccia che rimuova l’imbrattamento cutaneo”.
In questo senso “una buona valutazione preliminare, qualitativa o semi-quantitativa che sia, è premessa necessaria affinché una successiva valutazione quantitativa (basata su stime e/o misure che sia) porti a conclusioni affidabili.
Tra l’altro non bisogna dimenticare che “il caratterizzare bene o male un’esposizione a cancerogeni ha importanti ricadute per i lavoratori esposti ed ex-esposti in primo sul piano preventivo, poi anche su quello medico-legale e in ogni caso sul piano etico”.
Le dimensioni dell’esposizione ai rischi cancerogeni
Il relatore si pone poi una domanda importante: “quanti sono gli esposti a cancerogeni in ambiente di lavoro oggi in Italia, a cosa esattamente sono esposti e ‘quanto’ lo sono”?
Per provare a rispondere ricorda che disponiamo di alcuni strumenti, benché “tutti parziali e gravati da limiti intrinseci di approccio”. Ad esempio:
- “le stime del progetto europeo CAREX;
- le stime di ISPESL/INAIL basate su fonti amministrative;
- i dati dei registri aziendali di esposizione occupazionale ad agenti cancerogeni “ex art.243 D.Lgs.81/08”;
- i dati dei flussi informativi “ex art.40 D.Lgs.81/08” (quelli che i medici di azienda forniscono al sistema pubblico riguardo ai lavoratori in sorveglianza sanitaria per specifici rischi occupazionali)”.
Si indica che, partendo dalle più recenti stime di CAREX, possiamo ipotizzare che “tra il 2000 e il 2003 nel nostro Paese ci fossero (trascurando le esposizioni di bassa probabilità e/o bassa intensità) circa 700.000 lavoratori professionalmente esposti alla radiazione solare e almeno 1.500.000 lavoratori professionalmente esposti a cancerogeni chimici; di questi ultimi:
- circa 75.000 ad amianto (ne risultavano circa 350.000 alla precedente valutazione del 1990-1993);
- circa 250.000 a quarzo;
- circa 280.000 a polveri di legno;
- circa 180.000 a benzene;
- circa 160.000 a composti del cromo esavalente;
- circa 120.000 a Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) di provenienza diversa dal fumo di tabacco passivo;
- circa 110.000 a formaldeide;
- e così via (chiaramente uno stesso lavoratore poteva risultare esposto a più di un cancerogeno ovvero a più di una classe di cancerogeni)”.
Mentre dal gruppo di ricerca ISPESL/INAIL (nella relazione sono presenti ulteriori informazioni, anche bibliografiche, su progetti, stime e dati) si sono avute “diverse stime mirate ad argomenti specifici”. Ne riprendiamo alcune:
- con riferimento al periodo 1996 – 2010 “era stato valutato che nelle aziende obbligatoriamente assicurate presso INAIL vi fossero 39.230 lavoratori potenzialmente esposti a Idrocarburi Policiclici Aromatici (IPA) in settori industriali selezionati”;
- con riferimento al periodo 2000 – 2004, “era stato valutato che nei settori economici in cui erano stati riconosciuti casi di silicosi vi erano 28.712 lavoratori ‘potenzialmente ad alto rischio di esposizione a silice’”.
La relazione riporta poi altri studi sull’esposizione dei lavoratori cosiddetti “blue-collar” (“colletti blu”) riguardo al rischio di cancro polmonare e di cancro vescicale.
Inoltre sulla base dei flussi informativi “ex art.40 D.Lgs.81/08” analizzati dall’INAIL (dati desumibili dal sito dell’Istituto assicuratore) si desume che:
- “nel 2013, in Italia, i lavoratori in sorveglianza sanitaria per esposizione a cancerogeni erano 102.594 (86.688 maschi, 15.996 femmine): meno dell’1 % del totale dei lavoratori all’epoca in sorveglianza sanitaria;
- al 2015 il quadro risultava alquanto cambiato perché, nel nostro Paese, i lavoratori in sorveglianza sanitaria per esposizione a cancerogeni risultavano essere saliti a 330.312, praticamente il 2 % del totale dei lavoratori in sorveglianza sanitaria”.
- Sempre dai dati “ex art.40 D.Lgs.81/08” emerge poi che, “nel 2015, i medici di azienda hanno particolarmente seguito i lavoratori outdoor esposti a ultravioletti da radiazione solare (144.245, quasi il 44 % del totale di quelli in sorveglianza sanitaria per esposizione a cancerogeni), oltre a 38.200 professionalmente esposti a quarzo e a 17.147 professionalmente esposti ad amianto”.
L’immagine sfumata del rischio cancerogeno
L’immagine che emerge riguardo all’esposizione agli agenti cancerogeni – immagine “aggiornata” ai dati in possesso del relatore alla data del convegno – non è certamente esauriente: “ci fornisce una panoramica ‘sfumata’, priva di dettagli e contorni e soprattutto molto parziale (di certo sotto-stimante) riguardo a diversi cancerogeni importanti, senza dirci alcunché rispetto a molti altri”.
Ad esempio sembrerebbero “pressoché scomparsi dal tessuto produttivo italiano i professionalmente esposti ad IPA (asfaltatori compresi), amine aromatiche certamente o probabilmente cancerogene, N-nitrosamine certamente o probabilmente cancerogene, benzene, formaldeide, cromo(VI), nichel, cadmio, ossido di etilene, polveri di cuoio, pesticidi certamente o probabilmente cancerogeni, farmaci antitumorali certamente o probabilmente cancerogeni, turnazioni lavorative notturne non compensate, HCV, HIV”. Ma di certo non è così.
In realtà “sappiamo troppo poco, da un punto di vista epidemiologico e quindi anche prevenzionistico, anche su quanti sono ancor oggi professionalmente esposti a radiazioni ionizzanti”.
In definitiva, se alcuni dati sulle dimensioni del rischio cancerogeno professionale in Italia li abbiamo, è anche vero che “il gap informativo che dobbiamo colmare rispetto al rischio cancerogeno occupazionale e alle sue conseguenze patogene è ora perfino più vasto di qualche anno fa, proprio perché sono cessate molte attività di ricerca di parte sia privata sia, soprattutto, pubblica in tal senso”.
E – continua il relatore – se si vuole ridurre il carico di popolazione dei cancri di origine professionale “non dovrebbero esservi dubbi sulla necessità di impegnare il sistema sanitario pubblico del nostro Paese in un’operazione sistematica di identificazione e registrazione di quanti siano e come siano distribuiti i lavoratori esposti (ed anche solo potenzialmente esposti) a cancerogeni, nonché di quali siano i loro scenari di esposizione (con una definizione adeguata di quali siano i profili temporali e le intensità di tale esposizione)”. Un’operazione che “va organizzata e sostenuta in maniera da coprire tutto il territorio nazionale, mantenersi e aggiornarsi nel tempo, essere sottoposta a processi di revisione e validazione”.
Concludiamo ricordando che la relazione, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta ulteriori informazioni su molti altri aspetti correlati al rischio cancerogeno, ad esempio sull’importanza di valutare se il rischio è presente nell’ambiente di lavoro e su cosa fare dopo averne riconosciuto la presenza.
Tiziano Menduto
Scarica il documento da cui è tratto l’articolo:
Regione Emilia Romagna, Inail, Ausl Modena, “REACH. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di vita e di lavoro”, pubblicazione che raccoglie gli atti dei due convegni “REACH 2016. TU2016, REACH e CLP. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP e le novità nella gestione del rischio chimico nei luoghi di vita e di lavoro” e “REACH edilizia. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nell’ambiente da costruire e nell’ambiente costruito” (formato PDF, 13.34 MB).
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Fonte: puntosicuro.it