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La norma sui professionisti della security UNI 10459

Da pochi giorni stata pubblicata la nuova edizione della Norma UNI 10459:2017 “Attività professionali non regolamentate – Professionista della security – Requisiti di conoscenza, abilità e competenza”.

 

Questa notizia è importante per tutti i soggetti che hanno già superato il percorso di certificazione secondo questa norma e hanno l’obbligo di mantenersi costantemente aggiornati, per mantenere in vigore la certificazione ottenuta.

 

Ricordo ai lettori che oggi la presenza di professionisti della security, dotati di appropriata certificazione, è imposta da specifici decreti ministeriali e raccomandata da comportamenti diligenti, che deve tenere l’alta direzione aziendale. In Italia non siamo ancora arrivati al punto, cui sono giunti altri paesi europei, che hanno reso obbligatoria la presenza di questa figura fra gli apici aziendali, ma le pressioni provenienti dalla pubblica opinione, dagli enti tutori e dalle compagnie di assicurazione fanno sì che questa figura si incontri sempre più spesso negli organigrammi di aziende grandi e medie.

 

Chi scrive ha partecipato alla stesura non solo della prima edizione di questa norma, che ancora non rispettava i canoni europei, chiamati EQF-European qualifycation framework, ma anche alla seconda edizione, che è stata profondamente rivista, proprio per soddisfare alla impostazione che l’Europa ha richiesto, in fase di elaborazione di norme per professioni non regolamentate.

Questa nuova edizione della norma presenta dei miglioramenti, soprattutto di tipo formale, che mirano a rendere la norma sempre più leggibile ed aderente a una realtà in costante evoluzione, come la realtà degli scenari di rischio e delle strategie di attacco e difesa.

 

Ricordo che secondo lo schema EQF i requisiti di conoscenza, abilità e competenza vengono classificati a più livelli, contrassegnati da un numero crescente. Questo è il motivo per cui non basta illustrare, ad esempio, l’elenco delle conoscenze che il professionista della security deve avere, ma occorre anche indicare il grado di profondità di tali conoscenze. Questa è la ragione per la quale la norma prevede tre profili professionali, di caratteristiche progressivamente crescenti, proprio per tracciare un percorso professionale, che parte da un livello di base per giungere ad un livello molto elevato.

Un elemento vincolante, ben messo in evidenza della norma, riguarda l’analisi del percorso professionale già seguito dall’aspirante alla certificazione, che è diversificato in funzione del titolo di studio posseduto e della anzianità di servizio in incarichi afferenti alla security.

È stato anche ampliato l’elenco delle definizioni, proprio per prendere in considerazione i nuovi  aspetti della security, legati appunto all’evoluzione dello scenario criminoso.

 

In chiusura della norma, secondo le indicazioni generali europee, è presente anche una bibliografia, che è stata opportunamente aggiornata.

 

In sintesi, molte delle modifiche apportate sono di tipo formale, ma è indispensabile che ogni professionista della security, certificato o meno, si procuri una copia della nuova norma, per essere certo che la sua attività professionale sia sempre svolta in conformità ai più aggiornati dettati della norma.

 

Ovviamente, questo compito spetta anche agli istituti di certificazione, che ogni anno devono convalidare la certificazione, ottenuta in precedenza, analizzando il percorso di aggiornamento che il soggetto certificato deve documentare. Questo percorso di aggiornamento è articolato in varie modalità, che vanno dalla partecipazione a convegni e congressi, alla scrittura di articoli di approfondimento o divulgativi su temi legati alla security, e ad altre attività, in grado di comprovare che il livello di conoscenze, abilità e competenza del professionista sia sempre all’altezza delle crescenti sfide della criminalità.

 

Adalberto Biasiotti

 

 

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

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Rischio biologico: l’inquinamento da bioaerosol e spore fungine

Roma, 3 Lug – All’esposizione a bioaerosol – un complesso di particelle solide sospese nell’aria provenienti da organismi biologici, compresi i microrganismi (virus, batteri e funghi e loro spore) e i frammenti di materiali biologici (ad esempio residui vegetali, pollini e peli di animali) – sono associabili una vasta gamma di problemi e patologie per i lavoratori.

In particolare l’esposizione a lungo termine a spore fungine, che possono rappresentare grandi porzioni del materiale particolato dell’aria, è correlata a sintomi respiratori ed a sintomi da sindrome tossica da polvere organica.

 

A parlare in questi termini dell’esposizione ad agenti biologici è il documento elaborato dal Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici (Dit) dell’Inail dal titolo “ Procedura sperimentale per la determinazione di spore fungine in atmosfera” e a cura di Patrizia Di Filippo, Carmela Riccardi, Donatella Pomata, con la collaborazione di Francesca Buiarelli (Università Sapienza di Roma).

 

Il documento, che si sofferma in particolare sull’analisi di ergosterolo nel bioaerosol come indicatore della presenza di spore fungine in atmosfera, fornisce utili informazioni dell’esposizione al bioaerosol.

 

Il documento indica, come premesso a inizio articolo, che al bioaerosol, che rappresenta un sottoinsieme del materiale particolato atmosferico (PM), è associabile, secondo vari studi, “una vasta gamma di effetti avversi sulla salute umana: irritazione di membrane e mucose, bronchite e malattie polmonari ostruttive, rinite allergica e asma, alveolite allergica (polmonite granulomatosa) o sindrome tossica da polveri organiche (febbre da inalazione o polmonite tossica) [Sorenson & Lewis, 1996; Deguillaume et al., 2008; Després, et al., 2012; Mauderly & Chow, 2008; Zhang et al., 2010]”.

 

In particolare gli ambienti lavorativi nei quali si verifica spesso una esposizione al bioaerosol sono “quelli dove si producono sostanze biologiche altamente purificate come gli enzimi microbici che vengono utilizzati in particolari settori, o dove è necessario l’utilizzo di organismi biologici, come le aziende di trattamento e riciclaggio dei rifiuti, gli impianti di depurazione, quelle agroalimentari e di trasformazione alimentare, i laboratori di ricerca biotecnologica, le aziende farmaceutiche, le industrie di detersivi”. Tuttavia si possono verificare esposizioni a bioaerosol anche “in ambienti dove i microorganismi non sono utilizzati deliberatamente, come nei luoghi di immagazzinamento di particolari prodotti; negli ospedali e nei laboratori per le procedure post mortem o chirurgiche, dove si procede al taglio del legname o nelle aziende di produzione di mobili, in alcune aziende zootecniche e alimentari, sia di produzione che di commercio; le aziende per la lavorazione di filati e tessuti, le concerie, le aziende per la lavorazione di pelli, lana e seta e per la lavorazione di perle, coralli e conchiglie [Lacey & Dutkiewicz, 1994; Bünger et al., 2000]”. E chiaramente sono potenzialmente a rischio biologico anche “i luoghi pubblici, con grande affluenza di persone, come scuole, uffici, centri commerciali, cinema, teatri, mezzi di trasporto”.

 

Il documento segnala che gli agenti patogeni possono essere diversi: “virus; batteri; spore di actinomiceti, funghi e loro spore, muschi e felci; cellule vegetali e di alghe; insetti e acari e loro frammenti; proteine da fonti vegetali e animali; enzimi, antibiotici e altri prodotti da processi biotecnologici; endotossine da batteri gram-negativi, e micotossine e glucani da funghi [Douwes et al., 2003]”. E per questo motivo lo studio di sostanze facenti parte del bioaerosol è un “problema centrale nel campo occupazionale”.  L’Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute dei lavoratori nel Rapporto “European Risk Observatory Report” pubblicato nel 2007 e riguardante i rischi biologiciemergenti, “elenca, tra i principali dieci, le muffe, che sono un tipo di funghi microscopici filamentosi [European Agency for Safety and Health at Work, “European Risk Observatory Report” – EN3 – Expert forecast on Emerging Biological Risks related to Occupational Safety and Health, 2007]”.

 

Ci soffermiamo infine sui funghi e sulle spore fungine.

 

Il documento ricorda che i funghi sono ubiquitari nell’ambiente e generalmente “crescono come saprofiti su materiale organico non vivente o come agenti patogeni invasivi nel tessuto vivente”. In particolare le spore “si sviluppano durante diverse fasi del complesso ciclo di vita dei funghi a scopo riproduttivo e di distribuzione; essendo resistenti a condizioni ambientali avverse, garantiscono la sopravvivenza del fungo. Le aerospore sono la parte biologica dominante nell’aria e la loro presenza è confermata sia negli ambienti outdoor che indoor. La crescita dei funghi è favorita dalla temperatura di 18-32° C, umidità relativa superiore al 65% e presenza di substrato organico, come piante, detriti di piante e suolo, legno, prodotti del legno, stoffe, alimenti”.

 

Si segnala poi che il fungo può essere “un patogeno che causa infezioni, un aeroallergene, o entrambe le cose insieme. Mentre per causare infezioni, il fungo deve poter crescere a temperatura corporea, proprietà questa comune ad un ristretto numero di specie fungine (membri dei generi Aspergillus e Penicillium), gli allergeni fungali includono spore da patogeni delle piante come Cladosporium e Alternaria. Quindi i microrganismi vitali (anche definiti viable), compresi i funghi, possono causare malattie nell’organismo ospite, in dipendenza dal potenziale patogeno, dal numero di microorganismi presenti nell’organismo ospite, dall’integrità di difesa dell’ospite. Diversamente, allergeni preformati da frammenti ifali possono suscitare una risposta immunitaria, anche in assenza di germinazione e crescita locale. In definitiva, mentre le infezioni possono essere causate solo da cellule fungine vitali, la componente fungina non ha bisogno di essere viable per suscitare una reazione allergica”.

 

Concludiamo segnalando che, come abbiamo già ricordato in un precedente articolo, tra i luoghi di lavoro più a rischio, a causa della presenza di funghi, “ci sono le industrie della trasformazione del legno, di trasformazione e stoccaggio di prodotti vegetali, le aziende agricole e di stoccaggio dei cereali, le industrie farmaceutiche, i laboratori di biotecnologie e di produzione di alcolici, l’industria alimentare per la lavorazione di insaccati, formaggi, funghi, pesce, i forni per il pane, le biblioteche e i luoghi di restauro dei libri, gli allevamenti di bestiame e in genere qualsiasi luogo di lavoro con scarso ricambio d’aria, buio ed umido, o provvisto di sistemi di climatizzazione scarsamente manotenuti”.

 

 

 

Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici dell’Inail, “ Procedura sperimentale per la determinazione di spore fungine in atmosfera”, a cura di Patrizia Di Filippo, Carmela Riccardi, Donatella Pomata, con la collaborazione di Francesca Buiarelli (Università Sapienza di Roma), versione 2016, pubblicazione gennaio 2017 (formato PDF, 133 kB).

 

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ Procedure per la determinazione di spore fungine in atmosfera”.

 

 

Leggi gli altri articoli di PuntoSicuro sui rischi da agenti biologici

 

 

RTM

 

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Fonte: puntosicuro.it

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La sicurezza e salute dei lavoratori del comparto turistico alberghiero

Firenze, 3 Lug – Con la stagione estiva aumenta il flusso dei turisti che arrivano negli alberghi del nostro paese. E di conseguenza aumentano le attività nelle strutture ricettive e anche i rischi per i lavoratori che ci operano.

Per questo motivo torniamo ad occuparci della tutela della sicurezza e salute dei lavoratori del comparto turistico alberghiero.

 

Nelle scorse settimane ci siamo soffermati in particolare sulla sicurezza di alcune delle mansioni tipiche delle strutture alberghiere: addetti ai piani e addetti alla cucina.

E lo abbiamo fatto attraverso la presentazione di una lista di controllo, prodotta dall’ Azienda USL 10 Firenze, dal titolo “Lista di controllo per la compilazione delle procedure standardizzate per l’effettuazione della valutazione dei rischi nelle strutture turistico-ricettive”. Uno strumento che permette di analizzare la sicurezza delle strutture ricettive e può supportare l’elaborazione di procedure standardizzate per la valutazione dei rischi.

 

Riprendiamo a sfogliare il documento soffermandoci in particolare su un’altra mansione del comparto, sulle attività degli addetti alla lavanderia/stireria, lavoratori incaricati della gestione della biancheria delle camere e dei bagni.

 

Riguardo a questa mansione la lista di controllo riporta alcune domande e fornisce alcune indicazioni in merito all’utilizzo di macchine e apparecchi:

– lavatrici, centrifughe hanno un dispositivo blocca-porta che impedisce di toccare lo sportello quando il tamburo è in movimento?  Il documento indica infatti che la lavatrice “deve essere dotata di interruttore di controllo della porta d’alimentazione e dispositivo di blocco: la porta deve poter essere aperta solo a tamburo fermo, ossia la macchina deve poter essere avviata solo a porta chiusa”;

– i ferri da stiro sono idonei a prevenire i rischi da elettrocuzione ed ustione degli arti superiori? Si indica che per ridurre il rischio di ustioni bisogna “verificare che l’impugnatura del ferro sia tale da impedire il contatto accidentale degli arti superiori con la piastra calda”. Inoltre i cavi d’allacciamento “devono essere dotati, nei punti d’attacco al ferro da stiro, di un isolamento resistente al calore e di guaine di protezione flessibili”.

 

Riguardo invece all’ergonomia, si ricorda di verificare che siano disponibili mezzi adeguati per trasportare le confezioni di detersivi e la biancheria.

Infatti “il trasporto della biancheria, in particolar modo se bagnata, e delle confezioni dei detersivi deve avvenire tramite carrelli porta-sacchi, carrelli portabiancheria o cestelli”.

 

Chiaramente la lista si sofferma anche sui rischi chimici correlati all’uso di detersivi e altri prodotti per la lavanderia:

– la candeggina e i prodotti sbiancanti sono custoditi in maniera appropriata? Si indica che la candeggina e i prodotti sbiancanti a base di ossigeno devono essere infatti “custoditi in vasche di raccolta separate, i sacchi e i cartoni in alto, i liquidi in basso”;

– come vengono utilizzati i prodotti concentrati per i lavaggi? Si segnala che “chi utilizza prodotti concentrati per i lavaggi deve disporre di occhiali e guanti di protezione in nitrile o PVC”.

 

Riguardo poi alla possibilità che la lavanderia/stireria sia ubicata in locali interrati o seminterrati, si sottolinea che, anche laddove tale ubicazione sia autorizzata, “devono essere presi tutti i necessari provvedimenti per garantire la protezione dall’umidità, il ricambio dell’aria e un’adeguata illuminazione”.

 

Due ultime mansioni da analizzare sono quelle relative agli addetti alla portineria ed ufficio, cioè gli incaricati di svolgere il servizio di accoglienza della clientela e gestione amministrativa della struttura.

 

In questo caso la lista di controllo si sofferma sul microclima e sui videoterminali.

 

Riguardo al microclima si indica che:

– “gli impianti di condizionamento dell’aria o di ventilazione meccanica devono funzionare in modo che i lavoratori non siano esposti a correnti d’aria fastidiosa”;

– gli impianti di condizionamento dell’aria o di ventilazione meccanica “devono essere periodicamente sottoposti a controlli, manutenzione, pulizia e sanificazione per la tutela della salute dei lavoratori”.

Inoltre si chiede di verificare se vengono registrate delle lamentele, da parte dei lavoratori, relativamente alla temperatura – areazione – umidità nei locali di lavoro. E in riferimento a quanto indicato dalle linee guida sui fattori microclimatici, per gli uffici, vengono forniti i seguenti parametri generali di riferimento:

– inverno: T ° 20 ± 22 ; UR (%) 35 – 45 ; va (m/s) 0,05 ÷ 0,15;

– estate: T ° 26 ; UR (%) 50 ÷ 60 ; va (m/s) 50 ÷ 60.

 

Riguardo invece ai videoterminali si indica che la postazione di lavoro “deve essere dotata di sedile regolabile in altezza e spalliera regolabile in altezza ed inclinazione.  Lo spazio davanti alla tastiera deve consentire un appoggio per le mani dell’utilizzatore. Lo schermo deve essere orientato in modo che le sorgenti di luce naturale e artificiale non provochino riflessi fastidiosi per il lavoratore”.

 

Concludiamo riportando invece alcune indicazioni sui dispositivi di protezione individuale indicati per gli addetti alle cucine:

– chi lavora nelle celle frigorifere dispone di una giacca di protezione contro il freddo? Si indica che gli indumenti antifreddo devono essere conformi alla norma UNI EN 342 “Indumenti di protezione – Completi e capi di abbigliamento per la protezione contro il freddo”, una norma che specifica i requisiti ed i metodi di prova per le prestazioni di insieme di completi di indumenti (per esempio tute composte da due pezzi o tute intere) e di singoli capi di abbigliamento per la protezione contro ambienti freddi;

– il personale che presta servizio in cucina indossa scarpe con suole antiscivolo? Infatti “le calzature devono avere la suola antiscivolo”. E “sono preferibili con le calzate a sandalo, per ridurre eventuali ustioni di liquidi versati, che possono essere più facilmente trattenuti a contatto con il piede da una scarpa chiusa. È sempre raccomandabile il cinturino posteriore per impedire lo sfilamento della calzatura in occasione di sforzi o di passo veloce”;

– vengono usati, se necessario, i guanti antitaglio? Si ricorda che il guanto per prevenire le lesioni da taglio “va utilizzato soprattutto nei seguenti casi: pulizia o sostituzione di lame o di utensili affilati sulle macchine; per lavori di piccola disossatura (ad es. selvaggina, pollame); pulizia dell’affettatrice”;

– sono disponibili guanti anticalore? Si indica che “per la movimentazione dei tegami caldi estratti dal forno i lavoratori devono utilizzare idonei guanti anticalore”.

 

E infine, sempre in relazione agli addetti alle cucine, si segnala che negli ambienti di lavoro deve essere “previsto il mantenimento dell’efficacia delle aperture di aerazione, sia quelle per consentire il passaggio dell’aria (comburente necessaria per la corretta combustione) che per consentire l’eventuale evacuazione dei gas prodotto della combustione o da perdite dei bruciatori o tubazioni”.

 

 

Azienda USL 10 Firenze, “ Lista di controllo per la compilazione delle procedure standardizzate per l’effettuazione della valutazione dei rischi nelle strutture turistico-ricettive”, a cura del Dipartimento di Prevenzione dell’Azienda USL 10 Firenze (formato PDF, 592 kB).

 

 

RTM

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Lo stress sul lavoro costituisce l’unico rischio psicosociale da valutare?

Milano, 30 Giu – Quando si intende presentare i temi normativi e giuridici correlati ai rischi psicosociali e, in particolare, allo stress lavoro correlato, non si può che partire da quanto contenuto nell’ articolo 2087 del Codice civile che, relativamente alla tutela delle condizioni di lavoro, indica che l’imprenditore ‘è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro’. E una sentenza della Cassazione – Cass.Sez.Un. 29 maggio 1993 n. 6031– sottolinea che il datore di lavoro è ‘tenuto a tutelare la dignità del lavoratore che è la condizione di onorabilità e nobiltà morale che nasce dalle qualità intrinseche di chi ha dignità e si fonda propriamente sul suo comportamento, sul suo contegno nei rapporti sociali, sui propri meriti e consiste in un rispetto di sé, che suscita ed esige negli altri, in forza di tale esemplarità etica’.

 

A ricordarlo è Anna Guardavilla – giurista in Milano e collaboratrice del nostro giornale – in un intervento al convegno “ Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” organizzato da AIBEL, ATS Milano e SNOP (Milano, 7 giugno 2016).

 

Nell’intervento “L’art.28 D.Lgs. 81/08 e la categoria dei fattori psicosociali di rischio”, dopo aver ricordato quanto contenuto nelle misure generali di tutela del D.Lgs. 81/2008 (TU) – con particolare riferimento all’influenza dell’ organizzazione del lavoro e ai limiti del potere di organizzazione e di direzione che competono al datore di lavoro (Cass. Civ., Sez. Lav., 5 agosto 2010 n.18278) – Anna Guardavilla riporta il contenuto del comma 1 dell’articolo 28.

L’articolo indica che la valutazione (…) deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell’accordo europeo dell’8 ottobre 2004.

 

A questo comma è stato poi aggiunto, dal D.Lgs. 106/09, il comma 1 bis: la valutazione dello stress lavoro-correlato di cui al comma 1 è effettuata nel rispetto delle indicazioni di cui all’art.6, c.8, lettera m quater), cioè con riferimento alle indicazioni fornite dalla Commissione Consultiva.

La relazione di accompagnamento al D.Lgs. 106/09 ricorda che tale modifica è avvenuta “al fine di consentire la predisposizione, nell’ambito di un organismo tripartito, di indicazioni operative alle quali le aziende possano fare riferimento per valutare con completezza il rischio da stress lavoro-correlato, rientrante tra i c.d. ‘nuovi rischi’ e, quindi, meritevole di attenta ponderazione”.

 

L’intervento riprende poi la Relazione dell’Ufficio del Massimario e del ruolo della Cassazione (n.142 del 10.12.2008) che, a sua volta, cita un passo di “Le malattie da lavoro, Prevenzione e tutela” di Carlo Smuraglia: ‘se la maggiore attenzione è stata dedicata finora ai fattori connessi a ripetitività, monotonia, carichi di lavoro, ritmi e così via, appare oggi indispensabile considerare alcuni ulteriori aspetti (relativamente) nuovi, nel senso che sono frutto di più recente acquisizione. Faccio riferimento a tutti i fenomeni che attengono agli aspetti relazionali (relazioni fra i lavoratori e fra loro e i superiori), al rapporto persona-ambiente di lavoro-tecniche di lavorazione, a tutte le questioni attinenti al disagio, alla disaffezione, alla insoddisfazione, al malessere e a quel grande complesso di fenomeni riconducibili, in modo semplificativo, allo stress.  Ovviamente, non è che tutti questi fenomeni conducano necessariamente a vere e proprie patologie, perché anzi esse dovranno essere dimostrate e provate di volta in volta, come indicato dalla Corte Costituzionale; ma è pacifico che si tratta di altrettanti fattori di rischio, finora considerati poco o comunque in modo insufficiente. In tale ambito, anche le cosiddette «incongruenze del processo organizzativo» costituiscono certamente aspetti di novità nel contesto dell’organizzazione del lavoro come fattori di rischio’.

Si sottolinea poi che con l’inserimento del termine “stress lavoro-correlato”, in luogo della locuzione “rischi psicologici” si è inteso – come ricordato anche nel libro “Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Le norme, l’interpretazione e la prassi” di Lorenzo Fantini e Angelo Giuliani –  assegnare al primo una valenza assorbente dei rischi “psicologici o psicosociali”.

 

Anna Guardavilla nell’analizzare la valenza e il “campo di applicazione” dell’articolo 28 riprende tuttavia anche altre affermazioni tratte dal libro “Il Testo Unico Sicurezza sul Lavoro commentato con la giurisprudenza”, Quinta Ediz., di Raffaele Guariniello.

L’ex magistrato indica che nell’art.28, comma 1, D.Lgs. 81/2008, l’indicazione dei rischi collegati allo stress lavoro-correlato ‘non è esaustiva. Se ne trae palese conferma dalle espressioni usate nell’art.28, comma 1, D.Lgs.n.81/2008: “ivi compresi”, “tra cui”, “anche”. Pertanto, non sarebbe corretto desumere dall’art. 28, comma 1, D.Lgs.n.81/2008 che lo stress lavoro-correlato costituisca l’unico rischio di natura psicosociale da valutare nel relativo documento’. Infatti altri rischi di tal natura ‘debbono essere presi in considerazione dal datore di lavoro: dal mobbing al burn-out e allo stalking, dalla violenza alle molestie’.

‘Né appare sostenibile – continua Raffaele Guariniello – che ‘con l’inserimento del termine ‘stress lavoro-correlato’ in luogo della locuzione ‘rischi psicologici’ si sarebbe inteso assegnare al primo una valenza assorbente dei rischi psicologici o psicosociali. Una tesi di tal fatta risulta smentita dal nitido tenore letterale dell’art. 28, comma 1, D.Lgs.n.81/2008. E per giunta contrasta con un inequivoco dato normativo’.

L’ex magistrato indica che ‘lo stress lavoro-correlato non esaurisce la gamma dei rischi psicosociali da prendere in considerazione’. E tale analisi – raccontata più nel dettaglio nelle slide dell’intervento – autorizza a concludere ‘che la regolamentazione speciale dettata dall’art.28, comma 1-bis, D.Lgs.n.81/2008 trova applicazione con esclusivo riguardo al rischiostress lavoro-correlato e che, per contro, la valutazione dei rischi psicosociali diversi dallo stress lavoro-correlato rimane sottoposta alla disciplina generale contenuta nell’art. 28, comma 1, D.Lgs.n.81/2008. Pertanto, l’obbligo di valutare i rischi psico-sociali diversi dallo stress lavoro-correlato è insorto alla data di entrata in vigore del D.Lgs.n.81/2008 (ma a ben vedere già sotto il regime del D.Lgs.626/1994, perlomeno a far tempo dalla modifica dell’art.4, comma 1, di tale decreto ad opera dell’art.21, comma 2, L. 1° marzo 2002 n. 39)’.

 

Per continuare questo excursus sulla valenza dell’articolo 28 del D.Lgs. 81/2008 la relatrice riporta anche alcune affermazioni di Mario Gallo in “Indicazioni della Commissione: i dubbi e le criticità applicative sullo stress lavoro-correlato” (in Ambiente & Sicurezza n. 5/2011).

Tale autore ricorda che il legislatore ‘ha affermato in modo inequivocabile che la valutazione deve riguardare tutti i rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori, con la specificazione che la stessa deve comprendere, appunto, quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato. Tuttavia, una parte della dottrina sostiene che, per effetto di questa specificazione operata dal legislatore, il datore di lavoro sia tenuto a valutare unicamente i rischi da stress lavoro-correlato; pertanto, ha concluso per l’esclusione del mobbing e della violenza sul lavoro’.

Tuttavia secondo Gallo da un’interpretazione logico-sistematica ‘è possibile rilevare che il datore di lavoro è tenuto a valutare tutti i rischi, quindi, anche tutti quelli che la comunità scientifica da tempo ormai fa rientrare nella più vasta categoria dei cosiddetti rischi psicosociali’. E dunque non sarebbe corretto ‘desumere dall’art. 28, comma 1, D.Lgs. n. 81/2008 che lo stress lavoro-correlato costituisca l’unico rischio di natura psico-sociale da valutare nel relativo documento’.

 

La relatrice conclude, infine, la sua relazione con una citazione tratta da un Working Paper di Olympus – “Dalle species al genus (o viceversa). Note sull’obbligo di valutazione dello stress lavoro-correlato e dei rischi psicosociali” di Luciano Angelini – che indica che ‘non sarebbe certamente accettabile il comportamento del datore di lavoro che considerasse lo stress lavoro-correlato (se inteso come semplice species di rischio psico-sociale) come l’unico fattore di rischio psico-sociale da valutare: al contrario, il datore deve prendere in considerazione anche tutti gli altri rischi della stessa natura, dall’osteggiatissimo mobbing, passando per le violenze, fino ad arrivare alle molestie; e ciò, non soltanto quando tali rischi siano effettivamente presenti nel contesto aziendale da considerare, ma anche quando potrebbero potenzialmente presentarsi in ragione del modo in cui è stata strutturata l’organizzazione del lavoro […]’.

 

 

“ L’art.28 D.Lgs. 81/08 e la categoria dei fattori psicosociali di rischio”, a cura di Anna Guardavilla (giurista in Milano), intervento al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” (formato PDF, 81.32 MB).

 

Leggi gli altri articoli di PuntoSicuro sullo stress e sui rischi psicosociali nei luoghi di lavoro

 

 

 

Tiziano Menduto

 

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Fonte: puntosicuro.it

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La responsabilità per infortunio accaduto per l’inidoneità di un DPI

Con riferimento al comportamento di un lavoratore infortunato ritenuto abnorme dal suo datore di lavoro che ha ricorso alla Corte di Cassazione contro la sentenza di condanna emessa nei suoi confronti dalla Corte di Appello e quindi interruttivo  del nesso di condizionamento, la suprema Corte ha ribadito un principio ormai consolidato in giurisprudenza e cioè che il comportamento del lavoratore infortunato è interruttivo del nesso causale fra l’evento e la condotta del datore di lavoro non quando è “eccezionale” ma quando è “eccentrico” rispetto al rischio che il garante della sicurezza è chiamato a governare. Non è stato, infatti, ritenuto interruttivo dalla Corte di Cassazione la condotta del lavoratore che nella circostanza ha subito gravi ustioni per aver versato del metallo fuso in stampi bagnati e per non avere tenuta abbassata la visiera dello scafandro che aveva a protezione del viso messogli a disposizione dal datore di lavoro e ciò però non per sua trascuratezza ma per l’inidoneità della protezione stessa.

 

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in Cassazione

La Corte d’appello ha riformato, limitatamente alla concessione della sospensione condizionale della pena ritenuta di giustizia e confermandola nel resto, la sentenza con la quale il Tribunale ha condannato il datore di lavoro e socio accomandatario di una società in accomandita semplice per il reato di lesioni personali colpose ex art. 590 cod. pen., con violazione di norme prevenzionistiche a danno di un lavoratore dipendente della società medesima. All’imputato era stato addebitato di avere cagionato l’evento lesivo del lavoratore in violazione degli artt. 37, commi 1, 3 e 5, 28 comma 2 e 77, commi 3 e 4, lettere a), b) e d) del D. Lgs. n. 81/2008. Tale evento lesivo si era verificato presso i locali della società allorquando il lavoratore, dopo aver proceduto alla fusione dell’alluminio in un crogiuolo, ne versava un quantitativo in uno stampo, risultato successivamente bagnato. Il lavoratore e allorquando veniva improvvisamente investito dagli schizzi del metallo fuso provocandosi le gravi ustioni di cui all’imputazione.

 

La ricostruzione dei fatti e delle responsabilità oggetto di addebito, emersa in primo grado sulla scorta della deposizione del lavoratore e di altre testimonianze, é stata successivamente confermata dalla Corte territoriale, che aveva censurato il fatto che il datore di lavoro avesse omesso di prestare la dovuta vigilanza sull’operazione affidata al lavoratore, che gli avesse fornito un casco obsoleto e inadatto a proteggerlo e che avesse fornito una formazione inadeguata circa l’utilizzo del dispositivo di protezione individuale.

 

Avverso la sentenza della Corte di Appello il datore di lavoro ha ricorso in cassazione per il tramite del suo difensore di fiducia articolando il ricorso stesso in due ordini di motivi. Con il primo motivo l’esponente ha sostenuto che il lavoratore era adibito al forno da circa dieci anni, che era un lavoratore esperto e che ben conosceva l’operazione in occasione della quale si era procurato le lesioni. Lo stesso ha sostenuto che lo scafandro affidato al lavoratore era stato giudicato conforme alla normativa dall’ispettore della ASL e che pertanto gli obblighi posti a suo carico di cui agli articoli 28, 37 e 77 del D. Lgs. n. 81/2008 erano stati osservati per cui nessun addebito gli si poteva muovere in termini di colpa specifica.

 

Con il secondo motivo il ricorrente ha messo in evidenza che il lavoratore aveva commesso un errore nell’effettuazione dell’operazione a lui richiesta e che pertanto l’evento, sul piano eziologico, doveva ricondursi alla condotta abnorme, eccezionale e imprevedibile dello stesso lavoratore che, pur avendo un’esperienza decennale, aveva riferito di non avere compreso (a causa della sua asserita sconoscenza della lingua italiana) il motivo per il quale doveva indossare lo scafandro. Non si comprendeva altresì a che titolo potesse essere a lui addebitato di non avere formato a sufficienza il lavoratore, pur avendo adempiuto ai propri doveri formativi in relazione ai quali peraltro, come confermato dall’ispettore della ASL, nessun addebito era stato formalizzato a carico della società.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

Il ricorso é stato ritenuto infondato per cui non ha trovato accoglimento. La Corte di Cassazione ha fatto presente che la Corte di merito aveva evidenziato che il lavoratore infortunato in occasione dell’episodio calzava lo scafandro, sia pure scorrettamente, in quanto egli, come aveva anche fatto a suo dire in precedenti occasioni, teneva sollevata la visiera perché altrimenti gli avrebbe impedito la visuale. Di qui si era arrivati al convincimento che da un lato il dispositivo di protezione individuale non fosse adeguato (la visiera aveva finalità protettive, ma il fatto che essa impedisse all’operaio la visuale la rendeva inidonea allo scopo) e, dall’altro, che il datore di lavoro non aveva adeguatamente esercitato né il dovere di istruire il lavoratore sull’impiego del detto dispositivo né il potere-dovere generale di vigilanza sulla sicurezza dei lavoratori, attribuito dal D. Lgs. n. 81/2008 al datore di lavoro.

 

Quanto al profilo formativo, la Sez. IV ha messo in evidenza che la Corte territoriale aveva chiarito che lo stesso era stato affrontato dall’imputato in modo del tutto inidoneo e insufficiente, e solo formalmente corretto, tanto più che il lavoratore, a causa della sua scarsa dimestichezza con la lingua italiana, non aveva compilato il questionario all’uopo sottopostogli, che era stato invece compilato al suo posto da un collega.

 

Il fatto poi, ha proseguito la suprema Corte, che il lavoratore fosse adibito all’operazione che stava compiendo già da lungo tempo, come dedotto dal ricorrente, non esimeva l’imputato da responsabilità sul piano formativo in quanto l’adempimento degli obblighi di informazione e formazione dei dipendenti, gravante sul datore di lavoro, non é escluso né é surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa.

 

Quanto al profilo dell’omessa vigilanza, il datore di lavoro da un lato non aveva controllato che il lavoratore calzasse lo scafandro nel modo dovuto e, dall’altro, non gli aveva fornito indicazioni sulla capacità del crogiuolo e sulla pericolosità dell’operazione in occasione della quale il lavoratore aveva riportato le lesioni, specie con riguardo al rischio, poi concretizzatosi, insito nel versare il metallo fuso in stampi che si presentavano bagnati. La Corte suprema ha quindi ricordato che in tema di prevenzione di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro deve non solo predisporre le idonee misure di sicurezza ed impartire le direttive da seguire a tale scopo ma anche e soprattutto controllarne costantemente il rispetto da parte dei lavoratori, di guisa che sia evitata la superficiale tentazione di trascurarle.

 

A proposito, infine, della ritenuta abnormità del comportamento lavoratore, che secondo il ricorrente aveva costituito l’unica vera causa dell’accaduto, la suprema Corte ha precisato che, come chiarito dalla giurisprudenza apicale di legittimità, la condotta abnorme del lavoratore é interruttiva del nesso di condizionamento quando essa si collochi in qualche guisa al di fuori dell’area di rischio definita dalla lavorazione in corso. “Tale comportamento”, ha così concluso la suprema Corte “é ‘interruttivo’ (per restare al lessico tradizionale) non perché “eccezionale” ma perché eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante é chiamato a governare”. Il fatto che il lavoratore non avesse tenuto abbassata la visiera (per suo errore, ma anche per inidoneità dello scafandro messogli a disposizione) non si poteva certo considerare “eccentrico” rispetto ai rischi della lavorazione di cui l’imputato, nella sua qualità di datore di lavoro, era gestore.

 

Gerardo Porreca

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 27543 dell’1 giugno 2017 (u. p. 17 maggio 2017) –  Pres. Ciampi – Est. Pavich – Ric. L. M.. – Il comportamento del lavoratore infortunato è interruttivo del nesso causale fra l’evento e la condotta del datore di lavoro non perchè è “eccezionale” ma perchè è “eccentrico” rispetto al rischio che il garante della sicurezza è chiamato a governare.

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Campi elettromagnetici: l’impatto del decreto 159/2016 sulle aziende

Il 2 settembre 2016 è, entrato in vigore, con il consueto ritardo dei nostri recepimenti della normativa europea, il Decreto legislativo del 01 agosto 2016, n° 159 recante “Attuazione della direttiva 2013/35/UE sulle disposizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici) e che abroga la direttiva 2004/40/CE”.

 

Per soffermarci sulle novità della Direttiva europea 2013/35/UE e del D.Lgs. 159/2016 – sono presenti diverse modifiche al D.Lgs. 81/2008 – abbiamo già intervistato, qualche mese fa e ad   Ambiente Lavoro di Bologna, Andrea Bogi, uno dei referenti in materia di campi elettromagnetici del Portale Agenti Fisici (PAF). Con lui abbiamo affrontato specialmente le prassi per la gestione dei rischi, con riferimento anche alle diverse guide pubblicate sul tema.

 

Tuttavia torniamo oggi sull’argomento cercando di analizzare più da vicino l’impatto del decreto sulle aziende, anche a livello di adempimenti, documentazione, notifiche, valutazione e deroghe.

E per farlo abbiamo intervistato l’Ing. Abdul Ghani Ahmad della Direzione Generale Tutela delle condizioni di lavoro e relazioni industriali – Div. III (tutela e promozione della sicurezza) del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Ingegnere che si è occupato spesso di campi elettromagnetici e che è stato relatore al convegno “dBAincontri2016  –  Campi  Elettromagnetici  nei  luoghi  di  lavoro. Legislazione,  Valutazione,  Tutela” che si è tenuto il 21 ottobre 2016 sempre ad Ambiente Lavoro.

 

Con l’ingegnere cerchiamo di dare, dopo qualche indicazione sul decreto, pratiche informazioni per le aziende, anche con riferimento alle relazioni da elaborare, alla sorveglianza sanitaria e al delicato tema delle deroghe, dell’applicazione più flessibile di prescrizioni legislative in materia di campi elettromagnetici.

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

In relazione alla sua partecipazione, a nome del Ministero, a convegni che affrontano il tema dell’esposizione a campi elettromagnetici e del nuovo D.Lgs. 159/2016, vorremmo entrare con questa intervista non solo nel merito del decreto di recepimento, ma anche sugli aspetti del decreto rilevanti o innovativi per le aziende. Diamo innanzitutto qualche breve informazione sul D.Lgs. 159/2016.

 

Abdul Ghani Ahmad: “Premesso che il decreto legislativo in parola scaturisce dalla necessità di adeguamento dell’ordinamento nazionale al contesto comunitario normativo,  in materia di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori dai rischi dovuti all’esposizione ai campi elettromagnetici, mutato a seguito dell’adozione della direttiva in questione.

La direttiva recepita mira a trattare tutti gli effetti biofisici diretti e gli effetti indiretti noti provocati dai campi elettromagnetici, non solo al fine di assicurare la salute e la sicurezza di ciascun lavoratore considerato individualmente, ma anche a creare per tutti i lavoratori nell’Unione una piattaforma minima di protezione, evitando nel contempo possibili distorsioni della concorrenza.

L’obiettivo principale del legislatore comunitario è quello di proteggere i lavoratori dagli effetti dell’esposizione ai campi elettromagnetici, partendo dalle seguenti considerazioni:

– che il sistema di protezione contro i campi elettromagnetici designato a livello comunitario si limiti, senza entrare troppo nel dettaglio, a definire: gli obiettivi da raggiungere, i principi da rispettare e i valori fondamentali da utilizzare.

– che è opportuno che i datori di lavoro si adeguino ai progressi tecnici e alle conoscenze scientifiche per quanto riguarda i rischi derivanti dall’esposizione ai campi elettromagnetici, in vista del miglioramento della sicurezza e della protezione della salute dei lavoratori.

Dunque, le disposizioni contenute nella direttiva possono essere riassunte in disposizioni minime per promuovere miglioramenti, in particolare, dell’ambiente di lavoro, al fine di garantire un più elevato livello di protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori, nel caso di attività comportanti esposizioni ai campi elettromagnetici.

 

L’ obiettivo generale del decreto legislativo n. 159/2016, è la protezione dei lavoratori durante le loro attività professionali, dai campi elettromagnetici nocivi. Per quanto l’esposizione a campi elettromagnetici è un rischio complesso, vi è la necessità di definire misure più specifiche per garantire un’adeguata protezione dei lavoratori, senza per questo ostacolare l’uso e lo sviluppo di tecniche industriali e medicali o di imporre oneri sproporzionati per le imprese, in particolare le PMI.

L’obiettivo operativo è quello di garantire l’efficacia delle misure volte a proteggere i lavoratori esposti a campi elettromagnetici impostando valori limite adeguati e fornendo ai datori di lavoro  adeguate informazioni sulle misure di gestione del rischio necessarie.

 

Il provvedimento interviene nel quadro legislativo delineato dal decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante <Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro>, modificando il Titolo VIII, Capo IV (campi elettromagnetici). Infatti, il decreto legislativo consta in due articoli.

L’articolo 1, reca le modifiche ovvero la sostituzione integrale sia degli articoli da 206 a 2012 che dell’allegato XXXVI con l’inserimento di un nuovo articolo (il 210_bis).

L’articolo 2, reca la clausola di invarianza economica obbligatoriamente prevista per legge”.

 

Cerchiamo di comprendere anche perché il recepimento, che credo sarebbe dovuto arrivare entro il primo luglio, è arrivato solo il primo agosto 2016 (con entrata in vigore il 2 settembre 2016) …

 

AGA: “Direi che siamo stati in tempo … (slittamento dal primo luglio al 2 settembre !!!!).

Il “lieve” ritardo è dovuto al fatto che sia la Conferenza Stato–Regioni e sia le Commissioni parlamentari hanno chiesto delle modifiche al testo inizialmente proposto e ciò ha comportato, in attesa di approvazione successiva del testo da parte dei proponenti, questo “lieve” ritardo dovuto alla programmazione di nuove consultazioni e conseguenti modifiche delle varie relazioni di accompagno al testo”.

 

Presentiamo ora alcune specificità, alcune novità per le aziende… Mi pare, ad esempio, che in certi casi sia richiesta una “relazione tecnico-protezionistica”…

 

AGA: “Innanzi tutto, corre l’obbligo sottolineare che la direttiva ha introdotto un sistema fondamentalmente flessibile rispetto al passato.

Semplificando, prima c’erano due griglie di valori e due colonne a cui riferirsi … ora invece abbiamo due griglie e quattro colonne di riferimento.

Nel merito, invece, si precisa che l’introduzione del comma 6 dell’articolo 208 (notifica all’organo di vigilanza) si rende necessaria quale garanzia, ai fini della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, che il regime di flessibilità per gli effetti sensoriali previsto dalla direttiva 2013/35/UE, che ammette la possibilità di superamento dei relativi VLE e VA (questi ultimi in assenza di dimostrazione di conformità ai VLE), non si traduca di fatto in un’omissione tout court della valutazione del rischio e delle misure di protezione alternative previste dalla direttiva, al rispetto delle quali è condizionato il regime di flessibilità medesimo.

L’occorrenza di effetti sensoriali infatti, pur non avendo effetti diretti sullo stato di salute del lavoratore, può avere conseguenze anche gravi sulla sicurezza del luogo di lavoro (es. per cadute, perdita di controllo di attrezzature, ecc.). Si precisa, peraltro, che le disposizioni sugli agenti fisici del d.lgs. 81/2008 già prevedono obblighi per il datore di lavoro di analogo o più restrittivo tenore (autorizzazione dell’organo di vigilanza invece della semplice notifica) in caso di deroga al rispetto dei VLE per il rumore (art.197) e per le vibrazioni (art.205).

 

La relazione tecnico-protezionistica di cui al comma 6 non è altro che un estratto dal documento di valutazione del rischio, relativo alla valutazione specifica sui livelli di esposizione ai campi elettromagnetici e alle misure specifiche di protezione intraprese, integrata con le motivazioni tecniche per le quali, ai fini del processo produttivo, non è possibile rispettare i VLE o i VA per gli effetti sensoriali.

In sintesi, il sistema di riferimento è cambiato, il datore di lavoro può optare per la flessibilità statuita dalla direttiva ma non può eludere la valutazione del rischio che è obbligatoria.

La previsione che il datore di lavoro debba comunicare il superamento dei VA agli effetti sanitari e / o i VLE agli effetti sensoriali va visto in questa ottica. Altrimenti avremmo permesso che il datore di lavoro dichiari di aver optato per una certa flessibilità senza aver mai valutato effettivamente il rischio.

E, pensiamo, che questa comunicazione debba, per le considerazione anzidette, essere effettuata una volta tanto e non come si pensa a primo acchito ad ogni “sforamento”. In quanto, leggendo con attenzione, non ci saranno sforamenti a ripetizione ma la previsione, in sede di valutazione del rischio, del superamento dei valori”.

 

Veniamo in particolare alle eventuali novità per la valutazione dei rischi e per la sorveglianza sanitaria, con riferimento anche alle modifiche al D.Lgs. 81/2008…

 

AGA: “Per quanto attiene all’obbligo della valutazione del rischio, non è cambiato niente … anzi …finalmente è entrato in vigore l’obbligo con i nuovi riferimenti cosi come declinato all’articolo 209.

Per quanto riguarda la sorveglianza sanitaria l’unica novità sembrerebbe che le visite mediche debbano essere effettuate in orario scelto dal lavoratore.

A questo punto corre l’obbligo di specificare che tale dicitura è contemplata nel testo della direttiva e non si poteva scegliere termini diversi. Ad ogni modo tale disposizione va letta all’interno del quadro generale della sorveglianza sanitaria statuita dall’articolo 41, ovvero che le visite mediche debbono essere effettuate in orario di lavoro. Dunque, all’interno dell’orario di lavoro il lavoratore sceglie l’orario della visita non potendo artatamente scegliere un orario diverso comportando con ciò il diritto al lavoro straordinario (se il datore di lavoro è concorde lo potrà fare anche in orario diverso dall’orario di lavoro sotto forma di lavoro straordinario)”.

 

Veniamo, infine, al delicato capitolo delle deroghe al rispetto dei valori… Perché richiederle? Come ottenerle? Quali i criteri per concederle?

 

AGA: “Le deroghe previste sono di vario tipo. In primis la deroga relativa all’amministrazione della difesa già prevista dalla direttiva e attuata dall’ art. 206, comma 4.

Poi ci sono le deroghe ex lege di cui all’articolo 209 … (la clausola di flessibilità)

Ed infine, La deroga sui limiti, prevista dall’articolo 10 della direttiva e recepita dall’articolo 212, che rimanda ad un decreto interministeriale che detta le condizioni per una richiesta motivata di deroga …

Certamente le deroghe si possono pensare relative alle risonanze magnetiche … ad un processo innovativo di produzione … macchinari di ultima generazioni”…

 

Ci sono a suo parere aspetti critici nel decreto e nella direttiva?

 

AGA: “Aspetti critici direi, al momento, di no … anche se le critiche ci sono”.

 

Il tema dei rischi da campi elettromagnetici è un tema delicato che riguarda molte aziende e può richiedere analisi non semplicissime. Concludiamo cercando di capire, a suo parere, qual è in Italia l’attenzione verso questo rischio e cosa fa il Ministero per supportare le aziende e migliorare la tutela dei lavoratori.

 

AGA: “Che si tratti di un argomento delicato lo dimostra il fatto che la precedente direttiva non era mai, di fatto, entrata in vigore.

L’attenzione è alta, specialmente se si pensa che tale tema rientra all’interno di un ambito ancora più vasto, vedasi a tal proposito il piano nazionale contro l’inquinamento elettromagnetico”.

Per quanta riguarda le amministrazioni coinvolte per gli aspetti della tutela professionale dagli effetti negativi dei campi elettromagnetici si pensa, nel prossimo futuro, a delle circolari esplicative (ove si ritenga necessario), di realizzare delle linee guida ovvero documenti tecnici, magari riguardanti alcuni aspetti specifici che richiedono maggiore approfondimento”.

 

 

Decreto legislativo 1 agosto 2016, n. 159 – Attuazione della direttiva 2013/35/UE sulle disposizioni minime di sicurezza e di salute relative all’esposizione dei lavoratori ai rischi derivanti dagli agenti fisici (campi elettromagnetici) e che abroga la direttiva 2004/40/CE. (16G00172).

 

Leggi gli altri articoli di PuntoSicuro sui rischi correlati ai campi elettromagnetici

 

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Fonte: puntosicuro.it

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I limiti del diritto all’oblio

La sentenza della cassazione civile, sezione 1, numero 1931 dell’anno 2017 merita di essere attentamente letta da tutti coloro che hanno a che fare con possibili rivendicazioni, legate ad una non corretta applicazione del codice della privacy.

La faccenda è piuttosto complessa e viene così sintetizzata.

Un interessato ha convenuto in giudizio due banche, chiedendo che si provvedesse all’immediata cancellazione del suo nominativo nella centrale rischi, nella categoria “sofferenze”, ivi inserito a seguito di legittima segnalazione effettuata dalla banca convenuta. Il tribunale di Roma ha ritenuto che la segnalazione fosse stata legittimamente effettuata, essendo incontestata l’erogazione di somme da parte della banca e la restituzione non integrale di essi.

 

L’interessato è ricorso in cassazione, una prima volta, che ha riconosciuto che non era stato correttamente individuato il presupposto della segnalazione a sofferenza, in quanto non supportata da una analitica valutazione della complessiva situazione finanziaria dell’interessato.

In altre parole, anche se l’interessato attraversava una situazione economica difficile, essa non aveva connotati talmente gravi da richiedere l’inserimento nella categoria sofferenze.

 

La faccenda però non è finita qui, perché l’interessato ha ritenuto che comunque la situazione, condannata dal tribunale, gli aveva creato dei danni di immagine gravi, tanto è vero che non aveva potuto avere ulteriori finanziamenti presso altre banche.

 

Egli chiedeva pertanto un congruo risarcimento, facendo riferimento all’articolo 2050 del codice civile, che espressamente ricordato del codice della privacy. In altre parole, chiunque tratta dati personali svolge una attività pericolosa e quindi deve adottare ogni possibile cautela per evitare danni a terzi.

 

A proposito, si ricorda che il codice della privacy prevede effettivamente il risarcimento dei danni che possa subire un interessato, a seguito di non lecito trattamento di dati personali. Tale danno però deve essere ampiamente provato, non solo negli aspetti materiali, ma anche negli aspetti immateriali, come ad esempio il danno di immagine, che certamente è ben più difficile da quantizzare.

 

Ricordo ai lettori che il regolamento generale europeo prevede esplicitamente che l’interessato abbia diritto a ricevere risarcimenti per danni sia materiali, sia immateriali.

La cassazione pertanto è passata ad esaminare se il ricorrente avesse presentato una documentazione credibile, in merito ai danni che egli aveva subito per la erronea iscrizione del suo nome nell’elenco delle sofferenze della centrale rischi.

 

La cassazione ha concluso affermando che il ricorrente non aveva presentato alcuna documentazione probatoria o comunque credibile in merito ai danni che egli avrebbe subito, per tale iscrizione nella centrale rischi, e pertanto la richiesta è stata rigettata con addebito di spese.

La morale che deve trarsi da questa sentenza è duplice:

  • da un lato, appare evidente che le banche devono prestare grande prudenza nella gestione dei nominativi dei clienti, che per qualche motivo non hanno potuto rispettare i loro impegni economici,
  • dall’altro lato, l’interessato deve presentare una documentazione probatoria assolutamente credibile perché possa essere applicato non solo l’articolo 2050 del codice civile, ma anche perché possa essere riconosciuto il suo diritto a un risarcimento, conseguente a violazione del codice della privacy.

 

Adalberto Biasiotti

 

Sentenza della cassazione civile, sezione 1, numero 1931 dell’anno 2017 (pdf)

 

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Fonte: puntosicuro.it

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DPI: gli indumenti per il calore intenso e gli ambienti severi caldi

.Roma, 26 Giu – In un precedente articolo PuntoSicuro ha sottolineato come le conseguenze del caldo nei luoghi di lavoro, delle alte temperature, della presenza di fonti di calore può portare ad un aumento di sudorazione, a problemi di tachicardia. E anche ad un calo di attenzione e prontezza dei riflessi, con aumentata difficoltà a svolgere attività fisiche pesanti. Con il caldo si può avere poi surriscaldamento cutaneo ma anche scottature, spossatezza, nausea, cefalea, vomito, edema, perdita di coscienza fino al collasso. E più volte, generalmente in relazione all’arrivo dell’estate, il nostro giornale si è soffermato sulle conseguenze dei “colpi di calore”.

 

 

Tuttavia esistono dispositivi per la protezione del corpo che possono aiutare i lavoratori a proteggersi dagli eccessi della temperatura ambientale e per parlarne ci soffermiamo sul documento “ ImpresaSicura_DPI”; un documento correlato al progetto multimediale Impresa Sicura – elaborato da EBEREBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e Inail – che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013.

 

Nel documento si ricordano le tre tipologie di ambienti termici, determinati tramite specifiche metodologie di valutazione: ambienti moderati, severi freddi e severi caldi. Dove gli ambienti severi caldi sono caratterizzati dalla “presenza d’intense fonti di calore con combinazione di alte temperature dell’aria, alte temperature radianti e alte umidità, in cui le condizioni ambientali non si mantengono costanti” e pertanto comportano “ stress termico”.

 

Inoltre si indica che è necessario “distinguere il rischio nelle attività effettuate nell’ambiente severo caldo da quelle esposte a “calore intenso”.

 

Infatti riguardo all’esposizione a calore intenso si segnala che nei periodi prevalentemente estivi “le temperature raggiungono valori elevati determinando uno ‘stress termico’ con conseguente difficoltà a svolgere mansioni pesanti”.

Ed in caso di “strutture e/o capannoni non termicamente isolati, mancanza di ricambi d’aria”, il rischio non è limitato ai lavoratori che lavorano all’aperto, quali “agricoltori, addetti alla raccolta di frutta e/o verdura sia nei campi sia nelle serre e gli operai dei cantieri edili e stradali”.

Per i rischi di questi lavoratori è necessario valutare due semplici parametri: la temperatura dell’aria e l’umidità relativa: “sono a ‘rischio’ le giornate in cui la temperatura all’ombra supera i 30°C e/o l’umidità relativa è superiore al 70%”.

Viene riportata, a questo proposito, la “Carta dell’indice di calore” elaborata dall’Istituto Nazionale Francese per la Ricerca sulla Sicurezza, che fornisce l’indice di pericolosità, in relazione alla temperatura dell’aria (misurata con un termometro) e l’umidità dell’aria (misurata con un igrometro). Si segnala che gli “indici riportati sono validi per lavoro all’ombra quanto tira un vento leggero”.

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Si segnala poi che il rischio è più elevato in caso dell’arrivo di “ ondate di calore”, “poiché l’acclimatamento richiede un certo periodo di tempo, variabile dagli 8 ai 12 giorni. I segnali di allarme sono: sete intensa, crampi muscolari, nausea, vomito, vertigini, perdita di stato di coscienza, collasso”. Sono raccomandati possibili comportamenti di auto protezione, ad esempio:

– “indossare abiti leggeri;

– coprirsi il capo;

– bere acqua fresca regolarmente;

– evitare bevande alcoliche;

– evitare pasti abbondanti;

– in caso di malessere segnalare i sintomi al capocantiere o a un collega; non mettersi alla guida di un veicolo, ma farsi accompagnare”.

 

Veniamo alla protezione in ambienti severi caldi.

 

Gli indumenti di protezione per lavoratori dell’industria esposti al calore (esclusi gli indumenti per i vigili del fuoco e i saldatori) proteggono “contro l’azione di parti roventi, da contatti rapidi con la fiamma, scintille, così come da spruzzi di metalli liquidi o di scorie, fuso e da altri tipi di calore, quali convettivo, radiante, o le loro combinazioni”.

I lavoratori esposti a questa fonte di rischio sono, ad esempio, “gli addetti agli alti forni, all’industria petrolchimica e petrolifera, ma anche gli addetti allo spegnimento degli incendi boschivi, ecc”.

In questo caso gli indumenti – di materiale flessibile per proteggere le specifiche parti del corpo – “comprendono sia tute, che coprono la parte superiore e/o inferiore del corpo, sia più pezzi, quali pantaloni, giacche, cappucci e ghette. Presentano una fodera interna, più a contatto con la pelle, e una intermedia, a contatto con il materiale esterno”.

In particolare l’abbigliamento “deve riflettere il calore radiante e deve essere difficilmente o per niente infiammabile. Questi requisiti sono soddisfatti sia da fibre minerali sia sintetiche, ma anche da quella naturali difficilmente infiammabile. Tali fibre formano il ‘tessuto portante’ del capo, rivestito superficialmente da lamine di alluminio, argento, rame e oro, che riflettono il calore radiante fino al 90%. L’efficacia del rivestimento metallizzato può essere drasticamente ridotta dagli effetti dell’usura ma anche dall’invecchiamento dovuto al solo immagazzinamento”.

 

Il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta poi i test, le funzionalità e i livelli di prestazione degli indumenti riguardo a propagazione della fiamma, trasmissione del calore convettivo, trasmissione del calore radiante, trasmissione da spruzzi di alluminio fuso, trasmissione da spruzzi di ferro fuso, trasmissione del calore per il contatto. E si segnala, ad esempio, che gli abiti utilizzati contro gli spruzzi di metallo fuso “devono avere anche i seguenti requisiti supplementari:

– i pantaloni devono essere privi di risvolti;

– l’orlo dei pantaloni deve coprire la parte alta della scarpa;

– il pantalone deve essere sempre coperto dalla giacca qualunque sia il movimento dell’operatore;

– le zone spalle e colletto per la giacca e cavallo per i pantaloni devono avere protezioni rinforzate;

– le eventuali chiusure metalliche poste sulla parte esterna dei capi deve essere coperta o idoneamente trattata al fine di evitare eventuale presa del metallo fuso;

– i dispositivi di chiusura/apertura devono consentire sia un rapido indossamento che la rapida

svestizione”.

 

Il progetto si sofferma poi sugli indumenti di protezione dalle radiazioni UV.

 

Infatti nel caso di esposizioni a radiazioni UV (ultravioletta), che è, ad esempio, molto probabile nei lavori all’aperto in estate a metà giornata, è “opportuno utilizzare a protezione almeno delle parti superiori del corpo, capi di abbigliamento con Fattore di protezione ultravioletto (UPF) maggiore di 40”.

Come per gli altri indumenti, anche in questo caso sono riportate indicazioni sui requisiti, sulle taglie, sulla marcatura e sulle istruzioni per gli operatori”.

 

Concludiamo riportando qualche indicazione relativa agli indumenti di protezione contro il calore ed il fuoco (calore per contatto).

 

Il documento segnala che il rischio da calore per contatto è frequente “quando è possibile che un operatore venga occasionalmente a ‘contatto’ per tempi brevi con piccole fiamme”.

E un tale indumento di protezione, che “può essere costituito da più capi d’abbigliamento distinti oppure da un unico capo d’abbigliamento a uno o più strati, deve essere fatto con materiale che abbia la proprietà di limitare la propagazione della fiamma” per ridurre la “possibilità che l’indumento prenda fuoco”.

 

 

Il sito “ Impresa Sicura”: l’accesso via internet è gratuito e avviene tramite registrazione al sito.

 

Commissione Consultiva Permanente per la salute e sicurezza sul lavoro – Buone Prassi -Documento approvato nella seduta del 27 novembre 2013 – Impresa Sicura

 

 

RTM

 

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Fonte: puntosicuro.it

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La responsabilità del RUP per un infortunio in un cantiere pubblico

Sono stati messi in evidenza dalla Corte di Cassazione in questa sentenza i compiti e gli obblighi del responsabile unico del procedimento (RUP) in materia di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in un appalto pubblico e confrontati con quelli del direttore dei lavori nella stessa materia. In tema di sicurezza sul lavoro, ha affermato la Suprema Corte, sussiste a carico del RUP una posizione di garanzia non solo nella fase di progettazione dei lavori quando fa elaborare il PSC ma anche durante il loro svolgimento quando ha l’obbligo di sorvegliare sulla sua corretta applicazione.

 

Al committente e al responsabile dei lavori è attribuita infatti dalla legge, ha aggiunto la suprema Corte, una posizione di garanzia particolarmente ampia comprendente l’esecuzione di controlli non formali ma sostanziali ed incisivi in materia di salute e sicurezza sul lavoro sicché a loro spetta pure accertare che i coordinatori per la sicurezza in fase di progettazione e di esecuzione dei lavori adempiano agli obblighi agli stessi attribuiti in tale materia.

 

Sui compiti e sugli obblighi del direttore dei lavori la suprema Corte ha richiamato invece l’indirizzo giurisprudenziale con il quale si è affermato che lo stesso svolge normalmente una attività limitata alla sorveglianza tecnica attinente all’esercizio del progetto nell’interesse dello stesso committente con la conseguenza che è responsabile dell’infortunio subito da un lavoratore se è accertata una sua ingerenza nell’organizzazione del cantiere.

 

Il fatto e l’iter giudiziario

La Corte d’Appello ha confermata la sentenza con la quale il Tribunale aveva condannato un responsabile unico del procedimento alla pena di giustizia e alle statuizioni civili risarcitorie in favore della persona offesa, in relazione al delitto di lesioni colpose gravi in danno di un lavoratore con violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro (art. 590, commi 1, 2 e 3, cod.pen., in riferimento agli artt. 96, comma 1, lettera B e 159 del D. Lgs. n. 81/2008, e all’art. 3, comma 4 in relazione all’art. 20 del D. Lgs. n. 494/1996 confluito nell’art. 90, comma 4, del citato D. Lgs. n. 81/2008).

 

Oggetto del processo era stato l’infortunio occorso al lavoratore, il quale transitava in prossimità di una ringhiera di recinzione di un edificio pubblico ove in quel momento si stavano svolgendo lavori di ristrutturazione affidati dal committente all’impresa esecutrice (nel giorno dell’infortunio in particolare era in corso la sostituzione del cancello d’entrata) ed era stato travolto dal crollo dell’anzidetta ringhiera, riportando le gravi lesioni descritte negli atti.

 

Il R.U.P. nella sua qualità di responsabile dei lavori di cui all’appalto aveva risposto delle suddette lesioni a titolo di cooperazione colposa con il titolare della ditta appaltatrice dei lavori, separatamente giudicato, per avere omesso di nominare il coordinatore per l’esecuzione dei lavori, non consentendo così l’attivazione di un piano di sicurezza necessario per evitare danni a terzi.

 

La Corte di Appello, alla quale l’imputato aveva fatto ricorso, ha respinto le lamentele dell’imputato, riferite al fatto che la nomina di un coordinatore per l’esecuzione dei lavori non era necessaria poiché la ditta esecutrice era una soltanto, così come non era necessario l’elaborazione del piano di sicurezza. Il ricorrente ha sostenuto in particolare che il nesso causale fra la sua condotta e l’evento era stato interrotto dal sopraggiungere di cause autonome e imprevedibili dello stesso ma la Corte distrettuale aveva accertato, in realtà, che nei lavori era subentrata un’altra impresa oltre a quella aggiudicataria per cui il R.U.P. nell’espletamento dei doverosi controlli a lui incombenti, avrebbe dovuto assumere le conseguenti iniziative non potendo detti controlli essere rimessi al direttore dei lavori. L’inadeguatezza di detti controlli da parte dell’imputato era stata all’origine del sinistro e ciò, secondo la Corte territoriale e contrariamente a quanto asserito dal ricorrente, aveva assunto rilevanza anche ai fini della sussistenza del nesso di causalità tra la sua condotta e l’evento lesivo.

 

Il ricorso in Cassazione e le motivazioni

Avverso la sentenza della Corte di Appello il R.U.P. ha ricorso in cassazione per il tramite del suo difensore di fiducia. Come principale motivo di ricorso il R.U.P. ha sostenuto che non poteva essere a conoscenza del subentro, nell’espletamento dei lavori oggetto dell’appalto, di un’altra ditta nell’esecuzione di una porzione minimale dei lavori e che i dipendenti di quest’ultima ditta subappaltatrice (in esecuzione di lavori illegittimamente affidati alla stessa dalla ditta appaltatrice) avevano deciso estemporaneamente di eseguire i lavori di sostituzione del cancello durante i quali si era verificato il crollo della recinzione. Né si poteva da lui esigere, nella qualità di R.U.P., il compito di procedere a un controllo costante e di assicurare una costante presenza sul luogo di lavoro. Il ricorrente ha precisato, altresì, che era stato nominato un direttore dei lavori cui era stato affidato il compito di vigilare sull’osservanza dei piani di sicurezza e che se tale compito fosse stato correttamente espletato, ciò avrebbe consentito di rilevare e scongiurare l’improvvida iniziativa del lavoratore infortunato. Lo stesso ha sostenuto ancora che il direttore dei lavori aveva omesso di informarlo del subentro della seconda impresa e ancora che la Corte di merito ha omesso di considerare che la condotta dell’appaltatore e degli operai che eseguirono la rimozione del cancello si era posto come fattore eccezionale, anomalo e imprevedibile, tale da interrompere il nesso causale tra la condotta omissiva oggetto di addebito e l’evento lesivo.

 

Le decisioni in diritto della Corte di Cassazione

Il ricorso é stato ritenuto inammissibile dalla Corte di Cassazione. Secondo la stessa la tesi avanzata dal ricorrente, secondo cui nel cantiere sarebbe subentrata indebitamente ed a sua insaputa la ditta subappaltatrice che stava materialmente eseguendo la rimozione del cancello che aveva cagionato il crollo della recinzione, era troppo generica ed era stata portata avanti senza neppure fornire una specifica indicazione degli atti in base ai quali tale circostanza fosse desumibile. A rimarcare la responsabilità dell’imputato la suprema Corte ha ricordato che “in tema di infortuni sul lavoro, sussiste a carico del responsabile unico del procedimento una posizione di garanzia connessa ai compiti di sicurezza non solo nella fase genetica dei lavori, laddove vengono redatti i piani di sicurezza, ma anche durante il loro svolgimento, nella quale ha l’obbligo di sorvegliarne la corretta attuazione, controllando anche l’adeguatezza e la specificità dei piani di sicurezza rispetto alla loro finalità, preordinata all’incolumità dei lavoratori”.

Al committente ed al responsabile dei lavori, ha così proseguito la Sez. IV, é attribuita dalla legge una posizione di garanzia particolarmente ampia, comprendente l’esecuzione di controlli non formali ma sostanziali ed incisivi in materia di prevenzione, di sicurezza del luogo di lavoro e di tutela della salute del lavoratore, sicché ai medesimi spetta pure accertare che i coordinatori per la progettazione e per l’esecuzione dell’opera adempiano agli obblighi sugli stessi incombenti in detta materia. Quanto al direttore dei lavori nominato dal committente, figura che più volte nel ricorso è stata chiamata in causa come vero soggetto responsabile, la Sez. IV ha richiamato l’indirizzo giurisprudenziale nel quale si afferma che questi svolge normalmente una attività limitata alla sorveglianza tecnica attinente all’esecuzione del progetto nell’interesse dello stesso committente con la conseguenza che risponde dell’infortunio subito dal lavoratore solo se é accertata una sua ingerenza nell’organizzazione del cantiere.

 

L’imputato, ha così concluso la Corte di Cassazione, quale soggetto designato come responsabile unico del procedimento e dei lavori d’appalto, aveva assunto una posizione di garanzia che gli imponeva di esercitare controlli comprensivi dell’effettuazione in sicurezza di tutti i lavori oggetto dell’appalto. Perciò la mancata allegazione di elementi deponenti per l’asserita estemporaneità e imprevedibilità dei lavori che occasionarono l’infortunio porta a concludere, da un lato, che in realtà tali operazioni rientrassero nella sua sfera di controllo e, dall’altro, che la pluralità di ditte operanti all’interno del cantiere gli imponeva di nominare un coordinatore per l’esecuzione dei lavori ai sensi dell’art. 90, comma 4 del D. Lgs. n. 81/2008, cosa che avrebbe, con elevata probabilità logica, consentito di accertare tempestivamente e, quindi, d’impedire l’irregolare esecuzione delle operazioni di rimozione del cancello che determinarono il crollo del recinto.

 

A seguito della inammissibilità del ricorso la Corte suprema ha condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed inoltre, alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13/6/2000, al pagamento di una somma di € 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende oltre alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalla costituita parte civile liquidate in complessivi € 2.500,00 oltre accessori come per legge.

 

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza n. 18102 del 10 aprile 2017 (u. p. 16 marzo 2017) –  Pres. Romis – Est. Pavich – Ric. C. A.. – In tema di sicurezza sul lavoro sussiste a carico del RUP una posizione di garanzia non solo nella fase di progettazione dei lavori quando fa elaborare il PSC ma anche durante il loro svolgimento quando ha l’obbligo di sorvegliare sulla sua attuazione.

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Rischio stress: una valutazione per il personale docente universitario

Trieste, 26 Giu – Il quadro normativo relativo alla tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro (Decreto Legislativo 81/2008) riconosce lo stress lavoro-correlato come un importante fattore di rischio da sottoporre a valutazione. E molte ricerche hanno messo in rilievo, in questi anni, come nel mondo del lavoro l’insegnamento sia “una tra le occupazioni più stressanti”. Ad esempio secondo una ricerca condotta in Gran Bretagna “il 41,5% degli insegnanti ritiene che il proprio lavoro sia stressante, contro il 32% degli infermieri e il 27% dei manager (Smith, Brice, Collins, Matthews, McNamara, 2000)”. Ma sono purtroppo pochi gli studi, in materia di stress lavoro correlato, che hanno riguardato il personale docente universitario.

 

Per affrontare il tema dello stress in questo ambito specifico, con riferimento anche alla costruzione di uno strumento specifico per la misurazione dei fattori di rischio, facciamo riferimento ad un intervento contenuto nel volume “ Dalla prevenzione alla gestione dello stress lavoro correlato” curato da Giorgio Sclip (RSPP, membro del Focal Point per l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro – Università degli Studi di Trieste), edito da EUT Edizioni Università di Trieste. Volume che, presentato al seminario “Dalla prevenzione alla gestione dello stress lavoro-correlato. Strumenti di valutazione e buone pratiche” (13 marzo 2017, Trieste), riporta i materiali della giornata di studi “Sicurezzaccessibile” che si è svolta, sempre a Trieste, nel mese di ottobre 2015.

 

In “La misura dello stress e la valutazione soggettiva. Un’indagine sul personale docente dell’Università degli Studi di Trieste”, contributo a cura di Francesco Marcatto, Lisa Di Blas, Donatella Ferrante (Dipartimento di Scienze della Vita, Università di Trieste) e Giorgio Sclip (Servizio Protezione, Prevenzione e Disabilità, Università di Trieste), si ricorda che anche l’università pubblica è tenuta a “effettuare la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato per tutti i suoi dipendenti”.

Tuttavia se la valutazione dello stress lavoro correlato nel personale tecnico-amministrativo “può essere condotta seguendo le linee guide sviluppate dalla Commissione Consultiva permanente per la salute e la sicurezza del lavoro”, valutare lo stress nel personale docente “presenta delle difficoltà dovute alle peculiarità del lavoro di docente universitario. In particolare, non esistono ancora strumenti psicometrici adatti a cogliere le dimensioni di rischio stress a cui possono essere esposti i docenti universitari”.

 

Il contributo presenta dunque “la costruzione e taratura di uno strumento per la misurazione dei fattori di rischio di stress lavoro-correlato dedicato al personale docente dell’università, insieme ai risultati della valutazione soggettiva del rischio di stress lavoro-correlato su un campione rappresentativo del personale docente dell’Università degli Studi di Trieste”.

 

A questo proposito si segnala che, per condurre la valutazione del rischio da stress lavoro-correlato nel rispetto della normativa vigente, l’Università di Trieste “ha sviluppato già dall’anno accademico 2009/10 il seguente protocollo di valutazione e gestione dello stress rivolto al personale tecnico-amministrativo (Sclip, Marcatto, Larese Filon, Negro, Ferrante, 2015):

  1. Preparazione dell’organizzazione sulle modalità e sulle finalità della valutazione, e assistenza a richiesta durante la compilazione dei questionari;
  2. Valutazione preliminare del rischio da stress lavoro-correlato, tramite la raccolta dati su indicatori sentinella e l’individuazione di potenziali criticità preesistenti;
  3. Valutazione approfondita della percezione soggettiva del rischio stress lavoro-correlato da parte dei lavoratori, tramite questionari in formato cartaceo e online;
  4. Interventi formativi e informativi”.

Si tratta di un protocollo che si basa sui “Management Standards, una metodologia messa a punto originariamente dall’Health and Safety Executive (HSE) britannico, per favorire l’adozione di pratiche organizzative adeguate a prevenire e ridurre lo stress lavoro-correlato nelle aziende (HSE, 2007)”. E elemento chiave del protocollo è la “valutazione approfondita del rischio stress tramite il coinvolgimento diretto del personale, al quale viene somministrato un questionario di valutazione soggettiva dei fattori organizzativi di rischio. Per condurre la valutazione approfondita con il personale tecnico-amministrativo, si è scelto di usare l’HSE-MS Indicator Tool (HSE-MS IT; Cousins et al., 2004), un questionario per l’assessment dello stress lavoro-correlato che permette di ottenere i livelli di rischio nelle dimensioni organizzative che possono produrre stress, minimizzando al contempo l’effetto di eventuali problemi personali non riconducibili all’ambiente lavorativo o idiosincrasie di singoli lavoratori”.

 

Si indica che la versione originale dell’HSE-MS IT, utilizzata per la valutazione dello stress lavoro correlato nel personale tecnico-amministrativo dell’università, “non si presta bene a cogliere i fattori di stress a cui possono essere esposti i docenti universitari e più in generale tutte le professioni, in cui gli orari non sono rigidi e la suddivisione gerarchica non prevede un diretto superiore a cui fare riferimento per l’assegnazione dei compiti da svolgere o in caso di bisogno. Di conseguenza, per poter condurre la valutazione approfondita dello stress lavoro-correlato nel personale docente, si è reso necessario elaborare un nuovo questionario, sempre sulla base dell’HSE- MS IT, che fosse adeguato alle peculiarità di questa tipologia di lavoro”. E nel contributo si presentano i risultati emersi da un primo studio condotto per “valutarne alcune proprietà psicometriche essenziali”.

 

Rimandiamo alla lettura integrale dell’intervento che si sofferma sull’Indicator Tool per il personale docente universitario, sulle modifiche effettuate rispetto alla versione originale dell’HSE-MS IT, sulle caratteristiche psicometriche, sulla validità e affidabilità dell’Indicator Tool per Docenti Universitari (IT DU). E ci soffermiamo, invece, sulla parte finale del contributo che ricorda come, per mezzo del nuovo questionario (IT DU), sia stato possibile condurre la valutazione approfondita nel personale docente dell’Università degli Studi di Trieste.

 

Sono riportati alcuni risultati.

 

Particolarmente critiche “si sono rivelate le dimensioni Carico di lavoro e Responsabilità, si sono inoltre evidenziate differenze legate al genere e al ruolo. Le donne infatti sono maggiormente esposte a fattori di rischio da stress (in particolare relazioni, carico di lavoro e supporto dei colleghi) e conseguentemente vivono una situazione di maggiore sofferenza (in termini di percezione di stress ma anche di incidenza di disturbi fisici) rispetto ai loro colleghi uomini”.

Inoltre, “come era facile attendersi”, i “professori ordinari sono maggiormente a rischio nella dimensione Responsabilità rispetto ai professori associati e ai ricercatori universitari, tuttavia ricevono maggiori ricompense lavorative, sono più soddisfatti della propria vita e riferiscono significativamente meno disturbi fisici”.

 

Inoltre l’utilizzo dell’IT DU ha permesso di “investigare ulteriormente la complessa relazione tra le dimensioni coinvolte, e allo stesso tempo di identificare le aree in cui è prioritario intervenire per migliorare il benessere, la salute e la soddisfazione dei lavoratori”. E si segnala che somministrando il medesimo strumento all’interno della stessa organizzazione in momenti diversi – “ad esempio con cadenza annuale o prima e dopo la messa in atto di interventi volti a ridurre lo stress” – si può “monitorare il rischio da stress lavoro-correlato e l’efficacia delle eventuali azioni correttive intraprese”.

 

Senza dimenticare, in conclusione, che nonostante “sia stato pensato per il personale docente universitario, l’IT DU può facilmente essere adattato a tutte le tipologie di occupazioni prive di orari rigidi e di una suddivisione gerarchica ben definita, come ad esempio professionisti e dirigenti, per cui attualmente non sono disponibili strumenti per la valutazione dello stress lavoro-correlato a livello organizzativo”.

 

 

“ Dalla prevenzione alla gestione dello stress lavoro correlato”, Sicurezza accessibile – Giornata di studi – Trieste, 20 ottobre 2015, volume curato da di Giorgio Sclip (RSPP, membro del Focal Point per l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro – Università degli Studi di Trieste), edito da EUT Edizioni Università di Trieste, presentato al seminario “Dalla prevenzione alla gestione dello stress lavoro-correlato. Strumenti di valutazione e buone pratiche” (formato PDF, 7.58 MB).

 

 

Tiziano Menduto

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Impianti elettrici di cantiere: i rischi e i metodi di protezione

Un progetto multimediale si sofferma sull’impiantistica elettrica dei cantieri edili. Focus sugli effetti della corrente nei cantieri e sui metodi di protezione contro i contatti diretti e indiretti, contro il sovraccarico e il corto circuito.
 

Bologna, 16 Giu – Il passaggio della corrente elettrica attraverso il corpo umano può produrre vari effetti riconducibili principalmente “a disfunzione di organi vitali (cuore, sistema nervoso)” e ad “alterazione dei tessuti per ustione”. Le conseguenze possono essere, ad esempio:

– tetanizzazione: “si contraggono i muscoli interessati al passaggio della corrente e risulta difficile staccarsi dalla parte in tensione (contrazione spasmodica dei muscoli);

– arresto della respirazione: si determina la paralisi dei centri nervosi che controllano la respirazione (il soggetto colpito muore di asfissia);

– fibrillazione ventricolare: risulta l’effetto più pericoloso ed è dovuto alla sovrapposizione delle correnti provenienti dall’esterno con quelle fisiologiche che, generando contrazioni scoordinate del muscolo cardiaco, può portare fino all’arresto cardiaco;

– ustioni: sono prodotte dal calore che si sviluppa per effetto joule dalla corrente elettrica che fluisce attraverso il corpo”.

 

A ricordare gli effetti della corrente elettrica nel corpo umano è un documento che si sofferma sull’impiantistica elettrica di cantiere correlato al progetto Impresa Sicura, un progetto multimediale – elaborato da EBEREBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e Inail – che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013.

 

Nel documento “ImpresaSicura_Impiantistica elettrica di cantiere”, si segnala che nei cantieri edili, “in particolare, a causa della presenza di terreno bagnato e di severe sollecitazioni meccaniche di apparecchi e condutture, sono particolarmente pericolosi i contatti diretti (per esempio: contatto con parti in tensione di cavi o apparecchi elettrici danneggiati)”. Ma nei cantieri edili, oltre al contatto della persona con parti in tensione, è presente “anche il rischio di contatto di macchine, tipo gru, autogru, pompe per cemento ecc. con le linee elettriche aeree esterne. Analogamente è presente anche il rischio di contatto di macchine, tipo escavatori, con le linee elettriche interrate”.

Si segnala poi che se “adeguate barriere isolanti o protezioni meccaniche delle linee talvolta possono essere utili”, solo “l’informazione e l’attenzione degli operatori possono prevenire tali incidenti in modo esaustivo”.

Si ricorda poi che oltre al passaggio di corrente nel corpo gli impianti elettrici “possono anche causare altri eventi che sono pericolosi per l’incolumità delle persone:

– ustioni per surriscaldamenti di parti elettriche o per innesco di materiali infiammabili e/o esplosivi;

– ustioni/lesioni per malfunzionamenti di interruttori inidonei a interrompere l’arco elettrico che si produce nei corto-circuiti”.

E a causa dei fulmini “possono prodursi delle sovratensioni sugli impianti elettrici che possono danneggiare i componenti dell’impianto elettrico e provocare guasti a massa di apparecchi; sempre a causa dei fulmini possono manifestarsi tensioni pericolose tra terreno e parti metalliche a contatto delle persone (tensioni di contatto) e anche tensioni pericolose tra i due piedi (tensioni di passo)”.

Infine un ulteriore rischio nell’utilizzo dell’energia elettrica nel cantiere è “legato al fatto che l’energia elettrica può anche venire a mancare per cause esterne al cantiere, pertanto è necessario valutare anche questo rischio (ad esempio: lavori in sotterraneo, in galleria, carichi sospesi particolarmente pericolosi); in questi casi si deve ricorrere all’utilizzo di un gruppo elettrogeno come alimentazione dei servizi di sicurezza”.

 

Il documento si sofferma poi brevemente sui vari metodi di protezione.

 

Ad esempio si indica che si devono utilizzare misure intese a fornire una protezione totale contro i contatti diretti (nei contatti diretti una parte del corpo umano viene a contatto con parti attive dell’impianto che normalmente sono in tensione):

– “isolamento parti attive;

– protezione delle parti attive con involucri aventi grado di protezione adatto”; nel documento sono riportate alcune tabelle tratte dalla norma CEI 70-1.

 

In particolare si segnala che nei cantieri bisogna “prevedere una protezione contro polvere e spruzzi (IP44) che consegue automaticamente anche la protezione minima richiesta contro i contatti diretti: IP2X per parti verticali, IP4X per parti orizzontali. Nei box-uffici-spogliatoi è sufficiente la protezione IP2X. Nei bagni con doccia è necessaria la protezione IP44 dove si preveda la proiezione di spruzzi d’acqua, fermo restando che dal punto doccia non deve essere possibile toccare parti elettriche (ad esempio: porta-lampade, comandi luce, apparecchi elettrici)”. Per maggiori dettagli si consiglia di fare riferimento alla norma CEI 64-8/7.

Si segnala anche che “l’utilizzo di interruttori differenziali con corrente nominale d’intervento non superiore a 30 mA viene riconosciuto come una protezione addizionale contro i contatti diretti, ma non è considerato una misura di protezione completa contro detti contatti”.

 

Veniamo ad alcuni metodi per la protezione contro i contatti indiretti (“il contatto indiretto si verifica quando una parte del corpo umano viene a contatto con una massa o con altra parte conduttrice connessa con la massa, normalmente non in tensione, ma che si trova accidentalmente in tensione in seguito a un guasto o un difetto dell’isolamento”).

Possiamo avere:

– protezione con interruzione automatica dell’alimentazione: “si considera il caso più frequente di sistema TT (fornitura in bassa tensione)”. In questo caso la “protezione è costituita da collegamento a terra delle masse e interruttore differenziale”. E deve essere rispettata la seguente condizione: Re (resistenza di terra del dispersore in ohm) x Idn (corrente nominale differenziale, la più alta tra gli interruttori presenti in cantiere) ≤ UL (valore massimo della tensione di contatto che è possibile mantenere per un tempo indefinito in condizioni ambientali specificate);

– protezione senza interruzione del guasto, con riferimento a diverse possibilità:

  1. a) “si utilizzano quadri elettrici e apparecchi di Classe II, ovvero costruiti con ‘isolamento doppio o rinforzato’, contrassegnati dal simbolo (doppio quadrato)”. Questi apparecchi “non devono essere collegati al conduttore di protezione”. Nel documento sono riportate alcune utili definizioni con riferimento alla norma CEI 20-40;
  2. b) “sistema di protezione per separazione elettrica (per esempio un piccolo gruppo elettrogeno o un trasformatore di isolamento)”;
  3. c) “si utilizzano sistemi di protezione SELV (Safety Electric Low Voltage) ovvero sistemi di protezione con alimentazione di sicurezza a basso voltaggio (25 o 50 V, valore efficace in corrente alternata, fornita da speciali trasformatori, detti ‘trasformatori di sicurezza’)”. I trasformatori di sicurezza per cantieri devono essere contrassegnati da specifico simbolo (CEI EN 61558-2-23). E questi sistemi peraltro “garantiscono anche la protezione contro i contatti diretti, d’altra parte non consentono l’uso di apparecchi con elevata potenza”.

 

Il documento si sofferma poi sui metodi di protezione contro il sovraccarico.

 

Si ricorda che una corrente di sovraccarico è una “corrente che si manifesta in un circuito integro quando si supera il valore nominale dell’apparecchio alimentato (per esempio un motore o una presa a spina); per le condutture, quando si supera il valore di portata della conduttura. In caso di sovraccarico gli apparecchi o le condutture possono surriscaldarsi progressivamente fino a danneggiarsi. Il danneggiamento dell’isolante delle condutture comporta spesso il successivo evento del corto-circuito; fino a quel momento però le sovracorrenti sono di intensità modesta e possono essere riconosciute dai sensori ‘termici’ degli interruttori magnetotermici, che sono sensibili al calore in eccesso e aprono il circuito prima che si possano manifestare dei danni. Tipicamente la parte ‘termica’ di un interruttore magnetotermico svolge questo compito in maniera adeguata; per la protezione dei motori invece è necessario utilizzare ‘relè termici’ (detti anche ‘salvamotori’) che si possono regolare in modo preciso in relazione alle caratteristiche del motore stesso”.

 

In particolare nei cantieri edili è necessario proteggere dal sovraccarico:

– condutture elettriche; “la protezione contro il sovraccarico interrompe il flusso di corrente pericolosa e quindi può essere ottenuta installando l’interruttore magnetotermico o all’inizio o alla fine di una conduttura. In particolare, la corrente nominale dell’interruttore (In) deve essere non superiore alla portata del cavo (Iz), ovvero In ≤ Iz;

– prese a spina; è necessario che esista una protezione dal sovraccarico avente valore nominale uguale o inferiore a quello della presa;

– interruttori differenziali ‘puri’ (quelli non abbinati a un interruttore magnetotermico)”.

 

Concludiamo con alcune indicazioni relative ai metodi di protezione contro il corto- circuito.

 

Si indica che una corrente di corto circuito si verifica “a seguito di un guasto che danneggia l’isolamento di un circuito tra due fasi, tra tre fasi o tra neutro e fasi. Al contrario del sovraccarico che presenta sovracorrenti modeste e progressive il corto circuito produce correnti molto elevate in tempi brevissimi; per interrompere tali correnti si utilizzano interruttori automatici in grado di rilevare il cortocircuito grazie ai sensori ‘magnetici’”.

E in particolare i punti critici per la protezione contro i corto circuiti sono:

– “all’inizio della conduttura, dove le correnti di guasto possono essere molto alte; per questo motivo il potere di interruzione (o di cortocircuito) dell’interruttore deve essere uguale o superiore alla corrente di guasto prevista nel punto di installazione;

– alla fine della conduttura dove le correnti si abbassano fino a non consentirne il rilevamento da parte del sensore ‘magnetico’; verificare questa condizione necessita di calcoli complessi o di specifiche misurazioni, ma se la conduttura è protetta contro il sovraccarico nel punto di partenza della stessa questo problema non si pone”.

 

Concludiamo l’articolo segnalando che il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta anche esempi di alimentazione degli impianti elettrici di cantiere, indicazioni sulle tipologie dei cavi e delle condizioni di posa e informazioni sui quadri elettrici con anche immagini e numerose tabelle esplicative.

 

 

Il sito “ Impresa Sicura”: l’accesso via internet è gratuito e avviene tramite una registrazione al sito.

 

Commissione Consultiva Permanente per la salute e sicurezza sul lavoro – Buone Prassi -Documento approvato nella seduta del 27 novembre 2013 – Impresa Sicura

 

 

 

RTM

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Note sui contenuti utili per rendere un modello esimente

Alcuni aspetti che spesso non vengono risolti nei modelli 231 e che potrebbero rendere non esimenti una o più parti del modello. A cura di A. Mazzeranghi.
Una doverosa premessa

Chi vuole andare al concreto può anche saltare questo paragrafo.

 

A commento di un mio precedente articolo su queste stesse pagine, ove delinea un quadro molto negativo in relazione alla capacità esimente dei così detti MOG 231 adottato dalle aziende, in relazione agli aspetti definiti nell’articolo 25 septies del D.lgs. 231/2001, un lettore, dopo un primo commento molto secco, successivamente scrive:

Perfetto. Siamo d’accordo. Questo è un articolo tecnico, scritto credo per tecnici del settore. Fotografa negativamente situazioni a lui note, lamentando carenze.

Non leggo proposte, soluzioni, cambi di passo o mentalità, nulla di nuovo a dieci anni (parole sue) dal testo unico.

Non leggo esempi in cui il modello funziona.

Credo che chiunque possa andare in una azienda ipotizzare un infortunio improbabile, e dimostrare che il modello in quella parte non copra… POI ???? Sicurezza è dare soluzioni, non lamentele ed accuse.

 

Io nell’articolo, partendo dalla considerazione della pochezza esimente di troppi modelli, accusavo “con atteggiamento livoroso” i soggetti che hanno guidato le aziende nella implementazione dei modelli tramite linee guida, seminari ecc. che hanno fatto passare una linea talmente minimalista da trasformare i MOG in materia di salute e sicurezza come una semplice collezione di pezzi di carta pieni di principi generici. Evidentemente questi soggetti, primariamente varie associazioni di categoria imprenditoriali, hanno ritenuto appropriato minimizzare il senso ben concreto dell’articolo 30 del D.lgs. 81/2008.

 

Orbene, ognuno fa la sua politica a vantaggio dei propri iscritti come suo dovere, ancor prima che diritto, ma qui sono assai poco sicuro che il vantaggio ci sia.

 

Ma voglio rispondere alla considerazione del lettore che dice che nell’articolo non faccio alcuna proposta, che sono solo distruttivo. Ha ragione! e credo che sia la prima volta che faccio una cosa del genere, che giustifico in ragione del livore e della tristezza che mi invadono quando guardo la realtà oggettiva che caratterizza i MOG delle aziende. Proverò qui di seguito a fornire qualche spunto.

 

Elementi che certamente sono utili nel modello

Vorrei prima di tutto chiarire che quello che segue è una opinione personale, discutibile quanto si vuole! Non è presa da linee guida, norme o altri documenti ufficiali. È solo frutto dell’esperienza mia e dei miei colleghi, che dal settembre 2007 ci occupiamo con passione della implementazione di MOG, sperabilmente esimenti, in relazione alle previsioni dell’articolo 25 septies del D.lgs. 231/2001, per i quali MOG a partire da metà 2008 abbiamo utilizzato come “guida minima” ma utilissima l’articolo 30 del D.lgs. 81/2008.

 

È quindi il citato articolo 30 che ci dice esplicitamente alcuni requisiti che il modello deve avere per potere conseguire l’effetto esimente. Il modello deve essere:

  • Adottato
  • Idoneo
  • Efficacemente attuato

E per essere idoneo ed efficacemente attuato il modello deve contenere delle regole, precisamente rispettate da tutti i soggetti interessati, per garantire tutta una serie di cose che l’articolo 30 indica, fra cui:

  • Conformità legale
  • Valutazione dei rischi
  • Procedure di emergenza
  • Vigilanza

Non voglio spiegare per l’ennesima volta i contenuti dell’articolo 30 ma indicare piuttosto aspetti che spesso trovo non risolti nei modelli, e che potrebbero rendere non esimenti una o più parti del modello.

 

LA GERARCHIA

Qui parliamo del comma 3 dell’articolo 30, quello attinente alla articolazione di funzioni. Non mi stancherò di ripetere che il legislatore italiano, e per conseguenza la magistratura e i giudici, leggono le organizzazioni in modo gerarchico. È un dato di fatto, difficilmente i principi di responsabilità personale si applicano alle organizzazioni matriciali.

Quindi un primo gruppo di domande da porre per verificare l’idoneità del modello potrebbe essere:

  • Esiste un organigramma, anche specificamente “corretto” per gli aspetti di sicurezza che dice chi comanda e su chi comanda, per garantire la sicurezza dei comandati?
  • In tale organigramma non accade mai che in medesimo individuo abbia due capi direttamente sopra di lui, nello stesso preciso momento?
  • L’organigramma è noto a tutti gli interessati, e in particolare ognuno sa indicare senza esitazioni che è il suo superiore diretto in materia di sicurezza e salute?
  • Ogni lavoratore ha sopra di sé un preposto (o, alla peggio, un dirigente, comunque un capo che deve vigilare sul suo operato)?
  • Chi deve vigilare ha la concreta possibilità di farlo, almeno sulle persone direttamente sottoposte?

 

LE RESPONSABILITÀ

Ancora per effetto della necessità della articolazione di funzioni di cui al citato comma, possiamo fare alcune domande, quelle che seguono:

  • Ad ogni figura che svolge una funzione di garanzia rispetto alla salute e alla sicurezza di uno o più colleghi, p altri lavoratori interessati, sono state chiarite le proprie responsabilità, e tali responsabilità sono state esplicitamente accettate?
  • L’insieme delle responsabilità assegnate, garantisce che per ogni azione necessaria per rispettare un requisito di legge applicabile (e non indelegabile) sia stato definito un responsabile (o più responsabili ad ognuno dei quali si assegna una parte diversa dei compiti da svolgere)?
  • La matrice delle responsabilità (appena sottintesa) non presenta sovrapposizioni (non risolte) o altre situazioni che potrebbero portare ad equivoci?

 

I PROCESSI E LE PROCEDURE

Una banalità: il funzionamento di qualunque azienda avviene tramite una serie di processi, più o meno formalizzati e ordinati, che altro non sono che sequenze di attività fra loro concatenate per raggiungere un certo obiettivo. Il primo comma dell’articolo 30, talvolta implicitamente, talvolta esplicitamente (alla lettera c) ci dice che:

  • Esistono processi aziendali che, al loro interno, includono importanti aspetti di sicurezza
  • Ce ne sono altri che sono solo ed esclusivamente destinati a gestire correttamente gli aspetti di sicurezza

Poi cerca di fare una sorta di elenco, che riprenderemo dopo. Ma prima di tutto ricordiamo che l’azienda, tramite il modello, deve garantire che tali processi siano “svolti” come l’azienda stessa ha deciso, naturalmente al fine di raggiungere i risultati desiderati. Le domande che seguono valgono per tutti i processi aziendali, a qualunque risultato vogliano portare:

  • I processi aziendali sono in qualche modo catalogati, partendo dal reale funzionamento della azienda?
  • I processi aziendali sono stati definiti nel loro svolgersi, tramite precise regole che, se applicate, consentono di raggiungere i risultati desiderati, e permettono di identificare e correggere eventuali scostamenti?
  • Le regole sono esplicitati in documenti scritti, procedure secondo la terminologia più utilizzata, e tali documenti sono portati a conoscenza di tutte le parti interessate?
  • Nelle procedure sono chiaramente identificati i responsabili delle singole azioni?
  • C’è congruenza fra le responsabilità, di ordine più generale, assegnate tramite la matrice delle responsabilità e quelle previste nelle procedure?
  • Le parti interessate destinatarie delle procedure hanno le capacità, le competenze, le risorse e l’autorità per eseguire senza problemi la parte assegnata delle procedure?
  • ….

 

Su questo tema potrei andare avanti per pagine, vista la sede di questa pubblicazione mi fermo per lasciare dello spazio ad alcuni altri tipi di considerazioni. M voglio concentrare dunque su alcune domande fortemente mirate alle procedure in materia di prevenzione e protezione della salute e della sicurezza dei lavoratori e delle altre persone interessate. Anche qui esprimo i concetti tramite alcuni gruppi di domande:

  • Esiste un elenco dei processi che impattano sulla salute e sulla sicurezza dei lavoratori e delle altre persone presenti? Tale elenco è completo?
  • Esiste una procedura che specifica chi e come tiene sotto controllo (e anche aggiorna) i requisiti legali applicabili in materia di salute e sicurezza, e che indica chi, come e registrando cosa verifica sul campo la precisa applicazione dei requisiti ritenuti pertinenti al contesto? È definito un modo di procedere nel caso che dai controlli emergano non conformità rispetto alla legislazione applicabile?
  • Esiste qualche forma di mappatura delle tipologie di pericolo concretamente presenti o possibili in azienda? Esiste una procedura che attribuisce i compiti pratici di redazione del documento dove si identificano, stimano e valutano i rischi? Esiste una regola scritta da applicare al momento di sottoporre il DVR al datore di lavoro perché lo faccia suo? Esiste un piano di misure di miglioramento approvato dal datore di lavoro, e l’azienda ha messo a disposizione risorse adeguate per portare avanti tale piano nei tempi previsti? È chiaro che si prende concretamente carico di monitorare e stimolare l’avanzamento del piano, e sono chiari i responsabili della attuazione delle singole misure previste dal piano?
  • Esiste una procedura che regola la manutenzione? Come vengono gestite le priorità ove si debba decidere fra un intervento di sicurezza e uno, diverso, volto a riprendere la produzione? E qui mi fermo …
  • Esiste un piano di verifiche periodiche e manutenzioni programmate? Come è stato costruito: si sono privilegiate le verifiche e le manutenzioni volte a prevenire guasti, malfunzionamenti p deterioramenti che potrebbero condurre a incidenti con danni alle persone? E anche qui mi fermo …
  • Esiste una procedura che gestisca i cambiamenti organizzativi o tecnici rilevanti, curando anche gli aspetti di salute e sicurezza, se possibile preventivamente e non solo dopo che il cambiamento è già operativo? Ancora una volta mi fermo su questo argomento che è assolutamente vastissimo …
  • Esiste una procedura di primo soccorso per infortuni e malori? Sono chiare le modalità di richiesta di intervento dei soccorsi esterni (chi può chiamare, dove si deve trovare fisicamente, quali mezzi ha a disposizione per contattare la rete telefonica esterna …)? Esiste una modalità di gestione dei turni che garantisca la presenza in azienda di almeno uno (o più) addetto al primo soccorso ogni qualvolta vi è presenza di persone in azienda?

 

I gruppi di domande sarebbero molteplici, dalle procedure per la gestione della vigilanza, a quelle che invece riguardano la gestione della sorveglianza sanitaria. Ricordate che l’elenco al comma 1 lettera c) è dichiaratamente non esaustivo.

 

Una piccola conclusione che è anche una domanda a tutti noi

Spero di aver chiarito la complessità di un MOG che davvero si propone di creare delle regole efficaci, o meglio idonee, a controllare al meglio i rischi residui, evitando alle persone coinvolte di commettere autonomamente errori per i quali la legge potrebbe anche ritenerle responsabili. Chiaramente non basta il sistema, serve la efficace attuazione che ci ricorda l’articolo 30, così come servono altri elementi di alto livello che qui non voglio richiamare.

 

E poi la domanda: chi se la sentirebbe di affrontare un processo senza sistema di procedure, senza attribuzione di responsabilità concretamente operative ecc., dopo un infortunio avvenuto, poniamo, perché un operatore è rimasto danneggiato da un organo in moto di una macchina? I fatti rispetto ai quali una azienda si deve difendere sotto il profili del 25 septies sono fatti semplici che si verificano nella operatività spicciola: davvero penso che a tutelarmi bastino un codice etico, dei protocolli generici validi per ogni azienda, un codice disciplinare e un organismo di vigilanza???

Prometto presto di affrontare il tema: “ma l’ODV vigila?”, naturalmente sempre con riferimento al 25 septies.

 

 

Alessandro Mazzeranghi

 

 

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Fonte: puntosicuro.it