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Protezione dati: entro il 25 maggio 2018 servono 75.000 responsabili

Una valutazione condotta poco meno di un anno fa parlava della necessità di 25.000 nuovi responsabili della protezione dei dati personali. La cifra è stata revisionata: servono 75.000 responsabili entro il 25 maggio 2018. Di Adalberto Biasiotti.
 

Tempo addietro, quando è entrato in vigore il nuovo regolamento europeo sulla protezione e libera circolazione dei dati, abbiamo indicato, sulla base di uno studio preliminare, in 25.000 i responsabili della protezione dei dati, di cui i titolari del trattamento, in tutta Europa, avranno bisogno alla data di entrata in vigore del regolamento. Questa cifra è stata adesso profondamente revisionata.

 

Confesso che anch’io sono rimasto sorpreso davanti a questo numero, che modifica in modo drammatico la valutazione condotta poco meno di un anno fa.

In realtà, un attento studio dei titolari del trattamento che hanno bisogno di questa figura professionale, e faccio quindi riferimento a tutte le autorità pubbliche d’Europa, e a tutti i titolari di trattamento che trattano dati personali su larga scala o che trattano su larga scala particolari categorie di dati, dimostra che questo numero è più realistico di quanto non si possa pensare.

 

La ampiezza delle competenze del responsabile della protezione dei dati fa sì che esso sia profondamente coinvolto nell’attività quotidiana di trattamento e quindi possa essere difficile, per un singolo responsabile della protezione dei dati, collaborare fruttuosamente con molti e diversi titolari, che sviluppano trattamenti ben diversi fra di loro.

 

È probabile quindi che sorgano delle organizzazioni specializzate, che potranno offrire questi servigi a una moltitudine di clienti, tenendo tuttavia presente che molte attività possono richiedere un impegno temporale significativo, come ad esempio la partecipazione a gruppi di lavoro interni all’azienda, titolare del trattamento, lo sviluppo di documentazione di formazione interna, l’effettuazione di audit periodici delle attività di trattamento ed altre attività assimilate.

 

Se poi si verifica una violazione dei dati, con ogni probabilità il responsabile del trattamento sarà impegnato a tempo pieno per giorni e forse settimane!

Il fatto che un responsabile del trattamento dei dati personali possa anche svolgere altre funzioni, all’interno dell’azienda, non è proibito in assoluto, ma l’articolo 38 del regolamento ed anche la interpretazione data dall’articolo 29 Working Party impone che queste altre attività non portino ad alcun conflitto di interesse con le attività primarie del responsabile della protezione.

Questo fatto può quindi creare problemi non indifferenti, perché molto spesso il responsabile della protezione dei dati è stato già coinvolto nello sviluppo di valutazioni di impatto ed altre attività di valutazione di sicurezza del trattamento, che poi egli stesso dovrebbe controllare.

 

Ecco perché, ad esempio degli Stati Uniti, le aziende che utilizzano un servizio esterno di assistenza per analizzare le modalità di trattamento dei dati si rivolgono poi a servizi esterni diversi, per effettuare un audit ed altri controlli.

 

L’utilizzo di soggetti terzi pone poi un ulteriore problema, legato alle modalità di copertura dei costi di questi soggetti terzi.

Le due tipologie più frequentemente usate, soprattutto negli Stati Uniti, sono basate su una tariffa oraria, ad esempio dell’ordine di 200 dollari all’ora od anche di più, oppure una tariffa fissa mensile, che però può essere molto difficile da determinare all’atto della stipula del contratto.

Occorre inoltre fare molta attenzione al fatto che questi servizi esterni devono essere in condizioni di garantire un’assoluta assenza di conflitti di interessi, magari discendenti dal fatto che in precedenza questi stessi servizi avevano già offerto assistenza al titolare del trattamento.

 

La faccenda diventa ancora più complicata se il titolare del trattamento svolge la sua attività anche in altri paesi, magari operanti su fusi orari ben diversi.

 

In una recente esperienza, si è potuto accertare che un titolare del trattamento europeo, che svolgeva la sua attività di trattamento anche in Singapore, aveva incontrato grosse difficoltà nel gestire correttamente, con un solo responsabile della protezione, basato in Europa, le attività di trattamento svolte in Europa ed a Singapore.

 

Infine, dobbiamo ancora oggi registrare il fatto che la sensibilità dei titolari, nei confronti di quest’esigenza, lascia molto a desiderare e ci si deve quindi aspettare una situazione di crisi, che con ogni probabilità si verificherà nei primi mesi del 2018, quando ci si renderà conto che il 25 maggio 2018 è molto più vicino di quanto non si creda.

 

 

Adalberto Biasiotti

 

 

Regolamento (Ue) 2016/679 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46/CE (regolamento generale sulla protezione dei dati)

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

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I modelli di calcolo per la stima dell’esposizione ad agenti chimici

Un intervento si sofferma sulla valutazione del rischio da agenti pericolosi per la salute e i modelli emergenti in ambito europeo. Focus sul modello Ecetoc Tra WorkerTool e sul modello Stoffenmanager.
 

Bologna, 19 Apr – Per conoscere i rischi correlati all’uso di sostanze chimiche sono importanti i modelli di calcolo per la stima dell’esposizione, sia nell’ambito del Regolamento REACH ( regolamento n. 1907/2006), ad esempio per la predisposizione degli scenari di esposizione, sia come supporto nella valutazione del rischio chimico secondo quanto richiesto dal D.Lgs. 81/2008.

 

E in ambito REACH “particolare enfasi viene data all’utilizzo di algoritmi matematici che permettono di avere una stima del livello di esposizione ad agenti chimici nei vari scenari espositivi”. E tra questi algoritmi ve ne sono “sia alcuni che ricadono nei modelli di 1° Livello (TIER 1), come l’ECETOC-TRA, altri di livello superiore come, ad esempio, Stoffenmanager, che è intermedio tra TIER 1 e TIER 2, e l’Advanced Reach Tool (ART) che è di tipo TIER 2”.

 

A parlare di questi modelli e a permetterci di conoscerli più nel dettaglio è un intervento al convegno “Reach_2015. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” che si è tenuto il 16 ottobre 2015 durante la manifestazione Ambiente Lavoro a Bologna e che è stato organizzato da Regione Emilia-Romagna, Inail e Ausl di Modena.

Per tornare a presentare questo intervento, su cui ci siamo soffermati nelle scorse settimane, facciamo riferimento alla pubblicazione “REACH. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” che ne raccoglie gli atti.

 

In “REACH, CLP e scenari di esposizione: la valutazione del rischio da agenti pericolosi per la salute e i modelli emergenti in ambito europeo” – intervento a cura di Elisabetta Barbassa (Contarp Inail Direzione Regionale Lombardia), Alessandro Carella e Giorgio Papa (Contarp Inail Direzione Regionale Marche), Maria Rosaria Fizzano e Piero La Pegna (Contarp Inail Direzione Generale) – sono presentati alcuni modelli e anche utili esempi della loro applicazione in ambito professionale.

 

Partiamo dal modello ECETOC TRA.

 

Si indica che la versione 3.1 del modello ECETOC TRA è “disponibile sia come modello integrato, che calcola l’esposizione dei lavoratori, dei consumatori e dell’ambiente, che come versione a sé stante aggiornata per la stima dell’esposizione dei consumatori”.

Tuttavia in questo lavoro è descritta solo la parte della struttura del modello ECETOC TRA che consente di stimare l’esposizione dei lavoratori ad agenti chimici (WorkerTool).

 

ECETOC TRA WorkerTool è un “modello di 1° livello che consente di stimare l’esposizione occupazionale sia inalatoria che cutanea. Per descrivere l’esposizione per inalazione sul luogo di lavoro, il modello considera i seguenti tre tipi di determinanti:

– la fugacità della sostanza, ovvero la sua tendenza a diventare volatile che, per i liquidi, a espressa dalla loro tensione di vapore e, per i solidi, dalla loro polverosità;

– le modalità di utilizzo della sostanza, che nel modello sono descritte dalle categorie di processo (PROC);

– gli strumenti di controllo dell’esposizione, come la possibilità di diversi gradi di ventilazione generale, la presenza di un impianto di aspirazione localizzato (LEV – Local Exhaust Ventilation) o l’uso di DPI”.

 

Inoltre il modello ECETOC TRA Worker Tool distingue “tra attività industriali ed attività professionale e fa riferimento al sistema dei descrittori degli usi previsto dal CSA del REACH, in particolare alle 25 categorie di processo (PROC), che descrivono gli scenari d’esposizione lavorativi identificati”. E allo scopo di modulare la stima dell’esposizione, “ECETOC TRA Worker Tool consente l’applicazione dei seguenti 5 fattori modificatori d’esposizione” descritti nel dettaglio negli atti:

 

 

– ventilazione;

– durata dell’attività;

– protezione respiratoria;

– protezione cutanea;

– uso in miscele.

 

Il modello, nella versione 3.1, consente anche la “stima dell’esposizione cutanea alla sostanza, distingue tra attività di tipo industriale e professionale, con la capacità di tener conto dei fattori di modificazione dell’esposizione, incluso l’ uso dei guanti”.

 

Rimandando alla lettura integrale dell’intervento, che riporta ulteriori dettagli, ricordiamo che ECETOC TRA Worker Tool “non si applica per la stima dell’esposizione a gas, nebbie di aerosol, fumi, solidi sospesi o disciolti in liquidi e per valutare l’esposizione alla frazione respirabile aerodispersa delle polveri inquinanti negli ambienti di lavoro. Può essere, invece, applicabile alla valutazione della frazione inalabile (UNI EN 481:1994). Allo stesso modo il modello non è in grado di predire l’esposizione a materiale fibroso aerodisperso”. Inoltre ECETOC TRA Worker Tool “richiede pochi dati di input ed è in genere conservativo; questo modello non tiene tuttavia conto della quantità di sostanza usata, né della frequenza d’uso e le categorie di processo (PROC) non riescono a coprire tutte le possibili situazioni espositive”.

 

Veniamo ora brevemente al modello Stoffenmanager.

 

Si indica che il modello Stoffenmanager, “sviluppato nei Paesi Bassi con l’intento di facilitare il controllo del rischio chimico e l’individuazione delle priorità tra gli interventi di prevenzione e protezione alle piccole e medie imprese”, è giudicato intermedio tra i livelli 1 e 2, è web-based ed è disponibile in una versione base, gratuita, e in una versione a pagamento, con maggiori funzionalità.

 

In particolare può essere utilizzato per due scopi:

  1. individuare le priorità relative ai rischi per la salute derivanti da sostanze pericolose – modulo “Control banding”;
  2. stimare l’esposizione inalatoria a vapori e polveri inalabili – modulo “Quantitative exposure”.

 

Si segnala che Stoffenmanager può “essere utilizzato per valutare l’esposizione inalatoria quantitativa a polveri inalabili, vapori e aerosol di liquidi anche a bassa volatilità; è tuttavia sconsigliato per la stima quantitativa nel caso di esposizione a fibre, gas o sostanze rilasciate nell’ambiente come risultato di tecniche di lavorazione a caldo, ad esempio la saldatura e brasatura”.

I dati di base da inserire sono: “stato fisico del prodotto; composizione del prodotto (n. CAS e concentrazione); modalità di utilizzo, durata e frequenza dell’uso; misure per il controllo del locale, distanza del lavoratore dalla sorgente, presenza di altre sorgenti della stessa sostanza (altri soggetti che eseguono lo stesso compito e/o altri manufatti trattati con lo stesso prodotto); volume del locale; presenza di impianti di ventilazione; misure di gestione del rischio (caratteristiche ventilazione, modalità di captazione); uso di DPI”.

 

Si ricorda, tra le altre cose, che per lavorare con il modello Stoffenmanager “occorrono i dati contenuti nella scheda di sicurezza (SDS): la parte di stima del rischio finalizzata a definire la scala delle priorità degli interventi non è disponibile nei casi in cui per la sostanza o la miscela non sono disponibili frasi H (es. farmaci): in questi casi va effettuato un processo di attribuzione di una frase H”.

 

Concludiamo rimandando ad un prossimo articolo una breve presentazione del modello ART (Advanced Reach Tool), un accenno ad alcuni esempi applicativi e, specialmente, le conclusioni e indicazioni degli autori sull’applicazione dei modelli di calcolo.

 

 

 

Regione Emilia Romagna, Inail, Ausl Modena, ECHA, “ REACH. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro”, pubblicazione che raccoglie gli atti, a cura di C. Govoni, G. Gargaro e R. Ricci, dei due convegni “REACH_2015. L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP nei luoghi di lavoro” e “REACH Sanità. L’applicazione dei Regolamenti Europei delle Sostanze Chimiche in ambito sanitario” (formato PDF, 78.44 MB)

 

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ L’applicazione dei Regolamenti REACH e CLP”.

 

 

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Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

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Delega di funzioni e obbligo di vigilanza nelle società di capitali

Un intervento si sofferma sulla delega di funzioni nelle società di capitali. Il principio di effettività, la delega di gestione, l’individuazione della posizione datoriale, l’obbligo di vigilanza e l’attuazione del modello organizzativo.
 

Urbino, 19 Apr – La delega di funzioni, un istituto di “matrice giurisprudenziale” ma normato dall’art. 16 del D.Lgs. 81/2008 (Testo unico sulla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro), consente di “soddisfare una precisa esigenza pratica, ossia favorire una migliore e più funzionale articolazione della congerie di adempimenti facenti capo al datore di lavoro, segnatamente in campo antinfortunistico, ma non solo” (ad esempio la delega di funzioni trova oggi larga applicazione “anche in altri settori, quali, a titolo esemplificativo, quello della sicurezza alimentare e dell’ambiente”). È attraverso tale strumento che “il destinatario formale degli obblighi, la cui violazione è sanzionata anche penalmente, può coinvolgere nell’assolvimento delle proprie funzioni altri soggetti, appositamente incaricati di coadiuvarlo”.

 

 

Ad affrontare e presentare con queste parole il delicato tema della delega di funzioni, con particolare riferimento alle società di capitali, è un intervento che si è tenuto al convegno di studi su «La sicurezza sul lavoro nella galassia delle società di capitali» (Università di Urbino, 14 novembre 2014). Un contributo raccolto, insieme agli altri atti del convegno, nel Working Paper, pubblicato da Olympus nel mese di dicembre 2015, dal titolo “ La sicurezza sul lavoro nella galassia delle società di capitali – Atti del Convegno di Studi – Urbino – 14 novembre 2014” e a cura di Piera Campanella e Paolo Pascucci (professori ordinari di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo).

 

L’intervento, “Debito di sicurezza e delega di funzioni nelle società di capitali”, a cura di Caterina Paonessa (Dottore di ricerca in discipline penalistiche nell’Università di Firenze e avvocato in Firenze), si sofferma su molti aspetti della delega di funzioni.

Ad esempio sul principio di effettività che permea l’attuale disciplina giuslavoristica, “come marcatamente esplicitato anche dalla giurisprudenza più recente, specie con riferimento alle imprese di grandi dimensioni”. Infatti in tali contesti, con riferimento anche alla sentenza della Cass. pen. sez. IV, 29 gennaio 2014, n. 4084, “occorre un puntuale accertamento, in concreto, della gerarchia delle responsabilità all’interno dell’apparato strutturale”. Non è infatti possibile “attribuire tout court all’organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre esaminare l’apparato organizzativo che si è costituito, sì da poter risalire, all’interno di questo, al responsabile di settore”.

 

L’intervento ricorda poi che l’individuazione della posizione datoriale quale premessa dell’operatività della delega di funzioni “presenta uno specifico coefficiente di problematicità con riferimento alle imprese gestite da società di capitali, atteso che non sempre dagli statuti sono desumibili chiare indicazioni sul soggetto gravato degli obblighi prevenzionistici”.

E questo spiegherebbe le “oscillazioni della giurisprudenza, che, invero, identifica la figura datoriale ora con il legale rappresentante dell’ente, ora con il presidente del consiglio di amministrazione, ora ‘con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all’interno dell’azienda, e quindi con i vertici dell’azienda stessa’” (con riferimento a Cass. pen., sez. III, 1° aprile 2005, n. 12370). E – continua l’intervento – il “principio di diritto da ultimo richiamato è stato oggetto di ulteriore specificazione in ambito giurisprudenziale; si riscontra, infatti, soprattutto nelle più recenti pronunce di legittimità, la precisazione secondo cui, comunque, in questi casi, gli obblighi posti dalla legge a carico del datore di lavoro ‘gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione’” (con riferimento a varie sentenze, ad esempio Cass. pen., sez. IV, 31 gennaio 2014, n. 4968 e 29 gennaio 2014, n. 4084) traendone la “conclusione della ‘possibilità della coesistenza, all’interno della medesima impresa, di più figure aventi tutte la qualifica di datore di lavoro, cui incombe l’onere di valutare i rischi per la sicurezza, di individuare le necessarie misure di prevenzione e di controllare l’esatto adempimento degli obblighi di sicurezza’” (con riferimento a Cass. pen., sez. IV, 9 dicembre 2013, n. 49402).

 

L’intervento, che vi invitiamo a leggere integralmente, approfondisce il tema dell’individuazione del garante e si sofferma poi su molti altri aspetti correlati alla delega di funzioni. Ad esempio sulla distinzione tra delega di funzioni ex art. 16 del D.Lgs. 81/2008 e delega di gestione ex art. 2381, comma 2, c.c. (“aspetto non è sempre adeguatamente colto dalla giurisprudenza”), sulla distinzione tra sistematicità e occasionalità del mancato rispetto della normativa di sicurezza e sull’obbligo di vigilanza incombente sul datore di lavoro.

 

Riguardo a quest’ultimo aspetto si ricorda che è proprio l’articolo 16, comma 3 del D.Lgs. 81/2008 a porre, “quale limite generale della delega di funzioni, l’obbligo di vigilanza specificamente incombente sul datore di lavoro ‘in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni trasferite’. Si tratta, come la stessa giurisprudenza ha chiarito, di un obbligo di ‘vigilanza alta’, che riguarda il corretto svolgimento delle funzioni delegate, e che, come tale, deve essere distinta dalla vigilanza gravante sullo stesso delegato, cui vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo”. In altre parole – continua il relatore “la verifica richiesta al delegante riguarda la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato, senza che ciò implichi il controllo, momento per momento, della concreta e minuta modalità di svolgimento e conformazione delle lavorazioni”.

 

E se non si può, invero, ‘esigere dal delegante, a capo di un’impresa complessa e mastodontica, di controllare un aspetto minimo’ (Cass. pen., sez. IV, 2 marzo 2011, n. 8277) “per quanto esso sia pure importante, all’interno dell’azienda”, in ogni caso la delega di funzioni, benché formalmente corretta ed efficace, “non può legittimare un sostanziale disinteresse del datore di lavoro, tenuto, a seconda dei casi, a provvedere in via sostitutiva al mancato o inidoneo esercizio della delega” (con riferimento a Cass. pen., sez. IV, 25 marzo 2011, n. 12027).

E se l’obbligo “consegue dalla specifica conoscenza di fatti pregiudizievoli per la tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori in azienda”, tale rilievo “assume una sua specificità con riferimento alle imprese gestite da società di capitali”, posto che è soprattutto “riguardo a tali contesti che si tende a ravvisare, nonostante la delega di funzioni (con specifiche attribuzioni in materia antinfortunistica) ad uno o più amministratori, la responsabilità dell’intero organo gestorio, muovendo dalla constatazione che non possano costituire oggetto di  trasferimento ‘i doveri di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo nel caso di mancato esercizio della delega’” (con riferimento a varie sentenze, ad esempio Cass. pen., sez. IV, 31 gennaio 2014, n. 4968).

 

L’intervento si sofferma, in conclusione, sull’inciso finale dell’art. 16, comma 3, D.Lgs. 81/2008, “là dove si precisa che l’obbligo di vigilanza in capo al datore di lavoro debba intendersi ‘assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui all’art. 30, comma 4’, ossia del modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs. n. 231/2001”.

 

E rispetto alla portata dell’art. 16, comma 3, D.Lgs. 81/2008 si ricorda che era stata aperta in sede europea una procedura di infrazione (n. 2010/4227). Ad avviso della Commissione, infatti, la disciplina interna avrebbe avvallato “un meccanismo presuntivo di esenzione della responsabilità datoriale, in violazione dell’art. 5 della direttiva 89/391/CE”. Una procedura di infrazione archiviata il 26 marzo 2015.

 

 

Olympus – Osservatorio per il monitoraggio permanente della legislazione e giurisprudenza sulla sicurezza del lavoro, “ La sicurezza sul lavoro nella galassia delle società di capitali – Atti del Convegno di Studi – Urbino – 14 novembre 2014”, a cura di Piera Campanella e Paolo Pascucci – professori ordinari di Diritto del lavoro nell’Università di Urbino Carlo Bo – Working Paper di Olympus 44/2015 inserito nel sito di Olympus il 31 dicembre 2015 (formato PDF, 2.56 MB).

 

 

Tiziano Menduto

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

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Autoriparazione: la sicurezza nel sollevamento del veicolo

Un documento sulle procedure standardizzate per la valutazione dei rischi nel settore dell’autoriparazione riporta indicazioni su fattori di rischio e misure di prevenzione. Focus sulla fase di ispezione e diagnosi tramite sollevamento del veicolo.
 

Massa Carrara, 3 Apr – Sono tanti i fattori di rischio per gli operatori che lavorano nelle autofficine presenti sul nostro territorio. Fattori che possono dipendere non solo dalla mancanza di buone prassi e/o dallo stato delle attrezzature e impianti utilizzati, ma anche dall’esposizione ad agenti fisici (ad esempio rumore e vibrazioni), ad agenti chimici, alle azioni di sollevamento e trasporto manuale di carichi, al rischio elettrico e al rischio incendio.

 

Proprio per approfondire il tema dei fattori di rischio e delle azioni possibili di prevenzione nel comparto dell’autoriparazione, presentiamo oggi un documento pubblicato sul sito dell’Azienda Usl 11 di Empoli e curato dal Dipartimento della prevenzione dell’Azienda Usl 1 di Massa Carrara (ora Azienda USL Toscana nord ovest).

 

In “Procedure standardizzate per la valutazione dei rischi nel settore dell’autoriparazione” sono fornite diverse tipologie di informazione per la valutazione dei rischi tramite procedure standardizzate, ad esempio con alcune tabelle che, analogamente ad altri documenti sui rischi del settore già pubblicati dal nostro giornale, descrivono i “fattori di rischio e misure di prevenzione per le singole fasi di lavoro in una officina di autoriparazione”.

 

Nella pubblicazione è poi riportata un’analisi delle fasi di lavoro (descrizione della fase, attrezzature e macchine, fattori di rischio, danno atteso e rilevato, interventi prevenzionistici) con specifico riferimento alle seguenti fasi:

– recupero in esterno degli autoveicoli guasti;

– accettazione degli autoveicoli;

– ispezione e diagnosi del veicolo tramite apertura del cofano;

– ispezione e diagnosi del veicolo dalla buca di ispezione;

– ispezione e diagnosi tramite sollevamento del veicolo;

– collaudo del veicolo (revisione periodica di legge);

– analisi dei gas di scarico;

– interventi su motore e organi di trasmissione del moto;

– controllo e riparazione impianto frenante;

– interventi su sospensioni (ammortizzatori);

– sostituzione liquidi, filtri, candele;

– interventi su impianto elettrico, sostituzione e ricarica batterie;

– interventi sull’impianto di climatizzazione;

– interventi su carburatori, iniettori e pompe di alimentazione;

– interventi su airbag;

– lavaggio pezzi di motori e carburatori, decapaggio;

– aggiustaggio, saldatura, lavorazioni meccaniche alle macchine utensili;

– fornitura di aria compressa;

– collaudo e prova in esterno degli autoveicoli.

 

Ci soffermiamo oggi sull’analisi relativa alla fase di ispezione e diagnosi tramite sollevamento del veicolo.

 

Il documento indica che il sollevamento del veicolo è “una condizione indispensabile per certe lavorazioni, mentre per altre lavorazioni può essere un ausilio al fine di ridurre posture scomode di intervento”.

E sono descritte le attrezzature e macchine utilizzabili:

– ponte sollevatore: “un apparecchio posto stabilmente sul pavimento dell’autofficina. Ne esistono di diversi tipi e portate”. Il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta le diverse tipologie di ponti e piattaforme di sollevamento;

– sollevatore portatile: “si tratta di un piccolo sollevatore dotato di ruote per essere utilizzato dove è necessario. Il funzionamento è pneumatico e la discesa è protetta da un sistema meccanico dentato in modo da evitare che, in caso di rottura dell’impianto oleodinamico, l’abbassamento non possa avvenire per più di uno stop”;

– crick per il sollevamento manuale: “si tratta di un apparecchio manuale ad azionamento oleodinamico a leva. L’apparecchio è dotato di un pedale di abbassamento rapido”.

 

Questi i principali fattori di rischio:

– lavoro in posizione pericolosa: “il ponte o la piattaforma di sollevamento, a causa di un difetto al comando, in caso di rottura della tubazione o in seguito a manovre errate, può cadere e investire l’addetto. Il crick di sollevamento può cedere per rottura o per urto di un altro addetto che si trovi a passare nelle vicinanze e così l’addetto che si trova a lavorare sotto il veicolo può rimanere schiacciato;

– lavoro in posture forzate: l’addetto deve portare la testa indietro per guardare in alto, piegando quindi il collo. Inoltre deve tenere le braccia in alto per intervenire sul veicolo e, in tal caso, lo sforzo è maggiore quando vengono utilizzate attrezzature manuali pesanti”.

E si ricorda che in caso di schiacciamento sotto il veicolo “l’addetto può riportare lesioni traumatiche con interessamento degli organi interni e con conseguenze anche mortali”. Mentre il lavoro in posture forzate “può essere causa di disturbi muscolo-scheletrici”.

 

Veniamo infine agli interventi prevenzionistici.

 

Il documento si sofferma in particolare sul ponte sollevatore e indica che si può evitare la caduta dal ponte o dalla piattaforma in caso di difetto all’impianto idraulico (per esempio rottura della tubazione) “equipaggiando il cilindro di alzata con una valvola predisposta a tale scopo”. Inoltre gli errori di manovra “possono essere evitati se l’impianto idraulico sotto la piattaforma di sollevamento è concepito in modo da precludere la possibilità di un abbassamento manuale accidentale”.

Altre indicazioni:

– “i dati necessari per il funzionamento sicuro del ponte o della piattaforma di sollevamento e le indicati in modo chiaro e ben visibile per l’utente e collocati nei pressi degli organi di comando del mezzo di sollevamento e le indicazioni della portata nominale devono figurare sia sul ponte e la piattaforma che presso il quadro di comando;

– non è consentito superare la portata nominale indicata sull’impianto;

– l’utente è responsabile del corretto e sicuro esercizio del mezzo;

– prima di azionare il sollevamento occorre accertarsi che nessuno sia messo in condizioni di pericolo;

– il quadro di comando deve essere collocato in posizione che permetta una sicura manovra sull’impianto e che governi tutta la zona ove è ubicato;

– il quadro deve comprendere almeno un pulsante di comando della salita ed un pulsante di comando della discesa ed un pulsante di arresto di emergenza;

– i pulsanti di alzata e discesa devono essere opportunamente protetti contro ogni azionamento accidentale e quello di emergenza, non protetto, deve essere del tipo a fungo e di colore rosso;

– i ponti e le piattaforme sollevabili devono essere muniti di un dispositivo collocato sotto la parte inferiore della struttura mobile, atta ad arrestare la corsa di discesa del mezzo qualora parti del corpo del lavoratore interferiscano nella zona pericolosa interessata dalla struttura in movimento. Tali dispositivi possono essere costituiti da barriere immateriali (fotocellule) oppure da pannelli montati sotto tutti i lati e collegati ad un sistema di blocco, atti ad arrestare immediatamente la corsa qualora avvenga un contatto con un corpo estraneo (es.: piede del lavoratore);

– i ponti muniti di balconcini laterali e le piattaforme, per quanto possibile tecnicamente, devono essere dotati di parapetti protettivi verso i lati aperti, atti a trattenere la caduta da posizione sopraelevata. Detti parapetti devono avere altezza di almeno 1 metro ed essere costituiti da almeno due correnti oppure da elementi verticali opportunamente distanziati;

– la corsa d’alzata del ponte della piattaforma o dei tavoli di sollevamento non deve superare i 2 metri;

– è opportuno colorare con zebrature giallo/nere gli organi mobili al fine di evidenziare maggiormente le fonti di pericolo;

– chiare e semplici istruzioni sull’uso dei ponti e delle piattaforme devono essere riportate su un cartello all’uopo destinato, contenente anche obblighi e divieti e applicato in prossimità del posto di manovra dell’impianto”.

 

Concludiamo con alcune indicazioni sul sollevamento tramite crick.

Si indica che “è vietato introdursi sotto l’autoveicolo sollevato e sostenuto solo dal crick. Prima di introdursi sotto l’autoveicolo, l’addetto deve posizionare i cavalletti di sostegno”.

 

Il documento, che si sofferma anche sull’impatto esterno di questa fase (“costituito dalla emissione convogliata in atmosfera dei gas di scarico degli autoveicoli. Si tratta di emissioni scarsamente significative”), presenta poi altre indicazioni generali, valide per le diverse fasi lavorative, e relative ai requisiti generali di strutture ed impianti, alle indicazioni per la valutazione dei rischi e all’elenco dei documenti da tenere in azienda e da esibire in sede di sopralluogo ispettivo.

 

 

Ausl 1 di Massa Carrara, “ Procedure standardizzate per la valutazione dei rischi nel settore dell’autoriparazione” (formato PDF, 331 kB).

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Manomissione del tachigrafo come omissione di cautele antinfortunistiche

La manomissione del cronotachigrafo o del limatore di velocità sul mezzo aziendale oltre a integrare la violazione dell’art.179 del codice stradale costituisce anche omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro ex art.437 cp. Di G.Porreca.
 

Si è espressa la Corte di Cassazione in questa sentenza, con riferimento ad un caso di installazione su di un mezzo aziendale di un dispositivo volto ad alterare il cronotachigrafo e il limitatore di velocità, sul rapporto esistente fra l’art. 437 del codice penale e l’art. 179 del codice della strada nonché sull’applicazione o meno nel caso stesso del principio di specialità di cui all’art. 9 della legge n. 689/1981 secondo il quale, in caso di concorso tra una disposizione penale incriminatrice e una disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto, trova applicazione esclusivamente la disposizione che risulti speciale rispetto all’altra. Esclusa l’applicabilità nel caso in esame del principio di specialità, la Corte suprema ha sostenuto che la manomissione di un cronotachigrafo o del limatore di velocità su di un mezzo aziendale oltre ad integrare la violazione dell’art. 179 del codice della strada costituisce anche omissione  dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro ex art. 437 c.p..

 

Il fatto, l’iter giudiziario e il ricorso in cassazione.

Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ha dichiarato, ai sensi dell’articolo 425 cod. proc. pen., il non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato nei confronti del titolare di un’azienda in relazione al delitto di cui all’art. 437 del codice penale, ritenendo che l’installazione di un dispositivo atto ad alterare il cronotachigrafo e il limitatore di velocità su di mezzo aziendale sia sanzionata in via amministrativa dall’art. 179 del codice della  strada.

 

Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d’appello ha chiesto alla Corte di Cassazione l’annullamento della sentenza adducendo come motivazione una erronea ritenuta applicazione della norma amministrativa anche al titolare dell’impresa proprietaria del veicolo sul quale è stato rinvenuto il dispositivo, mentre la disposizione citata sarebbe applicabile unicamente al conducente del veicolo, persona diversa dall’imputato. Il difensore dell’imputato, da parte sua, ha depositato una memoria difensiva con la quale ha chiesto l’assoluzione dell’assistito sulla base della considerazione che lo stesso non ha mai rivestito la carica di legale rappresentante dell’impresa titolare dell’automezzo.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso. La stessa ha messo in evidenza che la questione di cui è stata investita riguardava il rapporto esistente fra l’art. 437 del codice penale e l’art. 179 del codice della strada e l’applicazione del principio di specialità, di cui all’art. 9 legge n. 689/1981, secondo il quale in caso di concorso tra una disposizione penale incriminatrice e una disposizione amministrativa sanzionatoria in riferimento allo stesso fatto deve trovare applicazione esclusivamente la disposizione che risulti speciale rispetto all’altra all’esito del confronto tra le diverse fattispecie astratte (Sezioni Unite n. 1963 del 28/102010, PG in proc. di Lorenzo, RV. 248722).

 

Nel caso in esame, ha così proseguito la suprema Corte,  è stato contestato all’imputato, quale titolare della ditta, di avere posto in pericolo, mediante l’indicata alterazione, la sicurezza dei lavoratori (il conducente del veicolo), tanto da far sussistere il requisito richiesto dalla norma incriminatrice. Secondo la stessa il delitto di rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro è un delitto doloso di pericolo, ove il pericolo consiste nella verificazione in conseguenza della condotta di rimozione o di commissione del disastro o dell’infortunio che costituisce, secondo quanto previsto dall’art. 437 comma secondo del codice penale, una circostanza aggravante. A ciò, ha precisato la Sez. I, c’è da aggiungere che il reato del codice penale è punito esclusivamente a titolo di dolo mentre la fattispecie del codice della strada, essendo sanzionata solo in via amministrativa, può essere punita sia a titolo di dolo che di colpa.

 

I destinatari e le condotte delle due disposizioni, ha fatto notare altresì la suprema Corte, sono diversi, in quanto l’art. 437 del codice penale punisce chi “omette di collocare impianti, apparecchi o segnali destinati a prevenire disastri o infortuni sul lavoro, ovvero li rimuove o li danneggia”, mentre l’art. 179 del codice della strada solo chi “circola” o “il titolare della licenza o dell’autorizzazione al trasporto… che mette in circolazione” un veicolo sprovvisto di cronotachigrafo o con “cronotachigrafo manomesso oppure non funzionante”, punendoli anche se non sono autori della manomissione, a differenza della norma penale.

 

Secondo la Sez. I, inoltre, la violazione del codice della strada in esame non può considerarsi speciale, se non per il fatto che attiene in modo specifico al “cronotachigrafo”, mentre la norma del codice penale parla più genericamente di “impianti, apparecchi o segnali”, rispetto al delitto di cui all’art. 437 del codice penale. per cui la stessa ha ritenuto applicabili nel caso in esame entrambe le norme. Le finalità di tutela dell’art. 437 del codice penale, infatti, esprimono una specificità propria, non sovrapponibile a quelle del codice della strada, così da non potersi ritenere la norma codicistica generale rispetto a quella di cui all’art. 179 del codice  della strada e da ravvisare al più una mera interferenza.

 

Ne consegue, ha così concluso la suprema Corte, che la sentenza di non luogo a procedere impugnata, non avendo fatto corretta applicazione del principio di specialità, di cui all’art. 9 legge n. 689/1981 e avendo ritenuto applicabile nel caso specifico la sola disposizione amministrativa di cui all’art. 179 del codice della strada, dichiarando conseguentemente “non luogo a procedere perché il fatto non è previsto dalla legge come reato”, va annullata senza rinvio e gli atti vanno trasmessi a diverso magistrato del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di provenienza perché proceda a nuovo giudizio.

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Penale Sezione I – Sentenza n. 13937 del 22 marzo 2017 (u.p. 9/3/2017) – Pres. Di Tomassi – Est. Aprile – Ric. Procuratore Generale. – La manomissione del cronotachigrafo o del limatore di velocità sul mezzo aziendale oltre ad integrare la violazione dell’art. 179 del codice stradale costituisce anche omissione  dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro ex art. 437 c.p..

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Le informazioni che l’RSPP deve acquisire “di sua iniziativa” per la VR

I sopralluoghi, le informazioni reperibili o evidenti di cui l’RSPP e il consulente esterno devono tenere conto per svolgere diligentemente il loro incarico: casi e principi nelle sentenze della Cassazione Penale. A cura di Anna Guardavilla.
 

Fino a che punto l’RSPP e il consulente esterno devono attivarsi per reperire le informazioni necessarie alla valutazione dei rischi (al di là delle informazioni e oltre le informazioni che l’RSPP  per legge deve necessariamente ricevere dal datore di lavoro ai sensi dell’articolo 18 c.2 D.Lgs.81/08)? Fino a che punto RSPP e consulente esterno devono effettuare sopralluoghi, conoscere nel dettaglio l’organizzazione (gli “aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo”, secondo le parole della Cassazione) e i suoi mutamenti e verificare le condizioni di lavoro?

Questo tema, da sempre molto dibattuto, è oggetto di alcune sentenze della Cassazione che vengono proposte di seguito, come sempre senza pretese di esaustività.

 

L’RSPP deve operare una “costante verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale”: Cassazione Penale, Sez.IV, 10 febbraio 2015 n.5983

 

Il principio espresso da questa sentenza è il seguente: “non è il datore di lavoro a dover informare il R.S.P.P. delle modalità e degli aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli connessi ma è al contrario quest’ultimo a dover attentamente valutare tali elementi, attraverso una costante opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di intervento a fini di prevenzione e sicurezza.”

 

Vediamo brevemente il caso.

Il datore di lavoro e l’RSPP di una ditta esercente attività di realizzazione di prefabbricati in cemento sono condannati per omicidio colposo per l’infortunio occorso ad un lavoratore che era adibito, “al momento del sinistro, al lavaggio tramite idropulitrice di pannelli in conglomerato cementizio, mantenuti in posizione verticale tramite rastrelliere, due dei quali gli rovinavano addosso provocandone la morte per schiacciamento.”

Al datore di lavoro “l’evento era ascritto […] per aver omesso di considerare, nel documento di valutazione dei rischi, il sistema utilizzato per mantenere in posizione verticale le pareti in conglomerato cementizio, mediante l’impiego di rastrelliere, durante le fasi di stoccaggio e lavaggio”mentre all’RSPP “si rimproverava, invece, di aver omesso di individuare e valutare i rischi connessi alla descritta lavorazione e alla relativa organizzazione e, dunque, di individuare le necessarie misure per la sicurezza e, comunque, di intraprendere ogni opportuna iniziativa volta ad eliminare la fonte di pericolo”.

 

L’RSPP nel ricorso sostiene di aver assolto ai propri compiti “sulla base di quanto egli conosceva e poteva materialmente conoscere circa l’organizzazione produttiva e i luoghi dell’azienda e che, a tal fine, egli poteva fare riferimento solo ed esclusivamente al documento di valutazione dei rischi, la cui redazione è per legge imposta al datore di lavoro” il quale ultimo, secondo il ricorrente, “aveva nel caso di specie negligentemente omesso di indicare all’interno del documento di valutazione dei rischi la fase di lavaggio delle pareti in cemento e la relativa organizzazione della zona dell’azienda a ciò destinata”.

Nel ricorso “evidenzia altresì che la pulitura delle pareti in cemento avveniva in una zona dello stabilimento che era destinata, nel documento di valutazione dei rischi, ad altre fasi della produzione. Osserva che, pertanto, mai egli avrebbe potuto avere conoscenza della fase di lavaggio delle pareti in cemento con idropulitrice” e che dal processo “non emerge prova certa che egli conoscesse effettivamente lo stato dei luoghi e, in particolare, la zona dove avveniva il lavaggio con idropulitrice delle pareti in cemento.”

 

Secondo la Cassazione, che rigetta il ricorso, premesso che “tra i compiti del R.S.P.P., dettagliati dalla richiamata normativa, rientra proprio quello di individuare i fattori di rischio e suggerire le misure da adottare”,di conseguenza “al riguardo l’assuntodel ricorrente secondo cuitale obbligo presuppone l’indicazione, da parte del datore di lavoro, nel documento di valutazione dei rischi, dello specifico aspetto organizzativo interessato dalla possibile insorgenza di rischi non trova alcun appiglio nel dato positivo eancor prima è manifestamente illogico dal momento che finisce con l’invertire il rapporto di collaborazione tra responsabile del servizio di prevenzione e protezione e datore di lavoro, quale presupposto dalla norma, e in definitiva, come detto, a privare di senso la stessa previsione della figura del R.S.P.P.”

 

La Corte chiarisce che “è evidente, infatti, che non è il datore di lavoro a dover informare il R.S.P.P. delle modalità e degli aspetti logistici e organizzativi di ogni momento del processo lavorativo e dei pericoli connessi ma è al contrario quest’ultimoa dover attentamente valutare tali elementi, attraverso una costante opera di controllo e verifica delle condizioni di lavoro e di eventuali mutamenti, anche di fatto, dell’organizzazione aziendale, da comunicare prontamente al datore di lavoro onde metterlo in grado di esercitare i suoi poteri/doveri di intervento a fini di prevenzione e sicurezza.”

Qualora si ragionasse “diversamente, peraltro, è evidente che, come detto, la previsione di una siffatta figura di collaboratore non avrebbe significato alcuno dal momento che, postulandosi un onere informativo in capo allo stesso datore di lavoro, si presuppone per ciò stesso, contrariamente al vero, che lo stesso sia sempre e comunque in grado di procurarsi ex se le informazioni necessarie al fine di un compiuto espletamento dei doveri prevenzionali su di lui gravanti (si pensi all’esistenza di rischi la cui conoscenza derivi da competenze specialistiche).”

 

Infine, dal punto di vista delle circostanze concrete, secondo la Cassazione è fuori di dubbio il fatto che l’RSPP ricorrente “fosse in condizioni di potersi rendere conto,ove avesse diligentemente assolto all’incarico affidatogli, dei pericoli connessi al luogo e al modo con cui si provvedeva al lavaggio delle pareti di cemento. Tale valutazione, invero, è ampiamente e adeguatamente motivata nella sentenza impugnata attraverso ampio e puntuale richiamo di pertinenti emergenze processuali e segnatamente delle deposizioni dei testi A.R. e D.M. (i quali hanno riferito che: le rastrelliere sulle quali erano appoggiate le pareti del lavaggio venivano usate già da tempo; erano state realizzate in loco su decisione del C. e con l’approvazione del L.; il luogo in cui Ca.Mi. stava eseguendo il lavaggio era stato provvisoriamente individuato da circa due settimane, in quanto nella diversa zona del capannone destinata a tale attività erano in corso dei lavori per la realizzazione di una vasca nel rispetto delle norme ambientali e di sicurezza dei lavoratori)…”.

 

Il consulente esterno “sia esso Rspp o esperto estraneo all’organigramma aziendale” deve “acquisire le informazioni necessarie al corretto assolvimento del suo compito, che in prima istanza consiste nella “individuazione dei fattori di rischio … sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale”: Cassazione Penale, Sez.IV, 25 giugno 2015 n.26993

 

Questa sentenza esprime il seguente principio: “Non v’é dubbio che [il datore di lavoro], quale dominus dell’organizzazione aziendale, sia depositario di tutte le informazioni influenti sulla valutazione dei rischi; e che mentre talune devono essere necessariamente veicolate al consulente perché questi ne possa avere conoscenza, altre sono agevolmente reperibili da questo solo che il rapporto di consulenza abbia una sua dimensione reale.

Ma erra l’esponente nel derivare dalla previsione dell’art.9 co. 2 d.lgs. n.626/1994 (norma vigente al momento del fatto; oggi il riferimento è all’art. 33 d.lgs. n. 81/2008) l’insussistenza dell’obbligo del consulente nella valutazione dei rischi (sia esso Rspp o esperto estraneo all’organigramma aziendale) di acquisire le informazioni necessarie al corretto assolvimento del suo compito, che in prima istanza consiste nella “individuazione dei fattori di rischio … sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale”.”

 

Per quanto riguarda il caso oggetto della sentenza, un dipendente di una Fattoria era “alla guida di un trattore Fiat 605 al quale era attaccato l’attrezzo denominato “raccoglisarmenti” quando era caduto con il mezzo d’opera in un dirupo durante una manovra eseguita in prossimità del ciglio dello stesso ed era rimasto schiacciato dal trattore, riportando lesioni personali gravissime.”

 

La Cassazione Penale ha confermato la condanna del “consulente esterno in materia di sicurezza sul lavoro del datore di lavoro, M.M. (la cui posizione era stata definita con sentenza di patteggiamento), che aveva predisposto un documento di valutazione dei rischi incompleto, generico e superficiale, avendo omesso in particolare di analizzare i rischi connessi all’uso del veicolo con il quale era avvenuto l’infortunio in quello specifico ambiente lavorativo nel quale l’evento si era prodotto e di segnalare la necessità dell’adeguamento del veicolo alla vigente normativa, dotandolo di dispositivo antiribaltamento e di cinture di sicurezza.”

 

La Corte di appello aveva ricordato che “l’imputato medesimo aveva confermato di aver predisposto il documento di valutazione nell’anno 2004 e che la sua opera di consulenza era proseguita negli anni, ha ritenuto che egli avrebbe dovuto segnalare l’inidoneità del veicolo, palesemente obsoleto e privo di dispositivi di sicurezza già all’epoca previsti dalla legge, e comunque prescrivere limitazioni al suo utilizzo, anche al fine di rendere il datore di lavoro edotto dei rischi connessi all’uso del mezzo.” E che “per contro il documento di valutazione dei rischi descriveva il trattore in questione come in buone condizioni così configurandosi l’omessa valutazione del rischio connesso all’uso del predetto veicolo, certamente in relazione causale con l’infortunio avvenuto.”

 

Nei motivi di ricorso il consulente esterno fa presente che la “sentenza impugnata ha disconosciuto che l’opera del consulente é condizionata dai dati conoscitivi offerti dal datore di lavoro. Nel caso di specie è emerso dalla istruttoria dibattimentale che le informazioni fornite dal datore di lavoro al consulente indicavano che il trattore in questione non era adoperato per le lavorazioni agricole nella Fattoria di C. ma era confinato nella Fattoria di S. La Corte di appello ha ritenuto che il B.L. [il ricorrente, n.d.r.] dovesse verificare personalmente tali informazioni ma tale obbligo non è previsto normativamente. Non costituendo il trattore una fonte di pericolo, esso non doveva essere preso in considerazione ai fini della valutazione del rischio.”

 

La Corte, nel rigettare il ricorso, sottolinea che “nel caso che occupa, nel quale il B.L. assunse su base contrattuale – ancorché priva di forma scritta – il compito di collaborare con il M.M. nell’attività di risk assessment che esita nella redazione del documento di valutazione dei rischi […], assumendo il compito di collaborare nel risk assessment, il B.L. si é fatto co-gestore del rischio determinato dalle attività dell’impresa, sia pure limitatamente alla fase della valutazione dei rischi specifici connessi alle diverse lavorazioni e componenti del processo produttivo.”

 

La Corte considera infondato anche “il rilievo dell’esponente che evidenzia il condizionamento dell’opera del consulente alle informazioni trasmesse dal datore di lavoro”in quanto “non v’é dubbio che quest’ultimo, quale dominus dell’organizzazione aziendale, sia depositario di tutte le informazioni influenti sulla valutazione dei rischi; e che mentre talune devono essere necessariamente veicolate al consulente perché questi ne possa avere conoscenza, altre sono agevolmente reperibili da questo solo che il rapporto di consulenza abbia una sua dimensione reale.

Ma erra l’esponente nel derivare dalla previsione dell’art.9 co. 2 d.lgs. n.626/1994 (norma vigente al momento del fatto; oggi il riferimento è all’art. 33 d.lgs. n. 81/2008) l’insussistenza dell’obbligo del consulente nella valutazione dei rischi (sia esso Rspp o esperto estraneo all’organigramma aziendale) di acquisire le informazioni necessarie al corretto assolvimento del suo compito, che in prima istanza consiste nella “individuazione dei fattori di rischio … sulla base della specifica conoscenza dell’organizzazione aziendale”.”

 

Infatti – precisa la Cassazione – “nel caso che occupa i giudici di merito rammentano che il B.L. effettuò una visita presso le varie sedi dell’azienda, venendo così a conoscere dell’unitarietà della gestione pur a fronte delle diverse intestazioni; che egli esaminò il trattore, già allora obsoleto e non dotato di essenziali ed obbligatori dispositivi di sicurezza quali il rollbar e le cinture di sicurezza, e ciò nonostante lo indicò come “in buone condizioni”, senza evidenziare che non era idoneo all’utilizzo su qualsiasi tipo di terreno. Puntualizzazioni che descrivono il pertinente bagaglio informativo in possesso del B.L. e che rendono privo di pregio l’argomento difensivo della mancanza di conoscenza nel consulente B.L. dell’uso del mezzo d’opera presso la fattoria di C. (circostanza peraltro esclusa in fatto dalla Corte di Appello).”

 

Infine “il restante motivo, alla luce di quanto appena esplicato, risulta manifestamente infondato, siccome prende le mosse da una sottolineatura della novità dell’adibizione del trattore ai lavori presso la fattoria di S.. Si é appena dimostrata che siffatta circostanza é di nessun rilievo, per la originaria e totale inidoneità del mezzo all’utilizzo su qualsiasi terreno.”

 

I sopralluoghi in azienda dell’RSPP/Consulente esterno e le informazioni desumibili dalle circostanze concrete che non possono “non essere notate” e “la cui esistenza non può essere ignorata da alcuno”: Cassazione Penale, Sez.IV, 18 gennaio 2017 n.2406

 

Chiudiamo con una sentenza di quest’anno, che ha giudicato le responsabilità – per omicidio colposo aggravato connesso ad un infortunio sul lavoro – del presidente del C.d.A di una S.p.A., del direttore tecnico e responsabile della produzione e dell’RSPP sul quale ultimo incombeva “l’obbligo di valutare con diligenza e prudenza i processi produttivi, individuando i possibili fattori di rischio e segnalandoli al datore di lavoro per l’adozione degli opportuni provvedimenti.”Nel caso di specie, “egli avrebbe omesso di segnalare al datore di lavoro il grave rischio connesso all’esistenza dei depositi di materiale infiammabile ed alle procedure di travaso”.

 

Secondo la Cassazione,“al B.E., quale professionista esperto, prima consulente e poi RSPP dell’azienda A. (specializzata nella produzione di antine in legno per arredamenti, dotata di un reparto di tinteggiatura ove normalmente vengono utilizzati smalti, vernici e diluenti), non poteva sfuggire la valutazione del “dove” e “come” venissero depositati, spostati, travasati, usati e poi smaltiti i detti materiali liquidi altamente infiammabili; né esorbitava dai suoi obblighi la ponderazione della collocazione e dell’utilizzo delle cisterne presenti nel piazzale dell’azienda (di dimensioni tali da non poter essere “non notate”).”

 

“Eppure” -sottolinea la Corte – “di tutto ciò non v’è traccia nei documenti di valutazione dei rischi redatti dal ricorrente”e “nel caso in esame, oltretutto, l’oggetto della mancata valutazione non era certamente marginale o poco evidente, trattandosi di un deposito di alcune grandi cisterne poste in un’apposita area al di fuori dello stabilimento, la cui esistenza non poteva essere ignorata da alcuno..”

 

La Corte conclude: “nel presente procedimento il B.E. assume la doppia veste di consulente esterno del datore di lavoro nell’elaborazione del documento di valutazione e di RSPP successivamente nominato. Egli non poteva ignorare, e se lo ha fatto ciò è ascrivibile a colpa, l’esistenza del deposito esterno formato da cisterne di materiale infiammabile. Come ha correttamente rilevato il perito nella propria relazione, gli accordi fra lo studio professionale del B.E. e la A. prevedevano sopralluoghi periodici in azienda al fine di verificare i rischi presenti.L’appellante non può quindi giustificare la (asserita) mancata conoscenza del deposito con la constatazione che esso non fosse indicato nelle planimetrie.”

 

 

Anna Guardavilla

Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

 

Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza n. 5983 del 10 febbraio 2015- Morte per schiacciamento di un lavoratore: quando la responsabilità, oltre che del datore di lavoro, è del RSPP.

 

Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza n. 26993 del 25 giugno 2015 – “Colui che cooperi con propria condotta agevolatrice alla produzione dell’evento é chiamato a risponderne”: responsabilità di un RSPP.

 

Corte di Cassazione Penale, Sez. 4 – Sentenza n. 2406 del 18 gennaio 2017 – Deposito esterno formato da cisterne di materiale infiammabile. Responsabilità di un RSPP per mancata idonea valutazione dei rischi.

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Un nuovo approccio alla tecnologia: EuTecno e smart working

Si terrà a Brescia il 12 aprile un corso di presentazione di un nuovo approccio per approfondire le novità dello smart working, conoscere i vantaggi e svantaggi dei supporti tecnologici e massimizzarne i benefici.
 

Se nel mondo del lavoro il progresso tecnologico è indispensabile ed ineluttabile, l’unico modo di affrontare efficacemente la prevenzione dei rischi emergenti correlati ai cambiamenti indotti da questa evoluzione, parte dalla consapevolezza delle difficoltà poste delle nuove tecnologie per arrivare a regolare e modificare il nostro modo di utilizzarle.

 

Tuttavia non sono solo gli strumenti informatici ad aver introdotto nuovi rischi lavorativi. Esistono anche rischi emergenti che dipendono, ad esempio, dalla modifica del rapporto con il “luogo di lavoro”, in relazione alla diffusione del cosiddetto “ lavoro agile”, dello “smart working”, una modalità di svolgimento dell’attività lavorativa saltuariamente effettuata al di fuori dei locali dell’impresa e con l’uso di tecnologie informatiche in remoto.

 

Esistono dei corsi in grado di favorire una riflessione sugli effetti psicologici dell’innovazione tecnologica per massimizzarne i benefici e ridurne gli effetti collaterali? C’è una formazione che possa fornire gli strumenti per affrontare adeguatamente le specifiche modalità dello smart working?

 

Con questi obiettivi l’Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro ( AiFOS) ha organizzato il 12 aprile 2017 a Brescia un corso dal titolo “Approccio EU‐TECNO e modalità SMART WORKING”, un corso che partendo dalle definizioni di base e dalle principali fonti di “stress” tecnologico affronterà con equilibrio il tema dei “pro & contro” dei supporti tecnologici, anche alla luce della scienza cognitiva e neuropsicologica.

Durante la giornata formativa, costellata di momenti di coinvolgimento attivo e con modalità didattiche innovative, sarà proposto un modello di approccio allo smart working, che sarà utile anche in chiave di auditing.

 

La tecnologia digitale sta dunque trasformando il mondo del lavoro introducendo nuove tipologie di rischio psicofisico in relazione, ad esempio, allo stress lavoro-correlato o ai problemi ergonomici. È proprio nell’intreccio tra human factors e tech stressors, che genera un mix di effetti positivi e negativi sulle performance, che il rapporto con la tecnologia deve essere affrontato superando la logica contrapposta tra eccesso di allarmismo da un lato e di sottostima dall’altro.

 

Durante il corso sarà proposto un nuovo approccio EuTecno con riferimento ai rischi lavorativi derivati dai supporti tecnologici e all’impatto delle nuove tecnologie e dei nuovi metodi di lavoro agile. Come muoversi per tutelare la salute e la sicurezza riferita a queste nuove forme di lavoro? Qual è l’uso in ergonomia dei nuovi strumenti digitali? L’obiettivo è la costruzione di una conoscenza costruttiva e consapevole dell’impatto sulla salute psicofisica derivante dall’uso intensivo delle nuove tecnologie.

 

Ricordiamo che lo “smart working”, il cosiddetto “lavoro agile” è definito a livello normativo come una modalità flessibile di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato allo scopo di incrementare la produttività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. E in questa tipologia di lavoro, favorita dall’uso di strumenti informatici in remoto:

– vengono meno i vincoli legati a luogo e orario lavorativo;

– il lavoratore organizza le attività in piena autonomia e flessibilità;

– acquista maggior importanza la responsabilità personale dei risultati ottenuti.

 

Il corso “Approccio EU‐TECNO e modalità SMART WORKING”, della durata di 8 ore, si terrà dunque mercoledì 12 aprile 2017 a Brescia dalle 09.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 18.00, presso la sede di AiFOS in via Branze 45, c/o CSMT, Università degli studi di Brescia.

 

Il programma del corso:

– definizioni base;

– principali fonti di stress tecnologico;

– “pro & contro” dei supporti tecnologici;

– i rischi in ottica scientifica cognitiva e neuropsicologica;

– proposta di un modello di approccio allo smart working utile anche in fase di auditing.

 

Si segnala che il corso – destinato a formatori, consulenti, RSPP/ASPP e a tutti coloro che, avendo già nozioni di base in materia di salute e sicurezza, intendono aumentarne le conoscenze – è valido per il rilascio di crediti per l’aggiornamento relativo a:

– 6 ore per RSPP e ASPP;

– 6 ore per Formatori qualificati terza area tematica.

 

Il corso a numero chiuso è stato progettato e strutturato con docenti e formatori qualificati e competenti in materia. E al termine del corso verrà consegnato l’Attestato individuale ad ogni partecipante, numerato, rilasciato da AiFOS ed inserito nel registro nazionale della formazione.

 

Il link per avere ulteriori dettagli sul corso e iscriversi…

 

 

Per informazioni e iscrizioni:

Sede nazionale AiFOS – via Branze, 45 – 25123 Brescia c/o CSMT, Università degli Studi di Brescia – tel.030.6595031 – fax 030.6595040 www.aifos.it  – info@aifos.it – formarsi@aifos.it

 

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Fonte: puntosicuro.it

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La proposta di introdurre il reato specifico di mobbing

Un intervento si sofferma sulla necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro. Nell’attuale ordinamento giuridico italiano la normativa atta a contrastare il mobbing è sufficiente e efficace?
Milano, 24 Mar – La Corte di Cassazione ha ormai elaborato da tempo il concetto di mobbing. Dalla sentenza n. 20230 del 25 settembre 2014 si può, ad esempio, ricavare una definizione che fa riferimento ad un eterogeneo fenomeno consistente in una serie di atti e comportamenti vessatori protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati di un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obbiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo. Una definizione “che sostanzialmente conferma i precedenti sul punto del giudice di legittimità”. E le caratteristiche del mobbing sono poi state ribadite nella sentenza n. 10037 del 15 maggio 2015 in cui la Corte di Cassazione ha ribadito che “l’onere della prova grava integralmente sul lavoratore che denunci di essere stato vittima di condotte vessatorie da parte del datore di lavoro. Onere probatorio duplice in quanto il lavoratore parte offesa dovrà dare prova piena e rigorosa sia del fatto che i comportamenti subiti abbiano natura illecita sia della quantificazione del danno subito”. E un’altra sentenza della Sezione Lavoro della cassazione (sentenza n. 2920 del 15 febbraio 2016) indica che per poter “ricorrere alla tutela giudiziaria il lavoratore deve dimostrare l’intento persecutorio che non deve assistere le singole condotte poste in essere a suo danno ma deve ricomprenderle in un unico disegno vessatorio”. E sulla quantificazione del pregiudizio subito a seguito di mobbing, è intervenuta la Sez. I del Tribunale di Nocera Inferiore (sentenza 7 maggio 2014) che ha rilevato come il danno morale non scatta in re ipsa come danno evento ma è comunque un danno-conseguenza che deve essere provato dal richiedente.

 

A ricordare in questi termini alcuni aspetti giuridici del fenomeno del mobbing e a formulare delle interessanti proposte è un intervento al convegno “ Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili”, organizzato da AIBEL, ATS Milano e SNOP, che si è tenuto a Milano il 7 giugno 2016.

 

In “Necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro”, a cura dell’Avv. Alessandro Rombolà (Medicina Democratica – Sez. Pietro Mirabelli Firenze – Associazione Italiana Benessere e Lavoro), ci si sofferma in particolare sull’opportunità che “tutte le condotte illecite che – forse con eccessiva semplificazione – sono comunemente conosciute come mobbing, debbano o meno essere oggetto dell’attenzione del legislatore penale”.

Da questo punto di vista il relatore parte da una profonda convinzione.

Ritiene infatti necessario “un intervento legislativo che dia disciplina unitaria e rigorosa completa a tale problema. Infatti sino ad oggi l’impressione degli addetti ai lavori è che il mobbing sia un concetto elaborato dalla giurisprudenza ma, colpevolmente, poco considerato dal legislatore”.

Manca in realtà una precisa definizione da parte del legislatore il quale prende in considerazione e stigmatizza le condotte relative al mobbing – anche omissive come spesso si verifica nel cosiddetto ‘mobbing orizzontale’ “dove il datore di lavoro, per disinteresse o per un preciso intento escludente, evita di intervenire per porre fine a comportamenti mobbizzanti posti in essere dai colleghi di lavoro della vittima” – ma poi “non ne trae le dovute conseguenze sanzionatorie”.

Lo stesso Decreto Legislativo 81/2008 prende in considerazione le patologie collegate allo stress lavoro-correlato ma senza “dare indicazioni valide per la soluzione concreta di tali problematiche”. Ed è lecito chiedersi: “nell’attuale ordinamento giuridico italiano la normativa atta a contrastare il mobbing è da ritenersi sufficiente e, soprattutto, efficace?

Secondo il relatore la risposta non può essere che negativa.

 

Il relatore motiva la sua convinzione anche soffermandosi sulle due strade “sostanziali e processuali per tutelare i lavoratori che siano stati vittima di mobbing: quella giuslavoristica- previdenziale e quella penale”. E rileva che l’opinione prevalente della giurisprudenza è quella di “vedere con sospetto e talvolta con malcelato fastidio la tutela penale”.

 

Rimandando i nostri lettori alla lettura integrale dell’intervento, che riporta integralmente alcuni utili riflessioni su questi aspetti, sottolineiamo che secondo il relatore non è solo “opportuno ma anche necessario che il legislatore affronti – nel quadro di una più complessa disciplina unitaria del fenomeno – l’opportunità (…) di introdurre nel nostro ordinamento il reato specifico di mobbing”.

 

La carenza della legislazione sul punto comporta due conseguenze negative:

– “l’assoluta inadeguatezza nella doverosa repressione dei fenomeni di mobbing;

– l’assoluta incertezza sull’esito delle denunce penali che troppo spesso dipende dalla sensibilità (ed anche conoscenza del fenomeno) da parte dell’inquirente cui viene assegnata l’istruttoria penale”.

E si ricorda come in altri casi “la soluzione di certe condotte gravemente illecite” – viene fatto l’esempio dello stalking – “ha trovato valido ausilio soltanto con e dopo l’introduzione nell’ordinamento penale di norme repressive ad hoc”. Ed allora si deve – continua il relatore – “uscire dall’ipocrisia: o si ritiene che il mobbing sia un fatto gravissimo (come in effetti lo è) ed allora si mette mano a provvedimenti efficaci per combatterlo; oppure si continua nell’incertezza attuale con palliativi come quello di volere forzatamente includere il mobbing in già esistenti figure di reato, con tutti i problemi che abbiamo visto in precedenza”.

 

Dopo aver presentato alcune possibili critiche alla soluzione dell’introduzione del reato specifico di mobbing (e alcuni dubbi sull’utilità di altre soluzioni come l’istituzione di collegi arbitrali o di conciliazione oppure l’adozione da parte delle aziende di codici etici o comportamentali), il relatore esamina poi un altro aspetto che rende a suo parere auspicabile l’introduzione del reato di mobbing e la conseguente tutela in ambito penale.

 

Si ricorda quelli che, sul piano processuale civile, sono “i principali ostacoli alla tutela del lavoratore persona offesa:

– la difficoltà di fornire prove esaustive della condotta illecita di cui è rimasto vittima sul luogo di lavoro. Sul punto, come osservato in precedenza, la giurisprudenza della Cassazione è univoca e costante: l’onere della piena prova necessaria per arrivare ad una sentenza favorevole, ricade interamente sul lavoratore: ciò comporta difficoltà spesso insormontabili per arrivare ad una sentenza di condanna del mobber”;

– “la mancata previsione delle malattie conseguenti ad azioni mobbizzanti nelle tabelle INAIL. Non essendo malattie tabellate, la prova talvolta (anzi spesso) è pressoché impossibile”;

– “la difficoltà di trovare magistrati e CTU medico-legali con una competenza specifica su tali illeciti e patologie”.

 

Invece in sede penale, la questione cambia in quanto “il PM nell’esercizio dell’azione penale, ha poteri ispettivi ed inquisitori preclusi al lavoratore – parte offesa. Ecco perché la repressione penale di queste condotte illecite sarebbe infinitamente più efficace e quindi è auspicabile”.

 

In conclusione il relatore segnala che l’Associazione Italiana Benessere e Lavoro (A.I.B.e L.) sta “conducendo una lotta per l’introduzione del reato di condotte vessatorie sul luogo di lavoro”, anche attraverso la stesura di uno specifico disegno di legge.

 

 

“ Necessità dell’inserimento nel codice penale del reato di vessazioni sul lavoro”, a cura dell’Avv. Alessandro Rombolà (Medicina Democratica – Sportello Disagio Lavorativo Medicina Democratica – Associazione Italiana Benessere e Lavoro), intervento al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” (formato PDF, 79 kB).

 

 

Tiziano Menduto

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Conai TUTTI IN REGOLA prorogata al 31 marzo 2017

Il prossimo 31 marzo scade la possibilità per le micro e piccole imprese importatrici di merci imballate e/o operanti la selezione/riparazione di pallet in legno di avvalersi della procedura di regolarizzazione agevolata: le guide.
 

La campagna TUTTI IN REGOLA, scaduta il 31 dicembre 2016, che CONAI aveva riservato alle micro e piccole imprese importatrici di merci imballate e/o operanti la selezione/riparazione di pallet in legno, costituiva una particolare formula incentivante per la regolarizzazione di alcuni obblighi consortili: mancata iscrizione al CONAI; omessa applicazione, dichiarazione e versamento del Contributo Ambientale.

 

Il Consiglio di Amministrazione Conai, ha deliberato la proroga dell’iniziativa fino al 31 marzo 2017 in considerazione dello straordinario interesse da parte delle aziende che, anche oltre la scadenza del 31 dicembre 2016, hanno continuato ad inviare le richieste di regolarizzazione.

Il Conai conferma le agevolazioni previste, la possibilità cioè di regolarizzare la propria posizione contributiva, versando al Consorzio il contributo ambientale dovuto a partire dal 1° gennaio 2013 (anziché i dieci anni pregressi) senza interessi di mora e senza applicazione delle sanzioni previste dal regolamento Conai, salvo che l’impresa sia sottoposta a controlli già in corso o avviati prima della richiesta di trattamento agevolato. Non sarà invece più consentita la rateizzazione delle somme dovute.

 

Le imprese interessate potranno presentare il modello di richiesta di regolarizzazione agevolata entro e non oltre il 31 marzo 2017, mentre le relative dichiarazioni del Contributo ambientale dovranno essere inviate a Conai nei trenta giorni successivi all’invio della richiesta.
Le stesse condizioni sono applicabili alle aziende che hanno già adempiuto a tali obblighi, ma oltre il termine del 31.12.2016.

 

Per le aziende con un periodo pregresso da regolarizzare (2007 – 2016) costantemente sotto la soglia annuale di esenzione, Conai informa che è inutile ricorrere alla procedura “Tutti in Regola”, non essendovi somme da versare al Consorzio a titolo di contributo per l’intero periodo pregresso.

 

Alleghiamo le Guide TUTTI IN REGOLA – 2017 che Conai ha redatto per aiutare le imprese ad orientarsi negli adempimenti da espletare.

 

Interpreta©

 

 

Conai Tutti in Regola – Intro (pdf)

 

Conai Tutti in Regola – Merci imballate(pdf)

 

Conai Tutti in Regola – Pallet (pdf)

 

 

Leggi anche: Conai: TUTTI IN REGOLA

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Le proposte in materia di sicurezza: semplificare la normativa

Un disegno di legge propone di ridurre il Testo Unico da 306 a 22 articoli con l’obiettivo di un miglioramento sostanziale della salute e sicurezza. Ne parliamo con uno dei firmatari della proposta, il senatore ed ex ministro Maurizio Sacconi.
 

Proposte che, come abbiamo già indicato in un precedente articolo, spesso difficilmente arrivano a completare l’iter e a diventare leggi vigenti, ma che ci permettono di raccontare un clima, una tendenza, un orientamento da parte di coloro che hanno il compito in Parlamento di elaborare e approvare nuove norme. Orientamento, tendenze e direzioni che spesso sono tra loro molto contrastanti e che raccontano, probabilmente, la difficoltà di affrontare la tematica della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro da punti di vista condivisi da più gruppi e forze parlamentari.

 

Ed infatti dopo aver presentato attraverso un’ intervista al senatore Giovanni Barozzino, un disegno di legge per l’introduzione nel codice penale del reato di omicidio sul lavoro e del reato di lesioni personali sul lavoro gravi o gravissime, torniamo oggi a presentare una nuova intervista relativa ad un disegno di legge che esprime un’altra tendenza, un diverso orientamento.

 

Stiamo parlando di un disdegno di legge tendente al riordino e alla semplificazione del D.Lgs. 81/2008, a firma dei senatori Maurizio Sacconi, Serenella Fucksia e Johann Karl Berger; una semplificazione estrema che porterebbe la normativa in materia di salute e sicurezza del Testo Unico dagli attuali 306 articoli e 51 allegati a 22 articoli e 5 allegati.

Una proposta che, come abbiamo già raccontato in un precedente articolo, prevede la possibilità per “medici del lavoro o altri professionisti esperti in materia di sicurezza sul lavoro”, di verificare l’avvenuto adempimento in azienda degli obblighi in materia di salute e sicurezza e certificare, sotto la propria responsabilità, la correttezza delle misure di prevenzione e protezione adottate dalla singola azienda.

 

E non bisogna dimenticare anche le modifiche, contenute nel disegno di legge, relative alla responsabilità del datore di lavoro. Secondo i proponenti la colpa in materia di salute e sicurezza è “colpa di organizzazione” con la conseguenza che ‘essa viene meno ove l’imprenditore dimostri di aver provveduto ad organizzare la sua azienda in modo corretto e attento rispetto alle esigenze di tutela dei propri lavoratori’ (come riportato nella presentazione del disegno di legge).

 

Rimandando al precedente articolo di PuntoSicuro sul tema, l’approfondimento nel dettaglio di quanto indicato nel disegno di legge, proponiamo oggi una breve intervista al senatore Maurizio Sacconi, presidente della 11ª Commissione permanente (Lavoro, previdenza sociale) del Senato della Repubblica e, come ricorderanno i nostri lettori, Ministro del Lavoro dal 2008 al 2011.

 

Le domande non solo vogliono comprendere come si è arrivati al disegno di legge, ma vogliono capire cosa cambierebbe e quali obiettivi ci si pone con questa proposta “estrema”. Una proposta che, come indica nell’intervista il senatore, ha “lo scopo di aprire una discussione tecnica, culturale, politica sui modi con cui rendere ogni ambiente di lavoro più sicuro”.

 

Abbiamo anche cercato di fare alcune domande – non a tutte è stata data risposta – per riflettere su qualche aspetto più critico della proposta, ad esempio in relazione alla garanzia dell’autonomia dei certificatori.

 

Infine non potevamo non chiedere al senatore di raccontarci qualche aspetto della sua esperienza di presidente della Commissione Lavoro, specialmente in relazione alla permeabilità della Commissione ai temi della tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

Cerchiamo di comprendere come si è arrivati al disegno di legge, di cui lei è il primo firmatario, relativo al riordino e alla semplificazione del Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Al di là dei contenuti che approfondirei più avanti, perché avete sentito l’esigenza di sfrondare così ampiamente il D. Lgs. 81/2008, un Testo Unico che malgrado tutto ha contribuito ad una diminuzione sensibile, dal 2008 ad oggi, degli infortuni?

 

Maurizio Sacconi: “Come ha ben spiegato nei giorni scorsi una titolare di bad and breakfast al Corriere, la attuale regolazione è sostanzialmente a taglia unica e tarata sulla fabbrica pesante. Prevalgono gli adempimenti formali, sostenuti da sanzioni significative, che per molte piccole imprese, specie del terziario, sono sproporzionati. In generale, oltre una certa soglia, il formalismo rischia di allontanare l’imprenditore da un approccio sostanzialista alla sicurezza”.

 

Ci racconti quali ritiene siano i punti determinanti della vostra proposta e quali i vantaggi rispetto alla situazione attuale…

 

M.S.: “La proposta ha lo scopo di promuovere nei luoghi di lavoro una attenzione olistica alla salute del lavoratore attraverso una sorveglianza sanitaria che partecipi della attività di prevenzione del servizio sanitario nazionale. Dal lato dell’impresa ne distingue dimensione e caratteristiche sollecitando, anche attraverso criteri di bonus malus nella definizione premio INAIL, scelte imprenditoriali rivolte alla qualità totale dell’impresa e all’impiego delle tecnologie più evolute anche ai fini della sicurezza”.

 

Un testo come quello del vostro disegno di legge non rischia di scontrarsi con le attuali direttive europee da recepire, con il rischio di nuove messe in mora?

 

M.S.: “Assolutamente no. Il modello di riferimento assunto è la regolazione vigente in Svezia, paese dell’Unione”.

 

Uno degli aspetti rilevanti del disegno di legge è la possibilità del supporto di medici del lavoro o di altri professionisti esperti per verificare l’avvenuto adempimento in azienda degli obblighi in materia di salute e sicurezza rilasciando una apposita “certificazione” avente valore legale di presunzione rispetto agli obblighi di legge. Per questa importante certificazione è garantito un sufficiente grado di autonomia dei certificatori rispetto alle aziende da certificare?

 

M.S.: “I certificatori appartengono a professioni ordinistiche o sono figure di comprovata esperienza che dovranno registrarsi presso il Ministero del lavoro. La loro terzietà è comunque sostenuta da un impianto sanzionatorio adeguato a prevenire ogni comportamento doloso o anche gravemente colposo”.

 

Sicuramente il tema della semplificazione e razionalizzazione della normativa in materia di salute e sicurezza è correlato anche alle specificità della struttura produttiva italiana che è fatta in gran parte di piccole e medie aziende e non solo da grandi aziende ben strutturate organizzativamente. Il vostro disegno di legge tiene conto delle differenti realtà aziendali?

 

M.S.: “Sì, come ho detto, è un criterio fondamentale. Basti pensare agli studi professionali che sono spesso paragonabili ad abitazioni o sono addirittura contemporaneamente “casa e bottega”.

 

Quale sarà l’iter del vostro disegno di legge? Quanto tempo passerà prima che sia discusso in Commissione o in Senato?

 

M.S.: “Premesso che siamo prossimi alla conclusione della legislatura, il ddl è stato presentato con lo scopo di aprire una discussione tecnica, culturale, politica sui modi con cui rendere ogni ambiente di lavoro più sicuro e contestualmente liberare l’impresa dalla oppressione burocratica quando non necessaria. Solo dopo un adeguato approfondimento di questa ipotesi di lavoro sarà possibile, nella prossima legislatura, avviare l’iter legislativo”.

 

Infine ci può raccontare la sua attuale esperienza di Presidente della 11ª Commissione permanente su Lavoro e previdenza sociale? Sono spesso affrontati dalla Commissione i temi relativi alla salute e sicurezza sul lavoro?

 

M.S.: “La salute e sicurezza sul lavoro è un parametro immanente nella legislazione lavoristica. Basti pensare alle complessità che derivano dalla crescente diffusione del lavoro agile. Non si tratta di un segmento del mercato del lavoro ma del cambiamento diffuso di tutti i lavori con l’impiego delle nuove tecnologie digitali ed il progressivo ridimensionamento della postazione fissa e dell’orario. Il Testo unico riunisce la pesante regolazione che si è via via sedimentata nel contesto della seconda rivoluzione industriale della quale ora vengono meno i presupposti della grande fabbrica e della produzione seriale. La mia esperienza mi induce a ritenere che dovremo sempre più ridimensionare la fonte legislativa perché rigida in favore della più duttile normazione secondaria, soprattutto tecnica, e della ancor più duttile contrattazione in particolare nella dimensione aziendale. Tutto ciò anche in materia di salute e sicurezza”.

 

 

 

Senato della Repubblica, Disegno di legge n. 2489 d’iniziativa dei Sen. Maurizio Sacconi, Serenella Fucksia e Johann Karl Berger, “ Disposizioni per il miglioramento sostanziale della salute e sicurezza dei lavoratori” (formato PDF, 1.14 MB).

 

 

Altri articoli di PuntoSicuro su recenti proposte e disegni di legge in materia di sicurezza:

– Le proposte in materia di sicurezza: il reato di omicidio sul lavoro;

– Un disegno di legge per ridisegnare la normativa sulla sicurezza;

– Un disegno di legge per introdurre il reato di omicidio sul lavoro

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Linee di indirizzo sulla movimentazione manuale di carichi

Un tavolo di lavoro nazionale ha prodotto un documento con linee di indirizzo per l’applicazione del D. Lgs. 81/2008 e per la valutazione e gestione del rischio connesso alla movimentazione manuale di carichi.
 

Roma, 22 Feb – Se con movimentazione manuale dei carichi spesso ci si riferisce alla usuale attività manuale di sollevamento e/o abbassamento di carichi, in realtà con questa tipologia di movimentazione si deve intendere qualsiasi attività che comporti le operazioni di trasporto o di sostegno di un carico per opera di uno o più lavoratori, comprese, ad esempio, le azioni del sollevare, deporre, spingere, tirare, portare o spostare un carico. Attività che sono diffuse in un grande numero di comparti e settori lavorativi, ad esempio: agricoltura; edilizia; cave e miniere; trasporti e traslochi; carico e scarico di merci e macchine industriali; magazzinaggio e facchinaggio; assistenza a bambini, anziani e disabili; assistenza a pazienti nelle strutture sanitarie; attività nei cimiteri; lavoro nei porti.

 

E proprio in ragione della diffusione della movimentazione manuale dei carichi e delle possibili conseguenze sulla salute dei lavoratori, è positivo che per la prima volta un piano nazionale, il Piano Nazionale della Prevenzione 2014 – 2018, preveda un’attenzione significativa per la prevenzione delle malattie professionali, con particolare riferimento anche alle malattie dell’apparato muscolo scheletrico (MSK). Attenzione che si è concretizzata anche con la costituzione di un tavolo di lavoro nazionale, al quale partecipano le Regioni Puglia, Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Sardegna, Toscana, Veneto, Umbria e l’INAIL, con il coordinamento di Giorgio Di Leone (Regione Puglia).

 

A darne notizia e a fornire alcune informazioni sul tavolo di lavoro è una nota della Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione ( SNOP), che ricorda come a fronte delle “numerose iniziative avviate in molte Regioni negli anni scorsi per la prevenzione delle patologie MSK”, il principale obiettivo del tavolo di lavoro nazionale è quello di “definire strumenti e strategie comuni che consentano di avviare politiche di prevenzione complessive coerenti e condivise”.

Da questo punto di vista il primo risultato ottenuto dal tavolo di lavoro è stata l’approvazione da parte del Coordinamento Interregionale (CIP) del documento dal titolo “Piano Nazionale della Prevenzione 2014-2018: linee di indirizzo per l’applicazione del titolo VI e all. XXXIII° del D. Lgs. 81/08 e per la valutazione e gestione del rischio connesso alla Movimentazione Manuale di Carichi (MMC)”. Un documento che raccoglie linee di indirizzo che “tutte le Regioni dovranno adottare e che consentiranno un’interpretazione univoca sul territorio nazionale di un tema complesso come la movimentazione manuale dei carichi”, in linea con quanto indicato dal D.Lgs. 81/2008 e dalle norme ISO o UNI ISO 11228-1 – 2 – 3, UNI EN 1005-2 e ISO TR 12295.

 

Il tavolo nazionale MSK sta poi predisponendo altri documenti e strumenti di lavoro da sottoporre all’approvazione del Coordinamento Interregionale:

– “le linee di indirizzo per il sovraccarico biomeccanico degli arti superiori;

– le linee di indirizzo per la movimentazione assistita dei pazienti ospedalizzati;

– una scheda di autovalutazione aziendale sull’applicazione delle norme per la prevenzione dei rischi ergonomici, ad uso dei datori di lavoro e loro consulenti;

– una scheda di valutazione delle valutazioni dei rischi per quanto attiene i rischi di natura ergonomica, ad uso degli operatori degli organi di vigilanza delle ASL;

– una scheda di sopralluogo nelle aziende, mirata al rischio ergonomico, ad uso degli operatori degli organi di vigilanza delle ASL”.

 

Il documento “Piano Nazionale della Prevenzione 2014-2018: linee di indirizzo per l’applicazione del titolo VI e all. XXXIII° del D. Lgs. 81/08 e per la valutazione e gestione del rischio connesso alla Movimentazione Manuale di Carichi (MMC)” si compone in particolare di due parti.

 

La prima parte (Capitoli 1, 2 e 3) è “destinata a tutti i potenziali utilizzatori interessati agli aspetti generali ed introduttivi alla valutazione e gestione del rischio connesso alla Movimentazione Manuale di Carichi (MMC)”.

La seconda parte (Allegato) è invece “destinata ad utilizzatori esperti che si trovino nella necessità di operare, con i metodi suggeriti nelle norme tecniche di riferimento, una valutazione dettagliata del rischio anche in situazioni in cui la movimentazione manuale risulti complessa. L’utilizzazione di questa seconda parte è strettamente legata alla conoscenza della prima parte”.

E il documento sottolinea che i contenuti riguardano prevalentemente gli aspetti di valutazione e gestione del rischio, mentre “gli aspetti relativi alla sorveglianza sanitaria dei lavoratori esposti a MMC saranno più dettagliatamente esaminati in un documento separato relativo alla sorveglianza sanitaria di tutte le patologie muscoloscheletriche da sovraccarico biomeccanico”.

 

Rimandando a futuri articoli di approfondimento del documento del tavolo nazionale MSK, ci soffermiamo oggi su alcune informazioni introduttive del documento sulla movimentazione manuale di carichi e sul sovraccarico biomeccanico sul rachide.

 

Il documento ricorda che l’uso della “forza manuale per trasferire oggetti o persone (es. pazienti non autosufficienti; disabili motori; bambini negli asili e nella scuola materna) è tra gli elementi di possibile sovraccarico meccanico del rachide dorso-lombare e della spalla”. Si indica poi che durante le operazioni di movimentazione manuale, “anche in funzione della postura assunta, del peso e delle dimensioni dell’oggetto movimentato, del tragitto che l’oggetto deve compiere, delle caratteristiche antropometriche e di genere del soggetto, si determinano, tra le altre, forze compressive o ‘di taglio’ sulle strutture del rachide lombare (dischi intervertebrali, limitanti vertebrali, articolazioni interapofisarie) che singolarmente, e ancor più se ripetute e cumulate, possono condurre a microlesioni e lesioni delle strutture stesse”.

 

Inoltre è stato calcolato e misurato che “il sollevamento di un carico di circa 25 Kg da terra (a schiena flessa) fino all’altezza del torace, può comportare forze di compressione sul disco lombare superiori a 400 Kg. Nel rachide lombare, la struttura più sensibile a queste compressioni assiali si è dimostrata essere la cartilagine limitante del piatto vertebrale. È in tale struttura che, infatti, più facilmente avvengono microfratture per carichi assiali elevati”. E se si considera come “la limitante vertebrale sia struttura essenziale per la nutrizione passiva del disco, si può capire come queste microfratture rappresentino il primo passo verso la sua possibile degenerazione”.

 

D’altra parte – continua il documento – “anche il disco, dopo la cartilagine, si è dimostrato sensibile a forze assiali, tangenziali e rotazionali elevate, che possono indurre micro-fissurazioni nelle fibre concentriche dell’anulus fibroso all’interno delle quali migra in parte il materiale del nucleo polposo. I carichi di rottura per le limitanti vertebrali (studiati su reperti autoptici) sono in media pari a 600-700 Kg in soggetti maschi di età inferiore ai 40 anni e di 400-500 Kg per soggetti maschi di 40-60 anni. Sono state verificate condizioni di rottura anche per valori intorno a 300 Kg nelle classi di età superiore”.

 

Mentre riguardo alle differenze di genere, si indica che i limiti di rottura nei soggetti di sesso femminile “sono stati stimati essere in media inferiori del 17% rispetto ai maschi”.

 

Nell’introduzione al documento si indica, infine, che proprio sulla scorta di queste nozioni e dei risultati di numerosi studi di fisiopatologia e di biomeccanica dell’apparato locomotore e di epidemiologia, è stato possibile “stabilire orientamenti e criteri utili sia per valutare i gesti lavorativi di movimentazione manuale di carichi, fissando veri e propri valori limite, sia a indirizzare le eventuali azioni di prevenzione”.

 

Concludiamo segnalando che il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta ulteriori indicazioni sulla normativa, sulla identificazione del pericolo e sulla valutazione del rischio.

 

 

 

 

“ Piano Nazionale della Prevenzione 2014-2018: linee di indirizzo per l’applicazione del titolo VI e all. XXXIII° del D. Lgs. 81/08 e per la valutazione e gestione del rischio connesso alla Movimentazione Manuale di Carichi (MMC)”, documento del tavolo di lavoro nazionale MSK a cui partecipano le Regioni Puglia, Abruzzo, Campania, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Liguria, Lombardia, Marche, Sardegna, Toscana, Veneto, Umbria e l’INAIL (formato PDF, 1.65 MB).

 

 

Tiziano Menduto

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Sicurezza attrezzature: obblighi di controllo, verifica e formazione

Un intervento presenta gli obblighi del datore di lavoro di controllo, verifica e formazione in materia di sicurezza delle attrezzature. Esempi pratici di gestione degli adempimenti relativi al parco macchine e ai mezzi e attrezzature dei fornitori.
 

Milano, 14 Mar – Il Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro ( D.Lgs. 81/2008) prescrive che il Datore di Lavoro di un’impresa ha l’obbligo (art. 71, comma 1) di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature conformi ai requisiti di sicurezza di cui all’articolo 70 dello stesso decreto, “idonee ai fini della salute e sicurezza e adeguate al lavoro da svolgere o adattate a tali scopi che devono essere utilizzate conformemente alle disposizioni legislative di recepimento delle Direttive comunitarie”.

 

A ricordarlo è un intervento sul tema degli obblighi dei datori di lavoro in materia di sicurezza delle attrezzature che si è tenuto al convegno dal titolo “ L’8° Rapporto Inail sulla Sorveglianza del mercato per la direttiva macchine” organizzato da Inail e Assolombarda (Milano, 1 e 2 dicembre 2015).

 

L’intervento “ Il datore di lavoro: obblighi di controllo, verifica e formazione. L’organizzazione dei controlli da parte del Datore di Lavoro”, a cura di Francesca Ferrocci (ANCE), segnala che – sempre ai sensi dell’Art. 71 – il datore di lavoro deve prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano:

– “installate ed utilizzate in conformità alle istruzioni d’uso;

– oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 70 e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso e libretto di manutenzione;

– assoggettate alle misure di aggiornamento dei requisiti minimi di sicurezza stabilite con specifico provvedimento regolamentare adottato in relazione alle prescrizioni” di cui all’articolo 18 del Testo Unico. Inoltre deve prendere le misure necessarie affinché siano curati “la tenuta e l’aggiornamento del registro di controllo delle attrezzature di lavoro per cui lo stesso è previsto”.

Il datore di lavoro – “secondo le indicazioni fornite dai fabbricanti ovvero, in assenza di queste, dalle pertinenti norme tecniche o dalle buone prassi o da linee guida” – provvede anche affinché:

  1. a) le attrezzature di lavoro la cui sicurezza dipende dalle condizioni di installazione siano sottoposte a un controllo iniziale(dopo l’installazione e prima della messa in esercizio) e ad un controllo dopo ogni montaggio in un nuovo cantiere o in una nuova località di impianto, al fine di assicurarne l’installazione corretta e il buon funzionamento;
  2. b) le attrezzature soggette a influssi che possono provocare deterioramenti suscettibili di dare origine a situazioni pericolose siano sottoposte: ad interventi di controllo periodici, secondo frequenze stabilite in base alle indicazioni fornite dai fabbricanti, ovvero dalle norme di buona tecnica, o in assenza di queste ultime, desumibili dai codici di buona prassi; ad interventi di controllo straordinarial fine di garantire il mantenimento di buone condizioni di sicurezza, ogni volta che intervengano eventi eccezionali che possano avere conseguenze pregiudizievoli per la sicurezza delle attrezzature di lavoro, quali riparazioni trasformazioni, incidenti, fenomeni naturali o periodi prolungati di inattività;
  3. c) gli interventi di controllo di cui alle lettere a) e b) sono volti ad assicurare il buono stato di conservazione e l’efficienza a fini di sicurezza delle attrezzature di lavoro e devono essere effettuati da persona competente”.

Oltre alle verifiche da effettuarsi internamente all’azienda il datore di lavoro sottopone le attrezzature di lavoro, riportate nell’Allegato VII (Verifiche di attrezzature), a “ verifiche periodiche volte a valutarne l’effettivo stato di conservazione e di efficienza ai fini di sicurezza, con la frequenza indicata nel medesimo Allegato”.

Il datore di lavoro di una impresa dovrà, pertanto, “monitorare le scadenze delle verifiche e manutenzioni del proprio parco macchine/attrezzature, effettuando i controlli entro i termini previsti e tenendo a disposizione degli enti preposti al controllo la documentazione attestante l’avvenuta verifica con esito positivo”.

 

L’intervento si sofferma poi su un esempio pratico, un case study, relativo, ad esempio, alla gestione degli adempimenti relativi al parco macchine nella impresa Ghella S.p.A, un’impresa di costruzioni di grandi opere pubbliche.

 

L’impresa ha deciso di “adottare un sistema di gestione del proprio parco macchine e attrezzature informatizzato, un particolare software calato sulle specifiche esigenze della società, tale da consentire:

– la gestione dell’anagrafica dell’intero parco macchine/attrezzature della società, in Italia e nel mondo, garantendo la disponibilità della documentazione delle stesse in qualsiasi momento;

– la pianificazione delle manutenzioni ordinarie e straordinarie e delle verifiche periodiche, secondo le previsioni della normativa vigente e del produttore;

– il monitoraggio delle scadenze, garantendo l’effettuazione delle verifiche programmate prima della data ultima disponibile e, quindi, nessun fermo per l’operatività;

– la gestione degli ordini connessi agli interventi di manutenzione e verifica, anche da un punto di vista economico;

– una elaborazione statistica degli interventi, al fine di individuare per le eventuali problematiche riscontrate le soluzioni atte a prevenire il verificarsi dei guasti o di incidenti”.

E dunque, come ricordato nell’intervento, il software utilizzato consente di “tenere sotto controllo e monitorare costantemente l’adempimento degli obblighi previsti dalla normativa vigente in materia di controlli sulle macchine e attrezzature di lavoro e, in particolare:

– gestire e archiviare i moduli di registrazione dei risultati dei controlli ex art.71 comma 8 del D. Lgs. 81/08 s.m.i., così come previsto dal comma 9 del medesimo articolo;

– consentire la pronta disponibilità della documentazione di riferimento di ogni singolo mezzo/attrezzatura, tra i quali sono compresi anche i documenti attestanti l’esecuzione dell’ultimo controllo con esito positivo, in ogni Unità produttiva dell’azienda”.

 

L’intervento, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta poi indicazioni e immagini relative al funzionamento del software, e indica che la società si è organizzata “in modo tale da far sì che sia il personale addetto alla conduzione dei mezzi che quello operante all’interno delle officine, sia in possesso di formazione e addestramento tali da consentire la piena e consapevole esecuzione dei controlli in esame”. Nell’intervento sono riportati, più nel dettaglio, i piani formativi del personale addetto alle attività di controllo.

 

L’intervento si conclude segnalando che l’impresa Ghella si è occupata anche della gestione e il monitoraggio degli adempimenti relativi ai mezzi e attrezzature dei fornitori, con particolare riferimento all’esempio di un cantiere relativo all’ampliamento della Salerno-Reggio Calabria.

 

Si indica che nell’ambito dei lavori in oggetto, “al fine di garantire il pieno rispetto delle previsioni contrattuali e del protocollo di legalità in essere, è stata implementata una piattaforma informatizzata che consente di tenere sotto controllo i principali adempimenti connessi all’esecuzione dei lavori, tra cui rientra anche la gestione degli adempimenti in capo a ciascun soggetto presente in cantiere”.

In particolare, focalizzando l’attenzione sui controlli legati ai mezzi ed attrezzature, “la piattaforma consente:

– la gestione dell’anagrafica di tutti i mezzi/attrezzature principali presenti in cantiere, garantendo la pronta disponibilità della documentazione di sicurezza necessaria a consentire la permanenza in cantiere degli stessi;

– il monitoraggio delle scadenze degli adempimenti connessi alle verifiche periodiche dei mezzi stessi, con particolare riferimento agli apparecchi di sollevamento;

– nel caso di documenti in scadenza, l’invio all’impresa interessata di una richiesta di trasmissione della documentazione attestante l’avvenuto rinnovo delle verifiche con esito positivo, con un congruo anticipo rispetto alla data di effettiva scadenza”.

 

 

“ Il datore di lavoro: obblighi di controllo, verifica e formazione. L’organizzazione dei controlli da parte del Datore di Lavoro”, a cura di Francesca Ferrocci (ANCE), intervento al convegno “L’8° Rapporto Inail sulla Sorveglianza del mercato per la direttiva macchine” (formato PDF, 2.59 MB).

 

 

Tiziano Menduto

 

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Fonte: puntosicuro.it