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Attività in autostrada: le istruzioni operative per la sicurezza

Un documento riporta linee di indirizzo per l’esecuzione in sicurezza di attività in autostrada in presenza di traffico veicolare. La segnalazione con sbandieramento e le istruzioni operative per marcia e manovre in corsia di emergenza o banchina.
Roma, 6 Feb – Le attività in autostrada in presenza di traffico, con riferimento al D. Lgs. 30 aprile 1992 n. 285 e alla normativa vigente in materia di segnaletica, “devono essere sempre opportunamente presegnalate al fine di: preavvisare l’utenza della presenza di lavori; indurre una maggiore prudenza; consentire regolare manovra di rallentamento della velocità dei veicoli sopraggiungenti”. E la presegnalazione “dovrà essere effettuata, a seconda del tipo di attività e delle condizioni di traffico, mediante l’utilizzo di una delle seguenti tipologie di segnalazione o di una combinazione delle stesse:

– sbandieramento;

– moviere meccanico;

– pannelli a messaggio variabile (PMV);

– segnaletica temporanea di cui al DM del 10/07/2002 – Disciplinare tecnico relativo agli schemi segnaletici, differenziati per categoria di strada, da adottare per il segnalamento temporaneo;

– dispositivi di segnalazione visiva supplementare (es.: giro-faro) installati sul veicolo (quest’ultima tipologia di presegnalazione solo per le attività di breve durata)”.

 

A segnalarlo sono le “Linee di indirizzo per l’esecuzione in sicurezza di attività in autostrada in presenza di traffico veicolare”, a cura di FISE ACAP(Associazione delle Società Concessionarie di Autostrade Private), elaborate per “favorire il miglioramento continuo della sicurezza dei lavoratori” attraverso la definizione dei “criteri minimi da adottarsi rivolti ad integrare le azioni di prevenzione nel quadro più generale della valutazione e riduzione dei rischi professionali”.

 

Il documento indica che lo sbandieramento per la segnalazione di inizio intervento è effettuato “facendo oscillare lentamente la bandiera: l’oscillazione deve avvenire orizzontalmente, all’altezza della cintola, senza movimenti improvvisi, con cadenza regolare, stando sempre rivolti verso il traffico, in modo da permettere all’utente in transito di percepire l’attività in corso ed effettuare una regolare e non improvvisa manovra di rallentamento”.

Inoltre presegnalazione “deve durare il minor tempo possibile ed i lavoratori che la eseguono si devono portare, appena possibile, a valle della segnaletica installata o comunque al di fuori di zone direttamente esposte al traffico veicolare”.

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Il documento si sofferma poi sulla scelta del punto di inizio dell’attività di sbandieramento e indica che al fine di consentire un graduale rallentamento è opportuno che la segnalazione “venga effettuata a debita distanza dalla zona dove inizia l’interferenza con il normale transito veicolare, comunque nel punto che assicura maggiore visibilità e maggiori possibilità di fuga in caso di pericolo”.

In particolare per l’esecuzione in sicurezza delle attività di sbandieramento “gli operatori devono:

– scendere, se possibile, dal veicolo dal lato non esposto al traffico veicolare;

– iniziare subito la segnalazione;

– camminare sulla banchina o sulla corsia di emergenza fino a portarsi in posizione sufficientemente anticipata rispetto al punto di intervento in modo da consentire agli utenti un ottimale rallentamento;

– segnalare con lo sbandieramento fino a che non siano cessate le esigenze di presegnalazione;

– utilizzare dispositivi luminosi o analoghi dispositivi se l’attività viene svolta di notte o in condizioni di scarsa visibilità”.

 

Rimandiamo alla lettura integrale del documento che presenta specifiche istruzioni operative sullo sbandieramento e affrontiamo invece il tema della marcia e delle manovre in corsia di emergenza o banchina.

 

Infatti le fermate, la marcia e qualsiasi manovra sulla corsia di emergenza o sulle banchine “sono effettuate a velocità moderata previa attivazione dei dispositivi di segnalazione supplementari del veicolo. Tutte le manovre sono eseguite in modo tale da generare il minimo ingombro possibile e, in corsia di emergenza, esclusivamente all’interno della striscia continua e per limitate percorrenze. Nel caso in cui la marcia sulla corsia di emergenza avvenga in presenza di veicoli in coda, si deve prestare particolare attenzione alla eventuale presenza di pedoni discesi dai veicoli in coda e ad eventuali veicoli che si immettono sulla corsia di emergenza”.

Riportiamo, in questo caso, l’apposita istruzione operativa per la marcia in corsia di emergenza, ricordando che la marcia in corsia di emergenza è “consentita, solo per effettive esigenze di servizio, al personale dotato di apposita autorizzazione, previa adozione delle cautele necessarie alla sicurezza propria e del traffico”.

L’istruzione operativa:

– “azionare i dispositivi di sicurezza/segnalazione di cui è dotato il veicolo;

– effettuare la manovra esclusivamente all’interno della striscia continua;

– percorrere la corsia di emergenza a velocità moderata;

– azionare, se in dotazione al mezzo, il pannello a messaggio variabile con apposito pittogramma e le frecce di emergenza;

– prestare attenzione ai veicoli che si immettono impropriamente (e non) nella corsia di emergenza;

– prestare attenzione ad eventuali veicoli fermi o ostacoli presenti in corsia d’emergenza;

– prestare attenzione ai pedoni scesi dai veicoli eventualmente in coda”.

 

Le linee di indirizzo si soffermano anche sulla retromarcia in corsia di emergenza che, anche in questo caso, è consentita, “solo per effettive esigenze di servizio, al personale dotato di apposita autorizzazione, previa adozione delle cautele necessarie alla sicurezza propria e del traffico e rispettando le istruzioni di sicurezza di seguito riportate:

– “azionare i dispositivi di sicurezza/segnalazione di cui è dotato l’automezzo;

– effettuare la manovra esclusivamente all’interno della striscia continua;

– effettuare la manovra a velocità ridotta;

– fermarsi al sopraggiungere di altri veicoli o in presenza di ostacoli;

– azionare, se in dotazione al mezzo, il pannello a messaggio variabile con apposito pittogramma (in base all’evento da segnalare);

– prestare attenzione ai veicoli che si immettono impropriamente (e non) nella corsia di emergenza;

– prestare attenzione ai pedoni scesi da veicoli eventualmente in coda;

– in mancanza di avvisatore acustico di retromarcia sul veicolo con presenza di operatori a terra preavvisare la manovra tramite clacson del mezzo o comunicazione radio”.

 

Concludiamo riportando, infine, anche l’istruzione operativa relativa alla inversione di marcia e attraversamento sui piazzali di stazione (“consentita, solo per effettive esigenze di servizio, al personale dotato di apposita autorizzazione, previa adozione delle cautele necessarie alla sicurezza propria e del traffico, rispettando le istruzioni di sicurezza di seguito riportate”):

– “azionare i dispositivi di sicurezza/segnalazione di cui è dotato l’automezzo;

– posizionarsi in prossimità della segnaletica orizzontale di separazione dei due sensi di marcia;

– verificare che non ci siano veicoli in arrivo o che siano sufficientemente lontani;

– dare sempre la precedenza ai veicoli in transito sul piazzale”.

 

 

FISE ACAP, “ Linee di indirizzo per l’esecuzione in sicurezza di attività in autostrada in presenza di traffico veicolare”, versione 2015 (formato PDF, 1,31 MB).

 

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Prevenire il rischio allergologico da animali di laboratorio

Una nuova pubblicazione Inail affronta il tema delle allergie da animali da laboratorio. Il rischio allergologico, gli ambienti degli stabulari, i soggetti esposti, la formazione, l’anamnesi e le strategie di gestione del rischio.
 

Roma, 6 Feb – Nell’ambito della valutazione dei rischi, colonna portante del sistema prevenzionale normato dal Decreto legislativo 81/2008, il rischio allergologico di origine biologica rappresenta un rischio che può essere presente in numerosi ambienti lavorativi, ma di cui non sempre esiste, tra i lavoratori e gli operatori, adeguata consapevolezza.

Per esempio in Italia non è ancora sufficientemente riconosciuto il rischio allergologico da LAA (Laboratory Animal Allergy) e non sono state fornite – a differenza di altri paesi come il Regno Unito e gli USA – specifiche informazioni scientifiche e buone prassi. E tecnici degli stabulari, veterinari, ricercatori sono tra le figure professionali, presenti e operanti negli ambienti degli stabulari, che sono soggetti alle allergie da animali da laboratorio.

Ricordiamo che gli “stabulari” sono strutture apposite che ospitano gli animali da laboratorio utilizzati nella ricerca scientifica e che, a seconda della tipologia della struttura, hanno un diverso regime autorizzativo (Ministero della salute o Comune) e di controllo istituzionale (Ministero della salute o Asl territoriale).

 

Per diffondere tra tutti gli attori della prevenzione la conoscenza di questo rischio allergologico e delle misure di controllo, prevenzione e protezione da mettere in atto per ridurre al minor livello possibile le fonti di esposizione agli allergeni animali maggiormente rappresentativi negli stabulari, il Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’ Inail ha recentemente realizzato il documento “Allergia da animali da laboratorio (LAA) – Manuale informativo”. Un manuale che sottolinea – come evidenziato nella presentazione – che la gestione del rischio allergologico deve essere attuata “attraverso un sistema di controllo identificato come APC (Allergy program control) che prevede la valutazione, l’identificazione, il monitoraggio, il controllo di tutti i fattori esogeni ed endogeni e delle misure metodologiche da mettere in atto nell’ambito di ampie strategie e programmi il cui fine ulteriore è di disporre di risorse tecnologiche e strumentali efficaci per il trasferimento di conoscenze e informazioni”.

 

Il manuale indica dunque che nell’ambito dei rischi occupazionali di natura allergica bisogna annoverare il rischio derivante dall’esposizione ad animali da laboratorio che “può causare la cosiddetta allergia da animali da laboratorio (LAA – Laboratory animal allergy)”.

Si ricorda poi che gli stabulari rappresentano ambiti occupazionali regolamentati da normative specifiche e che il d.lgs. 26/2014 e il d.lgs. 81/2008 (Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro) “rappresentano regolamenti normativi che non possono e non devono essere scissi ai fini della tutela del benessere e della salute animale e umana”.

 

Segnaliamo, a questo proposito, che “la realizzazione e il mantenimento delle condizioni tecniche/strutturali degli stabulari, come anche la tutela del benessere animale, devono rispondere ai requisiti specifici previsti dalla normativa italiana ed europea”. E in Italia, il punto di riferimento legislativo per chiunque “intenda effettuare attività di ricerca con l’utilizzo di animali da laboratorio è rappresentato dal d.lgs. 26/2014, entrato in vigore il 4 marzo 2014, recependo così la dir. 2010/63/UE. Il d.lgs. 26/2014 ha sostituito il d.l. 116/1992”. Inoltre per quanto riguarda la sistemazione e la tutela degli animali impiegati nella sperimentazione scientifica, “tutti i paesi europei, compresa l’Italia, fanno riferimento alla raccomandazione europea 2007/526/CE. Gli stessi requisiti, infatti, si ritrovano anche nell’Allegato III della direttiva europea e della normativa italiana”.

 

Si indica poi che il rischio allergologico, a differenza di altre tipologie di rischi, presenta “alcune peculiarità derivanti dalla maggiore difficoltà di identificare, valutare, quantificare e quindi prevenire l’esposizione dovuta al concorrere di molteplici fattori coinvolti nella ezio-patogenesi delle allergie in generale e della LAA in particolare. Ulteriori criticità nello studio della LAA sono rappresentate dal ridotto numero di allergeni identificati e caratterizzati delle specie animali stabulate, delle fonti degli allergeni, delle relazioni dose/risposta”.

 

Sono riportati nel manuale, rilevati da vari studi internazionali, alcuni aspetti fondamentali relativi alla LAA:

– “gli allergeni e le fonti derivanti dalle specie animali stabulate: le urine dei topi e dei ratti maschi sono le principali fonti di allergeni e altre fonti sono rappresentate da derivati dermici, peli e saliva; il liquido lacrimale dei conigli rappresenta la loro principale fonte di allergeni;

– le categorie di lavoratori principalmente esposti: gli addetti agli stabulari, i tecnici, i ricercatori, i veterinari che sono a diretto contatto con gli animali stabulati sono a maggior rischio di esposizione a LAA;

– le strategie di gestione del rischio, ovvero la valutazione e le misure di prevenzione per la riduzione del rischio da esposizione: devono essere realizzate adeguate condizioni di stabulazione con sistemi di contenimento che tengano conto del benessere degli animali, della operatività nella ricerca, della tutela della salute dei lavoratori;

– l’anamnesi clinica-occupazionale dei lavoratori attraverso la compilazione di specifici questionari: la conoscenza delle varie sintomatologie/patologie di ciascun lavoratore, quali congiuntivite, rinite, asma, eczema, che compaiono entro i primi tre anni dall’inizio dell’attività lavorativa, della storia occupazionale pregressa e attuale, dell’informativa riguardante l’esposizione in ambienti di vita quali la presenza di animali domestici, rappresenta una fonte di informazioni necessarie a contribuire alla tutela della salute dei lavoratori;

– l’informazione, la formazione, l’addestramento, la comunicazione attraverso varie modalità e strumenti: la conoscenza delle varie modalità di esposizione agli allergeni, diretta e/o indiretta, nell’ambiente di lavoro e di vita, delle misure di controllo, di prevenzione e comportamentali da mettere in atto nell’ambiente di lavoro e di vita, del proprio profilo immunologico e della reattività a specifici allergeni fornisce informazioni sulle caratteristiche essenziali per una partecipazione attiva nell’ambito della gestione del rischio allergologico”.

 

Rimandando alla lettura di questo manuale, che affronta diversi aspetti riguardanti la LAA, con particolare riferimento alla stabulazione di topi e ratti, riprendiamo alcune indicazioni relative alla importanza, nella stima del rischio e nella pianificazione e implementazione delle misure di prevenzione e protezione, della individuazione dei lavoratori con maggiore esposizione e in particolare quei lavoratori suscettibili e/o con storia pregressa di allergia di vario tipo.

 

E la tutela dei lavoratori potenzialmente esposti ad allergeni animali negli stabulari “deve quindi essere attuata attraverso strategie di controllo e prevenzione che tengano conto della valutazione del rischio e delle misure finalizzate alla riduzione/eliminazione del rischio stesso. È necessario predisporre e attuare misure tecniche, organizzative, procedurali, comportamentali che tengano conto delle caratteristiche strutturali degli stabulari e quindi del contenimento fisico degli animali e degli allergeni da essi derivati, delle misure di prevenzione e protezione (MPP) utilizzate dai LAWs” (Laboratory animal workers).

Ad esempio l’adozione dei DPI quali “copriscarpe, camici, mascherine, occhiali protettivi o visiera, copricapo e guanti monouso, devono contribuire a tutelare la salute dei lavoratori a contatto diretto e/o indiretto con gli allergeni da animali da laboratorio”. E, come già indicato, la compilazione di “questionari finalizzati alla conoscenza dell’anamnesi clinica e occupazionale dei lavoratori rappresenta uno strumento valido per l’individuazione dei soggetti suscettibili, così come la valutazione delle suscettibilità sierologiche attraverso metodologie analitiche specifiche. La possibilità di attuare visite mediche preventive periodiche in lavoratori esposti ad allergeni derivanti da animali da laboratorio rappresenta un ulteriore strumento da utilizzare nella valutazione del rischio”.

 

Senza dimenticare, infine, che i lavoratori “devono essere resi consapevoli del potenziale rischio allergologico da LAA e dell’importanza di adottare e rispettare tutte le misure di controllo e prevenzione che non devono necessariamente prevedere, come misura preventiva, l’allontanamento del lavoratore dalla sua mansione”.

 

Riportiamo, in conclusione, l’indice del documento Inail:

 

Introduzione

 

Allergia da animali da laboratorio (LAA)

Normativa per l’utilizzo del modello animale nella ricerca scientifica

Normativa in ambito occupazionale

Metodi per la valutazione della sensibilizzazione allergica

Metodi per la valutazione della presenza ambientale degli allergeni

È possibile prevedere il rischio di sensibilizzazione allergica ad animali da laboratorio in alcune tipologie di soggetti a rischio?

Misure di controllo, prevenzione, protezione

 

Riferimenti normativi

Sitografia

Glossario

Abbreviazioni

Bibliografia

Approfondimenti

Selezione di alcuni lavori scientifici riguardanti la LAA

Alcune informazioni utili sulle procedure da mettere in atto

Procedure suggerite da documenti internazionali

Proposta di gestione della LAA

 

 

 

Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale dell’Inail, “ Allergia da animali da laboratorio (LAA) – Manuale informativo”, con testi di Maria Concetta D’Ovidio, Annarita Wirz, Gennaro Liccardi, Paola Melis, Simona Di Renzi e Maria Cristina Riviello e il coordinamento scientifico di Maria Concetta D’Ovidio (Inail – Dipartimento di medicina, epidemiologia, igiene del lavoro e ambientale), versione 2016, pubblicazione gennaio 2017 (formato PDF, 724 kB).

 

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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L’applicazione del DLgs n. 81/2008 al titolare di un’impresa individuale

Il lavoratore autonomo è tale se presta la sua opera con l’esclusiva applicazione delle proprie energie personali e non anche nel caso in cui, sebbene non dotato di struttura imprenditoriale, adibisca altri soggetti a prestazioni lavorative. Di G.Porreca.
 

 

E’ importante questa sentenza della Corte di Cassazione perché prende in esame il caso di infortunio accaduto nell’ambito di una ditta individuale che, non avendo lavoratori alle proprie dipendenze, si era servita della prestazione di un lavoratore esterno ed è importante altresì perché la suprema Corte ha trovato l’occasione per evidenziare quali sono gli elementi in presenza dei quali si caratterizza la figura di un lavoratore autonomo. Il lavoratore autonomo, ha infatti precisato la stessa Corte nella sentenza, è tale se presta la sua opera con l’esclusiva applicazione delle proprie energie personali e non anche nel caso in cui, sebbene non dotato di una struttura imprenditoriale, adibisca alla prestazione lavorativa altri soggetti perché in tal caso assume invece la veste di un datore di lavoro di fatto.

Alla luce di tali considerazioni la stessa Corte di Cassazione, rigettando il ricorso proposto dal titolare di una ditta individuale, che si era dichiarato equiparato ad un lavoratore autonomo, nei cui confronti come è noto le norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro prevedono ben poche e limitate disposizioni di prevenzione, ha confermata la condanna già inflittagli dal Tribunale, che nella circostanza lo aveva qualificato come datore di lavoro, per avere omesso di adottare le necessarie misure di sicurezza contro la caduta dall’alto, quali parapetti o barriere protettive, in mancanza delle quali si è infortunato mortalmente un soggetto che nel cantiere prestava l’attività lavorativa per suo conto.

 

Il fatto, il ricorso e le decisioni della Corte di Cassazione

Il Tribunale ha condannato il titolare di una ditta individuale alla pena di giustizia avendolo riconosciuto responsabile del reato di cui agli artt. 108 e 159, sub b), del D. Lgs n. 81/2008, per avere omesso di predisporre, in qualità di datore di lavoro, le opere opportune, quali parapetti o barriere protettive, per impedire la caduta nel vuoto di lavoratori addetti al suo cantiere. Il Tribunale aveva rilevato, infatti, che dalla testimonianza di un ispettore del lavoro era emerso che, non avendo l’imputato predisposto le predette misure di sicurezza, un operaio, che stava eseguendo lavori di scavo su di un viottolo a ridosso di una collina, era caduto nel vuoto ed era per tale ragione deceduto.

 

Il titolare della ditta ha proposto ricorso per cassazione deducendo il fatto che lo stesso, rivestendo la sua impresa la forma di ditta individuale, senza lavoratori dipendenti oltre allo stesso titolare, era da equipararsi, con riferimento alle disposizioni di cui al D. Lgs n. 81 del 2008 a un lavoratore autonomo e, pertanto, era da considerarsi soggetto solamente al rispetto di quanto previsto dagli artt. 21 e 26 del medesimo decreto legislativo e non anche alle prescrizioni previste dalle disposizioni di cui alla contestazione rivoltagli.

 

Il ricorso è stato dichiarato inammissibile dalla Corte di Cassazione in quanto considerato manifestamente infondato il motivo posto alla sua base. La stessa in particolare ha considerato destituito di fondamento il presupposto sul quale era stata articolata la linea di difesa dell’imputato secondo la quale lo stesso, data la propria struttura imprenditoriale, non era soggetto agli obblighi riportati dalla disposizione legislativa la cui violazione gli era stata contestata.

 

Infatti, ha fatto osservare la Corte di Cassazione, sebbene corrisponda al vero quanto dedotto in sede di ricorso dall’imputato e cioè che, ai sensi dell’art. 3, comma 11, del D. Lgs. n. 81 del 2008, nei confronti del lavoratore autonomo si applicano solo le disposizioni contenute negli artt. 21 e 26 del citato decreto legislativo, “il principio di cui sopra vale limitatamente alla ipotesi in cui il predetto lavoratore presti la sua opera con la esclusiva applicazione delle proprie energie personali e non anche nel caso in cui il medesimo, sebbene non dotato di una articolata struttura imprenditoriale, adibisca alla prestazione lavorativa altri soggetti, a prescindere dal tipo di rapporto lavorativo in base al quale i medesimi siano stati investiti dei loro compiti”.

 

Ora, nel caso in esame, ha così concluso la Sez. III, era emerso dalla lettura del capo di imputazione, il cui contenuto non è stato contestato dal ricorrente, che egli, in qualità di datore di lavoro responsabile della sicurezza della propria ditta individuale, aveva omesso le opportune cautele per evitare il verificarsi di incidenti sul lavoro al personale operante nel cantiere né alcun rilievo ha avuto il fatto che l’impresa dell’imputato fosse organizzata in forma di ditta individuale posto che la incontestata sua qualificazione come datore di lavoro di terzi lo obbligava alla predisposizione delle opportune misure per la prevenzione degli infortuni causalmente connessi alla svolgimento della prestazione lavorativa.

 

A seguito pertanto della inammissibilità del ricorso la suprema Corte, visto l’art. 616 del codice di procedura penale, ha quindi condannato il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1000,00 in favore della Cassa delle ammende.

 

Gerardo Porreca

 

 

Corte di Cassazione Penale Sezione III – Sentenza n. 33038 del 28 luglio 2016 (u. p. 4 novembre 2015) –  Pres. Franco – Est. Gentili – P.M. Izzo – Ric. C.. – Il lavoratore autonomo è tale se presta la sua opera con l’esclusiva applicazione delle proprie energie personali e non anche nel caso in cui, sebbene non dotato di una struttura imprenditoriale, adibisca alla prestazione lavorativa altri soggetti.

 

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Fonte: puntosicuro.it

 

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Come gestire l’elemento umano nei luoghi di lavoro

Una pubblicazione affronta il tema della gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni e presenta una specifica proposta metodologica. Focus sul processo di attuazione con particolare riferimento al tema della cultura e della struttura organizzativa.
 

Roma, 19 Gen – Ci siamo già soffermati nei mesi scorsi, anche attraverso specifiche interviste, sulla proposta metodologica relativa alla Gestione dell’Elemento Umano nelle Organizzazioni ai fini della Salute e Sicurezza sul Lavoro (HMS-OHS). Una metodologia che può essere intesa come uno strumento operativo per rilevare e risolvere le criticità organizzative (con riferimento al rischio organizzativo) e per migliorare le condizioni di salute e sicurezza dell’elemento umano.

 

E per parlarne abbiamo presentato la pubblicazione della Contarp dell’ Inail – a cura di Paolo Clerici, Annalisa Guercio e Loredana Quaranta – dal titolo “ La gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni per la salute e sicurezza sul lavoro” soffermandoci su vari aspetti che riguardano i problemi organizzativi, l’elemento umano e l’analisi delle organizzazioni.

 

Tuttavia se l’analisi e la rilevazione delle criticità organizzative è un aspetto importante della HMS-OHS, il documento si sofferma ampiamente anche sulla fase di attuazione della metodologia.

 

In particolare si indica che l’attuazione necessita della “definizione di criteri, metodi, procedure e responsabilità per la realizzazione di questi interventi e ha lo scopo di raggiungere risultati funzionali all’HMS-OHS, quali ad esempio:

– “esercitare una gestione sistematica di persone, mezzi e risorse, secondo criteri di efficacia ed efficienza e con particolare riguardo agli aspetti di SSL;

– accrescere la percezione dei rischi e la cultura della prevenzione;

– migliorare le relazioni interpersonali sul lavoro;

– promuovere i comportamenti sicuri;

– limitare e comunque gestire e risolvere i conflitti legati a distorsione dei fini organizzativi”, carenze di leadership, “confusione sui ruoli e sugli obiettivi, contrapposizione dei fabbisogni delle diverse aree dell’organizzazione;

– sviluppare competenze finalizzate ad esercitare i ruoli, in linea con la politica e gli obiettivi definiti nel HMS-OHS e garantire supporto all’orientamento delle attitudini professionali;

– rafforzare il senso di appartenenza anche in presenza di rapporti di lavoro a tempo determinato;

– realizzare un processo comunicativo che consenta di rendere noto a tutti i lavoratori gli obiettivi, le azioni e i piani derivanti dagli impegni contenuti nella politica dell’HMS-OHS”.

 

Il documento si sofferma in particolare su alcuni aspetti della fase di attuazione.

 

Ad esempio riguardo alla cultura organizzativa si segnala che le attività correlate a questo processo “consentono di intervenire sulla condivisione di convinzioni, giudizi, valori e conoscenze che sono alla base della politica dell’organizzazione; nello specifico, l’implementazione di un sistema di relazioni tra i diversi livelli dell’organizzazione, sia in senso verticale che orizzontale, faciliterà la gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni”.

Ed il risultato da raggiungere si delinea in un “potenziamento del senso di appartenenza, nella disponibilità di un supporto alla risoluzione dei problemi e allo sviluppo del personale, in migliori relazioni interpersonali, nel benessere organizzativo, nella promozione di comportamenti sicuri grazie ad un accrescimento della percezione dei rischi e della cultura della prevenzione”.

Con questi obiettivi le attività da portare avanti riguarderanno in particolare “l’individuazione di modalità adeguate per realizzare il coinvolgimento dei lavoratori, pianificando momenti di incontro, confronto collettivo e consultazione preventiva in merito agli aspetti più critici, organizzando riunioni periodiche e gruppi o comitati di analisi e discussione. In funzione delle dimensioni aziendali, l’organizzazione sceglierà le modalità di incontro più idonee, eventualmente suddividendo i lavoratori omogenei per area, reparto, settore, categoria”.

 

Rimandando alla lettura integrale del documento, che si sofferma più ampiamente su questo aspetto, veniamo ad alcuni esempi di indicatori di prestazione del processo “Attuazione”, come riportati in una tabella del documento, relativi alla cultura organizzativa:

– clima organizzativo;

– relazioni interpersonali sul lavoro;

– ricompense/incentivazioni;

– supporto dell’azienda ai lavoratori (servizi, mensa, asili nido, altri benefit aziendali);

– turn over;

– implementazione/certificazione/SGSL;

– certificazione 14000/EMAS, UNI EN ISO 9000; implementazione di un SGI; CSR; codice etico;

– presenza ufficio di gestione RU;

– presenza di regole standardizzate per neoassunti;

– esistenza del consiglio dei lavoratori/rappresentanti dei dipendenti;

– politiche e strategie aziendali chiare e condivise;

– presenza di accordi collettivi;

– livello di appoggio per la risoluzione di conflitti e lo sviluppo personale”.

 

Il documento si sofferma poi sull’aspetto relativo al ruolo nell’organizzazione.

 

Infatti le attività relative a questo processo “consentono di esplicitare le relazioni reciproche di persone, l’impiego dei mezzi, l’allocazione delle risorse e le norme che regolano i rapporti, sulla base dell’assetto organizzativo. Andranno pertanto specificati, condivisi e applicati i meccanismi operativi che governano i processi di decisione, coordinamento, pianificazione e controllo, di valutazione delle performance, di comunicazione e i criteri di ricerca e selezione del personale. Il risultato da raggiungere è l’esercizio di una gestione sistematica di persone, mezzi/strumenti e risorse, secondo criteri di efficacia ed efficienza e con particolare riguardo agli aspetti di HMS-OHS”.

E chiaramente andranno “evidenziate e risolte le situazioni che conducono a distorsione dei fini organizzativi, carenze di leadership, confusione sui ruoli, sugli obiettivi, contrapposizione dei fabbisogni delle diverse aree dell’organizzazione al fine di prevenire i conflitti tra le persone. Gli elementi cruciali da gestire saranno in sostanza i processi e i meccanismi che governano operativamente la dinamica dei ruoli e l’assegnazione ai vari organi aziendali degli obiettivi e delle risorse, nonché i criteri di coordinamento e la specializzazione dei compiti”.

A questo proposito si sottolinea l’importanza di “ufficializzare e formalizzare e divulgare la struttura organizzativa, ossia la modalità di distribuzione di autorità, mansioni e obiettivi tra i vari organismi aziendali, per creare un insieme coordinato di compiti e responsabilità e prevenire i conflitti legati alle situazioni sopra descritte”.

 

In particolare un sistema di gestione dell’ elemento umano nelle organizzazioni dovrebbe “individuare, applicare e monitorare strumenti che limitino e risolvano i conflitti tra strutture, tra singoli membri e tra questi e le figure gerarchicamente superiori, operando sui seguenti aspetti:

– definizione dei principi che determinano la suddivisione e la condivisione del lavoro;

– formalizzazione dei rapporti tra strutture e tra queste e il Datore di Lavoro;

– applicazione dei regolamenti in maniera trasparente ed egualitaria;

– convergenza degli interessi e degli obiettivi secondari in funzione di quelli primari, con particolare riguardo agli obiettivi di SSL;

– adozione di metodi di coordinamento”.

 

Sarà infine necessario “individuare e formalizzare, per i diversi ruoli aziendali, gli aspetti legati a:

– competenza ed esperienza richieste;

– autorità e rapporti gerarchici all’interno delle strutture e tra le diverse strutture aziendali  ;

– mansioni e compiti;

– retribuzioni e sviluppo di carriera”.

 

Ricordiamo, in conclusione, che riguardo alla fase di attuazione il documento si sofferma poi su vari altri aspetti:

– sviluppo di carriera e stabilità lavorativa;

– comunicazione, informazione, consultazione e partecipazione dei lavoratori;

– formazione, consapevolezza e competenza;

– controllo operativo: indicazione di misure e strumenti;

– gestione delle situazioni straordinarie;

– gestione dei cambiamenti;

– gestione documentale;

– gestione dell’esternalizzazione e delle interferenze.

 

 

Inail, “ La gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni per la salute e sicurezza sul lavoro”, pubblicazione realizzata dalla Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione (CONTARP) e a cura di Paolo Clerici, Annalisa Guercio e Loredana Quaranta, edizione 2016, pubblicazione maggio 2016 (formato PDF, 3.13 MB).

 

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Ambienti confinati e DPR 177/2011: si certificano i contratti d’appalto?

Presentiamo la seconda parte dell’intervista a più voci sul tema della certificazione dei contratti negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati secondo il DPR 177/2011. Le risposte di Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini.
 

Brescia, 19 Gen – Ieri PuntoSicuro ha presentato la prima parte di una lunga intervista, realizzata attraverso uno specifico format interattivo, nata con l’obiettivo di fare chiarezza sulle diverse interpretazioni relative alla certificazione dei contratti secondo quanto richiesto dal Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 per le attività negli ambienti sospetti di inquinamento o confinati.

 

Leggi la prima parte dell’intervista “Ambienti confinati: si devono certificare anche i contratti di appalto?”

 

 

Oltre alle certificazioni dei contratti di lavoro è necessario certificare anche i contratti di appalto?

 

Per rispondere a questa domanda e dopo aver presentato un intervento di Massimo Peca (Ispettore tecnico Ministero del lavoro e delle politiche sociali) al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati dal titolo “ La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati”, abbiamo realizzato un’intervista a più voci per raccogliere le opinioni di:

– Massimo Peca (ispettore tecnico del Ministero del lavoro e delle politiche sociali – Direzione territoriale del lavoro – Servizio ispezione del lavoro – Unità operativa vigilanza tecnica – Vicenza) che nell’intervento aveva indicato come necessaria anche la certificazione dei contratti di appalto;

– Carmelo G. Catanoso (Ingegnere, Consulente in materia di Sicurezza sul lavoro e tutela dell’Ambiente, già membro del Gruppo di Lavoro Sicurezza del Comitato Scientifico della Conferenza Nazionale dei Lavori Pubblici c/o Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, collaboratore e autore di varie riviste e libri in materia di sicurezza) che aveva espresso alcune criticità sulla posizione di Massimo Peca;

– Flavia Pasquini (Vice Presidente della Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) che su queste tematiche relative alla certificazione ex DPR 177/2011 si è confrontata in passato all’interno della propria Commissione di Certificazione.

 

Nella prima parte dell’intervista abbiamo pubblicato le risposte (alle domande mie e degli altri interlocutori) di Massimo Peca, ora presentiamo le risposte di Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini.

 

Articolo e intervista a cura di Tiziano Menduto

 

 

La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Massimo Peca:

 

  1. Come può incidere la sola verifica della regolarità del rapporto di lavoro, da lei sostenuta, accertata mediante la procedura di certificazione, sulla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (obiettivo del DPR 177/2011) non considerando l’obbligo previsto dal comma 3 dell’articolo 26 del DLGS 81/2008 (DUVRI/PSC/POS/contratto di appalto e tutto quello che ne consegue nel merito dei contenuti) e la valutazione da effettuare, in particolare, dell'”organizzazione dei mezzi necessari per la realizzazione dell’opera o del servizio” richiesta dalla circolare 48/2004 del MLPS?

 

Carmelo G. Catanoso: Va premesso che per la gestione della sicurezza nei lavori in appalto all’interno dell’azienda o dell’unità produttiva, il datore di lavoro committente è gravato (art. 26 comma 1 del D. Lgs. n° 81/2008), nei confronti degli appaltatori o dei lavoratori autonomi, dagli obblighi di verifica della idoneità tecnico professionale e di informazione riguardo i rischi specifici esistenti nell’ambiente in cui sono destinati ad operare e sulle misure di prevenzione ed emergenza adottate. Inoltre, il successivo comma 2 richiede al datore di lavoro committente, agli appaltatori ed ai subappaltatori di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi nonché di coordinare gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva. La cooperazione e il coordinamento devono essere promossi elaborando il DUVRI.

Naturalmente, visto che si sta parlando di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, quanto appena detto dovrà essere specificatamente modellato sulla particolare e pericolosa tipologia di lavori da eseguire attraverso una contestualizzazione “spinta” del DUVRI.

Pertanto, visto che l’art. 26 si applica ai contratti d’appalto di lavori, servizi e forniture ed ai contratti d’opera, appare evidente che, ad esempio, un appalto per l’esecuzione della sostituzione di un galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio, possa ritenersi “coperto” dalla citata norma, sempre che il datore di lavoro committente, gli appaltatori e/o i subappaltatori intendano adempiere concretamente ad essa, tenendo conto delle specificità del lavoro da eseguire.

Quindi, il vero problema non è far certificare un contratto d’appalto ma adempiere concretamente ad obblighi che la legislazione vigente già prevede.

Quindi, un datore di lavoro committente deve scegliere con oculatezza il proprio appaltatore verificando preventivamente l’idoneità tecnico professionale, dove la sussistenza documentata di tutti i requisiti fissati dal D.P.R. n° 177/2011 occupa, visto il lavoro da effettuare, una parte fondamentale, e poi attuare quanto operativamente richiesto dall’art. 26 comma 1, lett. b) e comma 2. Il tutto deve poi essere consolidato all’interno del DUVRI che dovrà prevedere anche quanto previsto all’art. 3 del D.P.R. n° 177/2011 e dovrà essere contestualizzato in funzione della specifica operazione da eseguire nell’ambiente sospetto d’inquinamento o confinato. La contestualizzazione del DUVRI potrà avvenire con il Permesso di Lavoro che se, ben strutturato e concretamente applicato, prevedrà quanto necessario per eseguire i lavori in sicurezza, ivi compresa la gestione di eventuali emergenze.

Analogo discorso se i lavori che espongono i lavoratori al rischio derivante da attività in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati si debbano svolgere in un cantiere edile o d’ingegneria civile dove, le regole da applicare per il principio di specialità sono quelle del Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008. Qui sarà il CSP a prevedere ed integrare nel PSC le regole previste dal D.P.R. n° 177/2011 mentre toccherà al committente verificare l’idoneità tecnico professionale dell’impresa che eseguirà i lavori anche in riferimento ai requisiti previsti per operare negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati. Sarà poi il CSE a verificarne, sul campo, la concreta applicazione.

Quindi, se le norme oggi vigenti (art. 26 e Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) sono applicate correttamente e compiutamente, l’eventuale certificazione dei contratti di appalto da parte degli organi abilitati alla certificazione (art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003), risulta inutile e costituisce solo un aggravio burocratico. Infatti, se per sostituire il galleggiante indicatore di livello di una vasca interrata antincendio citata nell’esempio, un appaltatore impiega meno di un’ora, rispettando quanto previsto nel Permesso di Lavoro, altrettanto non può dirsi per la certificazione di questo appalto, visto che l’istruttoria ha solo l’obbligo di concludersi e comunicarne l’esito entro 30 giorni dalla presentazione della richiesta e ciò con le conseguenze facilmente immaginabili.

Inutile, poi, segnalare che la maggior parte degli organi abilitati, indicati all’art. 76 del D. Lgs. n° 276/2003, non hanno neanche lontanamente le competenze per effettuare una verifica tecnica su documenti presentati e ciò senza neanche dimenticare che, ad oggi, non esiste uno standard unico che indichi quali debbano essere i documenti tecnici da presentare con la richiesta di certificazione.

In conclusione, si reputa che le norme di legge oggi vigenti, se correttamente e compiutamente applicate, sono ampiamente in grado di rendere superflua la certificazione dei contratti d’appalto, fermo restando, visto quanto oggi previsto dal D.P.R. n° 177/2011, l’obbligo di certificazione del contratto di lavoro se diverso da quello di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Infine, non sarebbe una cattiva idea creare un apposito Albo delle imprese che operano negli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, alla stregua di quanto fatto per l’amianto e la bonifica da ordigni bellici e “normare” seriamente questa tipologia di lavori modificando il D. Lgs. n° 81/2008 con l’introduzione di uno specifico Titolo.

 

Le risposte di Carmelo G. Catanoso alle domande di Flavia Pasquini:

  1. A suo avviso il DPR n. 177/2011 richiede l’obbligatoria certificazione dei soli contratti di subappalto o anche dei contratti di appalto? Perché?

 

Carmelo G. Catanoso: Il D.P.R. n° 177/2011 richiede la certificazione solo nel caso in cui il rapporto di lavoro non sia stato costituito con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato; in questo caso, il regolamento prevede che i relativi contratti di lavoro siano certificati ai sensi del D. Lgs. n° 276/2003. L’oggetto della certificazione è il rapporto di lavoro mentre è solo al comma 2 dell’art. 2 del D.P.R. n° 177/2011, che viene ribadito il divieto, per le attività lavorative in ambienti sospetti di inquinamento o confinati, del ricorso a subappalti, se non autorizzati espressamente dal datore di lavoro committente e certificati ai sensi del Titolo VIII, Capo I, del D. Lgs. n° 276/2003. Su questo argomento è chiara anche la Nota del MLPS n. 37/0011649 del 27/06/2013.

 

  1. A suo parere gli accordi di distacco, le A.T.I., i negozi di affidamento nei Consorzi e i contratti di rete devono essere certificati? E anche i contratti di somministrazione (tra Agenzia e utilizzatore) e i contratti di lavoro in somministrazione (tra Agenzia e lavoratore) devono essere certificati? Perché?

 

Carmelo G. Catanoso: La certificazione, richiesta dal D.P.R. n° 177/2011, riguarda solo i contratti di lavoro diversi da quello subordinato a tempo indeterminato e non altro (ad eccezione dei subappalti). L’obiettivo è chiaro ed è quello di evitare di avere personale “reclutato all’occasione” per operare all’interno di ambienti sospetti d’inquinamento o confinati, non in possesso di adeguate competenze (conoscenze e capacità documentate) e requisiti psicofisici adeguati. Analoga logica c’è dietro la previsione della certificazione del subappalto; si vuole evitare che un’impresa appaltatrice dopo aver acquisito i lavori da svolgersi in ambienti confinati o sospetti d’inquinamento, subappalti gli stessi ad un’altra impresa senza che questa sia in possesso dei requisiti minimi indicati dal D.P.R. n° 177/2011 nonché mezzi, organizzazione, personale per operare in questi particolari e pericolosi ambienti. Ricordo, infine, che per quanto riguarda la verifica dell’idoneità tecnico professionale, esiste una norma di rango superiore (art. 26 comma 1, lett. a) del D. Lgs. n° 81/2008) che già individua precisi obblighi a carico del datore di lavoro committente che appalta lavori all’interno della propria azienda o unità produttiva. Stesso discorso se i lavori in ambienti sospetti d’inquinamento o confinati sono eseguiti all’interno di un cantiere edile o d’ingegneria civile (Capo I del Titolo IV del D. Lgs. n° 81/2008) non solo da un committente che è anche datore di lavoro ma anche da un committente che datore di lavoro non è (art. 90 comma 9 del D. Lgs. n° 81/2008). Infine, vale la pena di ricordare che in questo caso, l’allegato XVII renderebbe superflua anche la certificazione del subappalto, visto che al p. 3 viene chiesto al datore di lavoro dell’impresa affidataria di verificare l’idoneità tecnico professionale del subappaltatore con gli stessi criteri che sono stati utilizzati dal committente nei suoi confronti (p. 1 dell’allegato XVII). In conclusione, le norme esistono già e basterebbe applicarle concretamente e seriamente senza bisogno di aggiungerne altre che, sovrapponendosi alle esistenti creano confusione e forniscono, a chi non ha mai voluto far nulla, un ennesimo alibi per continuare a non fare nulla.

 

 

La risposta di Carmelo G. Catanoso alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

 

Partendo tutti da una stessa normativa, da cosa pensa dipendano le differenze d’opinione e/o interpretative sull’eventuale obbligatorietà della certificazione dei contratti di appalto e subappalto ai sensi del DPR n. 177/2011?

 

Carmelo G. Catanoso: In questo caso non c’è differenza di opinione o d’interpretazione, perché oggi ciò che è soggetto a certificazione è il rapporto di lavoro e l’eventuale subappalto. Niente altro. Altrimenti, il rischio che si corre è quello di far passare per obbligo di legge ciò che obbligo di legge non è.

In merito all’applicabilità ed alle interpretazioni delle leggi in materia di tutela della salute e della sicurezza sul lavoro in Italia, in generale, va detto che il nostro sistema prevenzionale è un sistema da “manutenzione a guasto”: dopo che succede qualcosa di grave, si corre ai ripari.

Sia il D. Lgs. n° 81/2008 (pubblicato dopo i tragici fatti di Torino nel dicembre 2007)  che lo stesso D.P.R. n°177/2011 (pubblicato dopo i tragici fatti di Molfetta, Cagliari, Mineo, Capua, ecc.), sono la prova che in Italia si legifera solo sotto spinte emozionali ed emergenziali (molo probabilmente, il prossimo intervento riguarderà, dopo i 10 morti di Modugno (BA), le fabbriche di fuochi artificiali).

Quando si legifera sotto spinte emozionali ed emergenziali, la conseguenza è che il “prodotto” non è mai granché per almeno un paio di motivi:

– si lavora di fretta, dopo fatti gravi avvenuti, sotto la pressione politica, per dare una risposta all’opinione pubblica;

– non c’è l’abitudine di coinvolgere, al tavolo dove si scrivono le norme, anche gli attori che già operano nel settore che si vuole “normare” e che, quindi, hanno conoscenza approfondita “dal di dentro” delle dinamiche organizzative, produttive e relazionali specifiche.

E quando parlo di “attori” che operano sul campo, non mi riferisco ai politici della rappresentanza inviati ai tavoli di discussione da associazioni datoriali, sindacali, professionali, ecc.. Parlo di soggetti “indipendenti” in possesso di provate competenze specifiche, selezionati in modo trasparente nel mondo del lavoro.

Comunque, vista l’attuale situazione, quel che ne viene fuori, con questi presupposti, sono “regole” frutto di visioni che risentono sia del poco tempo disponibile che, soprattutto, delle conoscenze esperienziali dei soggetti coinvolti nella redazione ma che, pur indubbiamente pregevoli, essendo maturate in campi particolari (in genere in attività ispettive), non possono che risentirne nella percezione e visione delle dimensioni e complessità effettive del problema.

Pertanto, ciò che ne scaturisce, è quasi sempre un prodotto frutto di una visione particolare che, non abbracciando il problema nella sua complessità, presenta soluzioni di difficile applicabilità, non condivise con gli attori che saranno chiamate ad applicarle sul campo, spesso controverse e, quindi, aperte alle più variegate interpretazioni.

Esempio emblematico è proprio quello degli ambienti sospetti d’inquinamento o confinati dove il “mandato” per il legislatore era relativo alla definizione di un Regolamento per la qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi operanti in ambienti sospetti di inquinamento o confinati ma che invece si è esteso, con l’art. 3 (procedure di sicurezza), in un ambito che evidentemente non padroneggiava a sufficienza, visto, ad esempio, quanto scritto a proposito delle attività informative di cui al comma 1. Eppure sarebbe bastato dare un’occhiata alla tanta letteratura tecnica ed alla tanta esperienza operativa soprattutto in chi, il problema Spazi Confinati, lo vive “dal di dentro”.

 

 

 

La risposta di Flavia Pasquini(Commissione di Certificazione Dipartimento di Economia Marco Biagi Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia) alla domanda di Tiziano Menduto(PuntoSicuro):

 

  1. Secondo la vostra Commissione e in relazione alla normativa vigente è corretto ritenere obbligatoria, ai sensi del DPR n. 177/2011, la certificazione dei contratti di appalto e subappalto? Ci sono casi in cui, a vostro parere, non è mai da ritenere obbligatoria? E in questi casi è comunque opportuna?

 

Flavia Pasquini: In mancanza, per quanto consta, di pronunce giurisdizionali e chiarimenti Ministeriali sul punto, ad avviso della Commissione una interpretazione sistematica del DPR n. 177/2011 dovrebbe condurre a ritenere obbligatoria la certificazione, oltre che di tutti i subappalti in luoghi confinati, anche degli appalti laddove siano possibili e/o rintracciabili interferenze (temporali o spaziali). In ogni caso, anche considerando possibili difformità di interpretazione da parte degli organi ispettivi e nell’ottica di un ulteriore controllo sulla qualificazione dell’impresa esecutrice, anche in mancanza di interferenze può comunque risultare cautelativo ed opportuno procedere alla certificazione del contratto di appalto. Inoltre, nel caso di appalto a un consorzio (è simile l’ipotesi della A.T.I. negli appalti pubblici), laddove l’appaltatore proceda ad affidare l’attività in luogo confinato ad una consorziata, sebbene quest’ultimo negozio di affidamento non sia tecnicamente un subappalto, ad avviso della Commissione è comunque opportuna la certificazione, in considerazione della sostanziale vicinanza tra il negozio di affidamento e il subappalto.

 

La risposta di Flavia Pasquini alla domanda di Massimo Peca:

 

  1. Qual è la ragione per cui la vostra Commissione, tra i vari documenti, chiede alle aziende che intendono ottenere la certificazione (sia del rapporto di lavoro che per gli appalti), quelli inerenti la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori; come e da chi vengono valutati?

 

Flavia Pasquini: Benché non tenutavi ai sensi dell’interpretazione letterale del citato DPR n. 177/2011 e senza per ciò stesso potersi né volersi sostituire nei controlli e nelle responsabilità in carico alla committente principale per effetto dell’art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, la Commissione ritiene che il proprio ruolo non possa esaurirsi nella sola verifica formale della correttezza del documento contrattuale. I documenti vengono valutati da parte dei membri della Commissione.

 

Le risposte di Flavia Pasquini alle domande di Carmelo G. Catanoso:

 

  1. Non ritiene che il legislatore sia andato oltre il proprio mandato quando, in aggiunta ai requisiti per la qualificazione delle imprese (viste le previsioni degli articoli 6, comma 8, lettera g), e 27 del D. Lgs. N. 81/2008), ha inserito l’art. 3 del DPR n° 177/2011 riguardante le procedure di sicurezza la cui vaghezza e imprecisione ha generato molta confusione e il proliferare di interpretazioni non certo univoche?

 

Flavia Pasquini: L’art. 3 in questione prevede la disciplina delle procedure di sicurezza in senso stretto all’interno del terzo comma. Tali procedure si riferiscono alle procedure di emergenza che, considerati la specificità dell’attività ed i rischi ad essa connessi, appaiono coerenti con la ratio della norma di realizzare un sistema di qualificazione delle imprese. Infatti, le procedure di emergenza costituiscono un elemento organizzativo fondamentale per potere operare nel settore.

 

  1. Cosa ne pensa dell’introduzione di un apposito “Albo” per le imprese e i lavoratori autonomi qualificati per operare negli ambienti confinati e negli ambienti sospetti d’inquinamento?

 

Flavia Pasquini: Potrebbe sicuramente trattarsi di un utile strumento, soprattutto in un’ottica di semplificazione degli oneri e degli adempimenti a carico delle imprese. In caso di affidamento di lavori, servizi e forniture, infatti, la normativa vigente (cfr. art. 26 d.lgs. 81/2008) pone in capo al datore di lavoro committente l’obbligo di verificare l’idoneità tecnico-professionale dei lavoratori autonomi e delle imprese appaltatrici. Posto che quest’obbligo riguarda anche l’affidamento di attività da eseguirsi all’interno di ambienti sospetti di inquinamento o confinati, l’istituzione di un apposito Albo presso il quale siano tenuti ad iscriversi i soggetti che intendano operare in quest’ultimo settore potrebbe incidere positivamente sull’efficienza del relativo mercato, riducendo gli oneri di verifica e di produzione documentale incombenti sulle imprese per ogni singolo appalto. Ciò, ovviamente, a condizione che l’iscrizione all’Albo sia subordinata alla verifica del possesso di tutti i requisiti prescritti dal D.P.R. n. 177/2011.

 

 

Questa è la seconda e ultima parte di una intervista a Massimo Peca, Carmelo G. Catanoso e Flavia Pasquini. La prima parte dell’intervista riportava le risposte di massimo Peca ed è stata pubblicata il 18 gennaio 2017.

 

Il link alla prima parte dell’intervista…

 

Il link all’articolo “La certificazione dei contratti di lavoro negli ambienti confinati”, presentazione su PuntoSicuro dell’intervento di Massimo Peca al V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati

 

Leggi gli altri articoli di PuntoSicuro sui rischi relativi agli spazi confinati

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Consulenti della sicurezza: l’importanza dei registri professionali

Il 2017 sarà un anno importante per le professioni relative alla tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Il ruolo dell’associazione AiFOS e l’importanza dei registri professionali per certificare le competenze.
 

Più volte in questi anni, parlando di efficacia delle strategie di prevenzione e di tutela della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, si è sottolineata l’importanza delle competenze e della “qualità degli operatori della sicurezza attivi nelle aziende.

 

Come è possibile operare affinché migliori la qualità degli operatori? E come sarà, riguardo alla qualificazione degli operatori, il nuovo anno?

 

A rispondere a queste domande è Francesco Naviglio, Segretario Generale dell’Associazione Italiana Formatori ed Operatori della Sicurezza sul Lavoro ( AiFOS), che ritiene che il 2017 sarà l’anno delle professioni. Ed è bene prepararsi a questo nuovo anno guardando con maggiore attenzione anche all’importante strumento dei registri professionali.

 

Perché lei ritiene così importante il 2017 per le professioni nell’ambito della sicurezza sul lavoro?

Francesco Naviglio: “In primo luogo, per noi operatori della sicurezza sul lavoro è impossibile non renderci conto di una continua, ma costante, diminuzione della richiesta di formazione sulla sicurezza sul lavoro. La crisi economica e l’ormai soddisfatta esigenza di formazione primaria per la maggior parte dei lavoratori ci porta a considerare i corsi di aggiornamento come il maggior settore in cui sviluppare l’attività di formazione. Da questa riflessione scaturisce l’esigenza di individuare nuovi e più proficui obiettivi di attività su cui cimentarsi nel prossimo futuro. Quindi il 2017 è certamente un anno significativo per affrontare queste nuove sfide.

E nell’associazione AiFOS, dopo una approfondita analisi e valutazione sul ruolo degli operatori della sicurezza sul lavoro, sono state intraprese due strade: quella della progettazione di percorsi professionalizzanti e quella di una presenza assidua nella Confederazione di riferimento al fine di partecipare alle politiche sindacali orientate a tutelare e promuovere gli associati. L’intento è quello di consentire agli operatori della sicurezza di potersi affiancare ai clienti non solo per la mera attuazione delle normative della sicurezza del lavoro, ma quale punto di riferimento nella gestione complessiva della azienda”.

 

Si va verso una nuova figura professionale?

“Si, verso un S&S Manager (Safety & Security Manager). Una nuova figura di professionista che, attuando i principi e le metodologie del Risk Management, riassuma in sé tutte quelle competenze necessarie per garantire la tutela dell’azienda da tutti i pericoli presenti nell’habitat naturale.

Un altro aspetto importante è poi l’inserimento della figura del Consulente della Sicurezza, così come delineato in precedenza, all’interno del Catalogo delle professioni. L’elenco provvisorio delle professioni regolamentate contenuto nel data base gestito dal Dipartimento per le Politiche Comunitarie e inviato alla Commissione UE con il Piano Nazionale di Riforma delle Professioni, Cluster 1 e 2, censisce attualmente 174 professioni regolamentate in Italia. Questa è una opportunità da non lasciarci sfuggire per ottenere un definitivo riconoscimento della professione di Consulente della Sicurezza. E le attività collegate alla sicurezza sul lavoro saranno sicuramente influenzate anche da quanto previsto dal disegno di legge, approvato lo scorso 3 novembre 2016 in Senato, recante ‘Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi di lavoro subordinato’. Ed è per questi motivi che il 2017 sarà un anno cruciale per il riconoscimento e la tutela degli interessi dei Consulenti della Sicurezza”.

 

Qual è il ruolo dei registri professionali?

“Sicuramente un aspetto importante nella professionalizzazione di questi consulenti è la possibilità di certificare e valorizzare le proprie competenze attraverso i registri professionali che l’Associazione AiFOS – riconosciuta comeAssociazione Professionale – ha potuto creare in ottemperanza alla Legge n. 4 del 14 gennaio 2013sulle Associazioni professionali. Con questa legge le associazioni riconosciute possono tutelare i consumatori garantendo la trasparenza e la qualità dei servizi professionali”.

 

Quali sono i vantaggi per coloro che sono presenti nei diversi registri professionali di AiFOS?

“Sicuramente la valorizzazione della professionalità: a seguito di verifica dei requisiti richiesti dalla normativa viene rilasciato un attestato di qualità che certifica le competenze del professionista. Il registro aumenta poi la visibilità: l’elenco degli iscritti ai Registri Professionali viene pubblicato on-line ed è visibile dagli utenti esterni.

Altri aspetti importanti sono poi la semplificazione – il professionista non ha l’onere di presentare tutta la documentazione dettagliata per dimostrare il possesso dei requisiti – e il prestigio. Infatti l’attestato rilasciato da un ente riconosciuto a livello nazionale come AiFOS è sinonimo di pregio e qualità, dando al possessore un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza”.

 

E come si entra a far partedel registro professionale?

“Innanzitutto è necessario essere socio AiFOS e richiedere l’iscrizione a uno dei registri. Successivamente l’ufficio preposto effettua un’analisi dei documenti presentati dal candidato e ne attesta la rispondenza ai requisiti di legge. Dopo questa fase di verifica, e al di là di eventuali esoneri per chi ha già svolto esami di qualificazione AiFOS, avviene una valutazione con colloqui in presenza per approfondire e verificare le informazioni fornite e accertare il possesso delle conoscenze tecniche, delle competenze sui riferimenti normativi e sulle metodologie e tecniche applicative. E, in caso di esito positivo della valutazione, viene rilasciata al socio l’Attestazione di Qualità e Qualificazione Professionale ed il suo nominativo viene inserito nell’apposito Registro pubblicato sul sito internet dell’Associazione”

 

Ricordiamo che l’Associazione AiFOS può attestare la qualità dei propri iscritti inserendoli nei seguenti registri:

– formatori della salute e sicurezza: professionisti in possesso di competenze utili a gestire il processo educativo in materia di sicurezza sul lavoro – con riferimento al D.Lgs. 81/2008 e al Decreto interministeriale del 6 marzo 2013 – e che possono dimostrare in modo documentato una consolidata esperienza, in forma continuativa, in qualità di docente-formatore, presso o per conto di Organizzazioni pubbliche e/o private;

– responsabili del servizio di prevenzione e protezione (RSPP): persone in possesso di competenze, capacità, conoscenze e requisiti professionali utili e necessari per coordinare il Servizio di Prevenzione e Protezione;

– coordinatori della sicurezza nei cantieri: persone in possesso di competenze in riferimento alla gestione della sicurezza dei cantieri edili temporanei e mobili e delle competenze per il coordinamento della sicurezza durante la progettazione e l’esecuzione dell’opera e che possono dimostrare in modo documentato una consolidata esperienza, in forma continuativa, in qualità di coordinatore.

 

Si ricorda infine che l’iscrizione ai Registri Professionali non è da considerarsi quale abilitazione al rilascio di attestati, bensì come una qualificazione della professionalità dell’associato. Il formatore dovrà ad esempio verificare caso per caso la normativa che disciplina i corsi di formazione alla sicurezza sul lavoro per assicurarsi di poter organizzare in autonomia tali corsi o se per l’erogazione degli stessi sia invece necessario identificare un soggetto formatore specifico (ente di formazione) con cui collaborare.

 

 

Il link per approfondimenti e per la richiesta di iscrizione ai Registri Professionali AiFOS…

 

 

Per informazioni:

Sede nazionale AiFOS: via Branze, 45 – 25123 Brescia c/o CSMT, Università degli Studi di Brescia tel.030.6595031 – fax 030.6595040 www.aifos.it – registri@aifos.it

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Salute e sicurezza nella formazione scolastica: le proposte della CIIP

Un intervento si sofferma sulle proposte della Consulta CIIP riguardo al tema della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nella formazione scolastica e nell’alternanza scuola-lavoro. I piani di prevenzione e la formazione curriculare.
 

Bologna, 20 Gen – Più volte l’ Agenzia Europea per la Sicurezza e la Salute sul lavoro ha ricordato come la sicurezza e salute della forza lavoro di domani dipendano dall’integrazione dei temi della salute e sicurezza sul lavoro nell’istruzione di oggi. I bambini e adolescenti devono, infatti, cominciare a studiare queste materie in una fase precoce della loro educazione, “in modo da poter coltivare queste nozioni nella futura vita lavorativa e privata”.

Sono dunque necessari:

– “l’integrazione del tema della SSL in maniera trasversale lungo tutto il percorso scolastico. La salute e sicurezza non sono più argomento per le sole discipline tecnico-scientiiche, ma anche per discipline umanistiche, quali letteratura o storia dell’arte;

– lo sviluppo delle competenze chiave orientate alla salute e sicurezza in allievi e personale scolastico, secondo le regole dell’apprendimento orientato all’esperienza e basato sul dialogo tra studenti, insegnanti e ‘tecnici’ della salute e sicurezza”.

 

 

Proprio per portare avanti queste indicazioni e migliorare nei futuri lavoratori la capacità di prendere decisioni, la percezione dei rischi e l’adozione di comportamenti sicuri e sani, l’Associazione Ambiente e Lavoro e la Consulta CIIP hanno organizzato il convegno “Salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nella formazione scolastica e nell’alternanza scuola-lavoro” che si è tenuto a Bologna, durante la manifestazione Ambiente Lavoro, il 19 ottobre 2016. Un convegno che ha premesso un’analisi delle strategie per lo sviluppo della cultura della salute e della sicurezza in ambito scolastico con particolare attenzione al Piano nazionale della prevenzione e alle azioni previste dalle Regioni. Con riferimento anche all’inquadramento giuridico della figura dello studente-tirocinante, all’alternanza scuola-lavoroe alle esperienze in atto.

 

Ci soffermiamo oggi in particolare su un intervento – dal titolo “Il documento CIIP, il PNP e le azioni previste dalle Regioni” e a cura di Elisa Gerbino (Coordinatore GDL Scuola CIIP – Responsabile scientifico Documento CIIP – Segretario ANIS) – che si sofferma in particolare sulle criticità rilevate e sulle proposte della Consulta CIIP.

In particolare il documento proposto da CIIP affronta diversi temi (Piano nazionale della prevenzione 2014-2018, la sicurezza nella formazione curriculare e l’alternanza scuola lavoro, l’importanza del monitoraggio e della valutazione, la formazione e-learning) e vuole:

  1. a) “individuare le caratteristiche e le criticità principali riscontrate sul tema della diffusione della SSL nelle scuole;
  2. b) proporsi quale documento di raccomandazioni adottabili dagli organi istituzionali preposti e soprattutto dalle istituzioni scolastiche”.

 

Ad esempio riguardo al Piano nazionale della prevenzione (PNP) 2014-2018 si segnala che Governo e Regioni “hanno definito congiuntamente strategie, obiettivi e indicatori per misurare il progresso della prevenzione nei macro-obiettivi di salute ritenuti prioritari a livello nazionale”.

E per la prima volta il PNP prevede anche “azioni specifiche” e il coinvolgimento dell’istituzione scolastica per lo “sviluppo delle competenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro nei futuri lavoratori”.

Tuttavia alcune Regioni affrontano l’obiettivo “in modo generale rimandando a reti di scuole probabilmente già attive sul territorio, non indicando tuttavia le azioni specifiche che intendono sviluppare, né il target di riferimento (studenti, docenti, ecc..) o la tipologia di scuole da coinvolgere (grado e tipologia di scuole)”. Inoltre molte Regioni “si concentrano esclusivamente sul target di scuole e programmi specifici diretti: agli studenti degli istituti tecnici e scuole professionali (scuole edili e agrarie) con programmi riguardanti la formazione generale del lavoratore ex art. 37; agli insegnanti con ruoli per la sicurezza o formazione dei formatori.

E, infine, la maggior parte delle Regioni “non affronta il tema dell’ alternanza scuola-lavoro (ex legge 107/2015), probabilmente a causa del fatto che la legge è stata emanata successivamente al PNP”.

In questo senso la CIIP propone:

  1. a) “l’inserimento nei PRP (piani regionali di prevenzione, ndr) del tema della promozione della cultura della SSL negli istituti scolastici, come fattore chiave del mantenimento e miglioramento della qualità del lavoro e come strumento per ridurre il fenomeno infortunistico e tecnopatico;
  2. b) che il sistema pubblico della prevenzione fornisca supporto alle Istituzioni scolastiche, sostenendo gli insegnanti nel loro ruolo di leader educativo, individuando buone prassi/ linee guida, diverse per cicli scolastici e differenti per licei, istituti tecnici e scuole professionali, in grado di guidarli in un percorso verticale di sviluppo delle competenze di sicurezza e salute sul lavoro;
  3. c) che le Regioni e Provincie Autonome, anche in occasione della riprogrammazione operativa prevista nel 2017, inseriscano nei Piani di Prevenzione azioni coordinate dedicate al tema della alternanza scuola lavoroed in particolare pongano attenzione a: effettuare la formazione generale (modulo normativo-giuridico e analisi dei rischi) in aula e in orario curricolare a cura di docenti-formatori interni alle scuole; riconoscere la formazione generale (ex art. 37) per lo studente e il futuro lavoratore; effettuare la formazione sui rischi specifici prima dell’ingresso in azienda, ed insieme all’azienda”.

 

Veniamo al tema della sicurezza nella formazione curriculare e dell’alternanza Scuola Lavoro.

 

La relazione indica che attraverso la metodologia dell’alternanza “si permettono l’acquisizione, lo sviluppo e l’applicazione di competenze specifiche previste dai profili educativi, culturali e professionali dei diversi corsi di studio”.

Ricordiamo che, con riferimento alla collaborazione formativa tra scuola e mondo del lavoro, la legge 107/2015 ha inserito l’alternanza scuola lavoro organicamente nell’offerta formativa di tutti gli indirizzi di studio della scuola secondaria di secondo grado come parte integrante dei percorsi di istruzione.

Riportiamo anche in questo caso le proposte CIIP:

  1. a) “l’inserimento delle competenze della salute e sicurezza nei curricula scolastici e la certificazione delle competenze nelle scuole secondarie di secondo grado. È auspicabile che le attività possano essere registrate su un ‘Libretto formativo personale’ e comunque certificate da attestati rilasciati dalle scuole;
  2. b) il massimo coinvolgimento dei dirigenti scolasticie dei docenti delle scuole di tutte le discipline per raggiungere gli studenti, futuri lavoratori. Affrontare la tematica in modo multidisciplinare e durante le ore curriculari, permetterà allo studente di integrare le conoscenze per interiorizzare al meglio l’alfabeto della sicurezza;
  3. c) il supporto da parte del sistema pubblico della prevenzione alle istituzioni scolastiche, tramite la Formazione e l’Aggiornamento dei Docenti-Formatori interni alle scuole, evitando il più possibile interventi da parte di ‘esterni’ nei confronti degli studenti;
  4. d) l’istituzione in ogni territorio di un gruppo di Coordinamento provinciale/regionale per fornire indicazioni alle istituzioni scolastiche, favorire gli scambi e le esperienze”.

 

Riguardo al tema del monitoraggio e della valutazione, la CIIP propone invece:

  1. a) “affiancare a tutti i progetti di promozione della SSL nelle scuole di ogni ordine e grado adeguati piani di valutazione di contesto, di processo e di risultato in termini sia di acquisizione di competenze sia di adozione di comportamenti;
  2. b) avviare a livello nazionale adeguati piani di valutazione di efficacia anche in termini di riduzione degli infortuni scolastici”. Elisa Gerbino Continuo sviluppo delle ITC applicate alla formazione e all’istruzione.

 

Rimandando ad una lettura integrale dell’intervento, segnaliamo, in conclusione, che le proposte CIIP riguardano anche l’apprendimento e-learning che nella formazione SSL agli studenti deve essere inteso come supporto alla didattica in presenza e non come sostitutivo dell’attività in aula e in laboratorio.

 

 

“ Il documento CIIP, il PNP e le azioni previste dalle Regioni”, a cura di Elisa Gerbino (Coordinatore GDL Scuola CIIP – Responsabile scientifico Documento CIIP – Segretario ANIS),  intervento al convegno ” Salute e sicurezza sui luoghi di lavoro nella formazione scolastica e nell’alternanza scuola-lavoro” (formato PDF, 2.63 MB).

 

“ La CIIP propone. Promozione della salute e sicurezza nelle istituzioni scolastiche”, a cura di Elisa Gerbino, Antonella Bena, Norberto Canciani, Arnaldo Zaffanella, Maria Grazia Fulco, Sergio Piazzolla, Stefania Bosio, Fabio Caporali, Martina De Angelis, Enrico Lanzara, Gilberto Boschiroli, Claudio Calabresi, Raul Guelfi, Attilio Pagano, Marco Agnoletti, Mirko Campana (formato PDF, 270 kB).

 

 

RTM

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

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Le disfunzioni organizzative: stress lavoro-correlato, mobbing, burnout

Le disfunzioni organizzative che possono creare fenomeni di disadattamento e reazioni di stress da cui possono derivare malattie collegate alla professione. Stress lavoro-correlato, mobbing, burnout. A cura di Massimo Servadio.
 

Gli studi confermano che numerose sono le situazioni che denotano uno stato patologico dell’ambiente di lavoro – sia pubblico che privato – con inevitabili conseguenze soprattutto per i lavoratori, ma con ricadute anche per i datori di lavoro.

 

La flessibilità esasperata, propria dell’attuale contesto lavorativo, ha come logica conseguenza l’affacciarsi prepotente di malattie di natura psico-sociale.

 

Risulta fondamentale porre sempre di più l’accento sul concetto di Salute, che come definito dall’OMS nel 1948 è “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza dello stato di malattia”.

Per salute quindi non intendiamo uno ‘stato’ ma una condizione dinamica di equilibrio, fondata sulla capacità del soggetto di interagire con l’ambiente adattandosi al continuo modificarsi della realtà circostante.

 

Nel mondo del lavoro esistono, accanto a fattori di rischio specifici, responsabili di malattie professionali, numerosi altri agenti capaci di turbare lo stato di salute dell’individuo e dell’intera Organizzazione, creando fenomeni di disadattamento e reazioni di stress, da cui possono derivare malattie, non specifiche, ma certamente collegate alla professione.

 

Andiamo ad individuarne uno per uno.

 

 

Lo stress legato all’attività lavorativa si manifesta quando le richieste dell’ambiente di lavoro superano la capacità del lavoratore di affrontarle. Lo stress legato al lavoro rappresenta la seconda malattia professionale più diffusa nell’Unione Europea dopo il mal di schiena. In Europa ne è affetto un lavoratore su quattro; le donne risultano essere più colpite, ma per entrambi i sessi lo stress può rappresentare un problema in tutti i settori e a tutti i livelli di organizzazione.

Lo stress legato all’attività lavorativa può essere provocato da rischi psicosociali, quali la progettazione, l’organizzazione e la gestione del lavoro, nonché da problemi come le vessazioni e la violenza sul lavoro, ma anche da rischi fisici come la rumorosità e la temperatura.

 

È dimostrato che lo stress, riducendo la capacità di elaborazione mentale, induca ad errori umani di vario tipo: errori a livello d’intenzione, a causa di stanchezza non è eseguita una procedura; errori per improprietà esecutive, mancanza di coordinamento nella priorità tra le azioni; errori a livello di controllo, per cui si manifesterà un deficit di memoria nella sequenza delle operazioni da compiere.

 

L’operatore stressato rende meno, può commettere errori, è più esposto ad infortuni, è più conflittuale, teme l’innovazione e può entrare nell’area di rischio psicosomatico. Tale situazione si ripercuote inevitabilmente sull’intera organizzazione con effetti negativi: riduzione della produttività e della qualità del lavoro, aumento della conflittualità, diminuzione del senso di appartenenza, mancato rispetto delle regole o irrigidimento per il loro rispetto, elevato assenteismo e turn over, clima di insoddisfazione, ricerca continua di capri espiatori, aumento degli infortuni.

 

Collegato allo stress lavoro-correlato ma avente una propria specificità, il mobbing non è una malattia, ma ne può essere la causa. Il termine mobbing deriva dal verbo inglese to mob, ovvero perseguire, ed è un’azione che si verifica nei branchi di alcune specie animali che vogliono escludere un membro e si coalizzano contro di esso.

 

È fenomeno estremamente diffuso nei luoghi di lavoro, nonostante ciò non esiste ancora una specifica normativa che ne indichi le modalità di valutazione, né le conseguenze nel caso in cui un lavoratore presenti regolare denuncia. La definizione della sentenza n. 3875/09 della Corte di cassazione definisce il mobbing:

 

“Una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità”.

 

Nel mondo del lavoro il mobbing può essere verticale o orizzontale: nel primo caso le vessazioni vengono da un superiore (datore di lavoro o dirigente) nel secondo da un collega.

 

Secondo il modello di Heinz Leymann le fasi del mobbing sono 4:

 

– Conflitto quotidiano: quotidianamente si verificano conflitti, nascosti da un’apparente normalità.

– Inizio del mobbing: la vittima viene attaccata dal punto di vista psicologico, delle relazioni sociali, della comunicazione, della professione e della salute.

– Abusi: trasferimenti, richiami ingiustificati, demansionamento.

– Esclusione: la vittima si esclude dal mondo del lavoro o viene esclusa a causa di malattie psicosomatiche, sintomi ossessivi, dimissioni, prepensionamento o licenziamento.

 

Secondo il metodo Ege (2002) devono verificarsi 7 condizioni affinché si possa parlare di mobbing sul posto di lavoro:

– ambiente: il conflitto deve verificarsi sul posto di lavoro;

– frequenza: il conflitto deve reiterarsi almeno alcune volte al mese;

– durata: il conflitto deve durare da almeno sei mesi;

– tipo di azioni: il conflitto deve comprendere diverse tipologie di attacco (isolamento sistematico, cambiamento delle mansioni, lesioni della reputazione professionale e privata, violenza o minacce);

– dislivello tra antagonisti: la vittima deve trovarsi in condizione di inferiorità;

– andamento a fasi successive: il conflitto deve essere sempre in crescendo e deve aver raggiunto la 2^ fase del modello di Leymann;

– intento persecutorio: il conflitto deve tendere alla provocazione di sofferenze che hanno lo scopo di indurre la vittima ad adottare un certo comportamento, ad esempio dare le dimissioni.

 

Per ciò che riguarda la sicurezza sul lavoro, nel Testo Unico non ci sono specifiche indicazioni che riguardano indicazioni e procedure per la valutazione del mobbing, che, però, viene considerato sicuramente una delle cause di stress lavoro correlato e come tale deve essere tenuto in considerazione dal datore di lavoro nella valutazione dei rischi.

 

Ai fini della tutela della Salute e Sicurezza sui luoghi di lavoro, la rilevazione dei livelli di stress lavoro-correlato diventa ulteriormente fondamentale per prevenire l’insorgenza di un’altra disfunzione organizzativa, la sindrome del burnout.

 

Il Burnout si riferisce alle “helping profession”, ovvero tutte quelle professioni (medici, psicologi, psicoterapeuti, operatori socio-assistenziali, infermieri, insegnanti) in cui la relazione con l’altro è la parte fondamentale del lavoro, che oltre a richiedere competenze tecniche si caratterizza per un forte coinvolgimento emotivo del lavoratore con il proprio “cliente”.

 

Queste figure sono caricate da una duplice fonte di stress: il loro personale e quello della persona aiutata. Per questo duplice aspetto che le caratterizza, le professioni d’aiuto sono considerate “categoria professionale a rischio”: nella persona che svolge questi tipi di professioni, infatti, si mobilitano alcune dinamiche che se non sono rese consapevoli rischiano in alcuni casi di intrappolare il lavoratore.

 

Dinamiche come queste se non gestite, possono alla lunga condurre a una sindrome definita “ sindrome del burnout” (letteralmente bruciarsi).

 

Secondo Cherniss (1980) il burnout è il culmine di un processo stressogeno che si articola in tre fasi:

– Percezione della situazione stressante: il soggetto sente un disagio che è causato dalla differenza tra risorse personali e richieste ambientali;

– Emotività negativa: il soggetto sperimenta un disagio emotivo caratterizzato da tensione e ansia;

– Coping: il soggetto di fronte ad una situazione stressante evita il problema attraverso il disimpegno e il distacco emotivo;

 

Questo processo stressogeno coinvolge non solo il lavoratore come individuo, ma anche l’azienda e la sua struttura organizzativa.

 

Per concludere se da un lato la valutazione dello stress lavoro correlato è un obbligo normativo, che va ad inserirsi nel Documento di valutazione di tutti i rischi per la Sicurezza, non si può dire lo stesso del mobbing e del burnout.

 

Per quest’ultimi sono previste azioni di prevenzione e monitoraggio che scaturiscono dall’unico strumento, riconosciuto al livello legislativo, che consente di individuare fattori ascrivibili a tali disfunzioni: la valutazione dello stress lavoro correlato.

 

Un’organizzazione che “fa” sicurezza creando una vera e propria cultura, attraverso processi continui di auto apprendimento, è una realtà che non solo, supera la mera ottemperanza alla norma, ma fa del benessere organizzativo un valore aziendale.

 

 

 

Massimo Servadio,

Psicologo del Lavoro e delle Organizzazioni

 

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Fonte: puntosicuro.it

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La sicurezza negli scavi e delle opere in cemento armato

Un documento Inail sulla progettazione della sicurezza presenta alcune schede di sicurezza di fase. Focus su una scheda relativa ad attività di scavo e all’esecuzione diaframmi e opere in cemento armato. Il prescavo e la realizzazione delle opere.
 

Roma, 23 Gen –  Per offrire un supporto pratico per l’analisi dei rischi e l’individuazione di idonee misure di prevenzione e protezione nel comparto delle costruzioni, abbiamo presentato nelle scorse settimane alcune utili schede di sicurezza di fase contenute nel documento Inail “ La progettazione della sicurezza nel cantiere”, elaborato dal Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici.

Ricordiamo che il documento, a cura di Raffaele Sabatino e Antonio Di Muro, fornisce una guida all’applicazione della normativa vigente sui cantieri e presenta una metodologia per la redazione dei piani di sicurezza nei cantieri incentrata su un’attenta valutazione dei rischi.

 

 

Se nel precedente articolo abbiamo analizzato un esempio di scheda di sicurezza relativa alla realizzazione di collettorifognari, ci soffermiamo brevemente oggi su alcuni aspetti relativi allo scavo ed esecuzione diaframmi e opere in cemento armato con riferimento a unità di sghiaiatura, grigliatura media e sollevamento.

 

Riguardo al prescavo si indica che per la realizzazione dell’unità di sghiaiatura, grigliatura media e sollevamento, viene realizzato un presbancamento (ai lavori di sbancamento abbiamo dedicato in passato una puntata della rubrica “ Imparare dagli errori”).

 

Prima delle operazioni di scavo si provvederà alla “delimitazione dell’area di prescavo con picchetti metallici, sormontati da capsule in plastica e rete segnaletica di colore arancio, posizionandola a 1,50 m dal futuro ciglio”. Inoltre:

– “le operazioni di scavo saranno eseguite mediante escavatore ed autocarro per il carico e trasporto del materiale scavato;

– la discesa all’interno dello scavo avverrà a mezzo di rampa realizzata all’interno dello scavo medesimo, di pendenza compatibile con la potenza dei mezzi impiegati, e larghezza proporzionale alle dimensioni dei mezzi;

– al fine di garantire il passaggio dei lavoratori, la rampa dovrà essere dotata di un percorso pedonale protetto separato da quello carrabile e, per il lato verso il vuoto e altezze superiori a 2,00 m, dovrà essere allestito parapetto regolamentare;

– per consentire l’accesso dell’attrezzatura per lo scavo delle paratie monolitiche, perimetralmente al filo esterno del diaframma, sarà realizzata una pista di larghezza 5,00 m, rullata e stabilizzata con l’apporto di materiale arido”.

La scheda, che vi invitiamo a leggere integralmente e che si sofferma anche sulla profilatura delle pareti di scavo e del terreno, ricorda che durante le operazioni di escavazione e di carico su autocarro del materiale estratto, “nessun lavoratore dovrà sostare nel raggio di azione del mezzo, né l’autista potrà permanere all’interno della cabina dell’autocarro. Ultimato il carico, che non dovrà superare il limite superiore della sponda del mezzo, andrà disposto telo di copertura per evitare la caduta accidentale di materiale durante il trasporto”. E nel caso di conferimento a discarica del materiale di scavo eccedente, “prima dell’uscita sulla viabilità pubblica, si dovrà provvedere al lavaggio delle ruote con idropulitrice ed all’eventuale pulizia della sede stradale nelle immediate vicinanze del cancello carrabile del cantiere”.

 

Veniamo ad alcune indicazioni per la prevenzione nell’esecuzione di diaframmi in c.a., con riferimento al contesto lavorativo affrontato nella scheda.

 

Raggiunta la quota di presbanco, si procederà in questo caso alla perforazione con perforatrice cingolata equipaggiata con benna bivalve. Alcune indicazioni:

– “l’imboccatura del foro dovrà essere protetta costantemente mediante parapetto mobile prefabbricato o realizzato con struttura a tubi e giunti, che dovrà rimanere in sito fino alla completa esecuzione del getto;

– il materiale di scavo sarà prontamente allontanato al fine di garantire la completa agibilità del piano di lavoro”.

Inoltre:

– “lo stoccaggio delle armature sarà eseguito evitando la sovrapposizione di più di 3 elementi, disponendo altresì appositi sostegni allo scopo di garantire un facile imbraco delle armature metalliche;

– prima di dare corso alle operazioni di sollevamento, sarà opportuno verificare sia lo stato delle funi che efficienza e portata dei ganci;

– la movimentazione delle armature metalliche pre-assemblate, avverrà con l’ausilio di apparecchio di sollevamento e funi guida.

– le operazioni di movimentazione delle armature dovranno essere sospese per velocità del vento superiore a 50 km/h;

– in nessun caso i lavoratori dovranno trovarsi sotto il carico sospeso e nel raggio di azione della macchina operatrice;

– la giunzione delle gabbie di armatura avverrà mediante fermi meccanici”.

Si indica poi che il getto del CLS “sarà eseguito con l’utilizzo di autobetoniera ed autopompa, con i lavoratori sempre protetti da parapetto. L’eventuale taglio di armature metalliche eccedenti, dovrà essere eseguito esclusivamente a mezzo di cannello ossiacetilenico”.

 

La scheda si sofferma poi sulla “scapitozzatura” dei diaframmi per la realizzazione della trave di coronamento, sulla demolizione della parte sommitale dei diaframmi, e indica che per la predisposizione della trave di coronamento, “i lavoratori addetti accederanno mediante scala a mano vincolata al piano di lavoro” a quota idonea “per la posa delle casserature lignee o metalliche e delle armature integrative, che saranno movimentate a mezzo di apparecchio di sollevamento. Il getto del CLS sarà eseguita con l’utilizzo di autobetoniera e pompa per CLS posizionate fuori dallo scavo. Per l’accesso all’area di lavoro dell’escavatore si realizzerà apposita rampa in terra dalla testa della trave di coronamento alla quota di presbanco interna; si procederà quindi allo scavo di sbancamento, operando per approfondimenti successivi, fino alla quota di fondo”. Le operazioni di scavo avverranno con le seguenti modalità:

– “il gruista calerà il contenitore per il ricevimento del materiale di scavo all’interno dello scavo; – nella fase di discesa del secchione l’escavatore sosterà nella parte opposta dello scavo in posizione protetta;

– con il cassone a terra il mezzo provvederà al carico, avendo cura di non superare il bordo superiore del contenitore stesso;

– con l’escavatore arretrato in posizione protetta, il gruista provvederà al sollevamento del carico”.

E si ricorda che tutta la fase lavorativa “deve essere coordinata tramite apparecchi ricetrasmittenti in possesso del gruista e dell’operatore a fondo scavo, che informandosi reciprocamente gestiranno l’interferenza lavorativa”.

 

Concludiamo ricordando che la scheda si sofferma anche su altri aspetti: accesso dei lavoratori allo scavo, procedure di emergenza, recupero dell’escavatore, getto del magrone, movimentazione delle armature metalliche, transito dei lavoratori sui ferri di armatura, …).

E nel documento sono presenti altre due schede di sicurezza di fase:

– sedimentazione – opere in c.a., carpenterie metalliche e montaggi;

– depuratore – filtrazione UV e disinfezione pluviali con ipoclorito.

 

 

INAIL – Dipartimento Innovazioni Tecnologiche e Sicurezza degli Impianti, Prodotti ed Insediamenti Antropici, “ La progettazione della sicurezza nel cantiere”, documento curato da Raffaele Sabatino (INAIL, Dipartimento Innovazioni Tecnologiche) e Antonio Di Muro (Professore a contratto presso l’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, Coordinatore della sicurezza in fase di progettazione ed esecuzione per conto di Enti pubblici e privati), con la collaborazione di Andrea Cordisco e Daniela Gallo, edizione 2015 (formato PDF, 48.38 MB).

Algoritmo cantieri (Formato XLS, 260 kB).

 

 

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RTM

 

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Fonte: puntosicuro.it

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La flessibilità organizzativa e la filosofia partecipata della sicurezza

Perché la sicurezza sul lavoro non sia un miraggio è importante comprendere la filosofia partecipata della prevenzione. La flessibilità organizzativa, la dimensione della partecipazione, la Corte di Cassazione e la comunicazione in materia di sicurezza.
 

Pesaro, 23 Gen –  La sicurezza sul lavoro “non è un miraggio, ma è la condizione a cui non può non puntare un’impresa che intenda definirsi tale alla luce di quanto stabilisce l’art. 41 della nostra vecchia ma inossidabile Costituzione: quello per cui l’intrapresa privata non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana”. Infatti è bene capire che, “grazie alla dimensione della partecipazione su cui si regge tutto l’assetto regolativo della prevenzione di cui al d.lgs. n. 81/2008, è possibile e non irrealistico adempiere l’obbligo di sicurezza”.

 

 

A fare queste affermazioni è il prof. Paolo Pascucci – Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’ Università di Urbino Carlo Bo – invitato a riassumere e tirare le conclusioni del convegno “Modelli di rappresentanza e forme di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori” – organizzato da OPRAM (Organismo Paritetico Regionale Artigianato Marche) e coordinato dallo stesso del prof. Pascucci  – che si è tenuto a Pesaro il 30 settembre 2016.

 

Il professor Pascucci nel suo intervento conclusivo si sofferma in particolare su alcuni aspetti della gestione della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro.

 

Ad esempio ricorda che nel convegno si è parlato diffusamente delle questioni legate alla tutela della sicurezza sul lavoro relative ai lavoratori che operano mediante contratti di lavoro flessibili e si è evidenziato “come i rischi della flessibilità tipologica (vale a dire connessa al tipo di contratto di lavoro utilizzato) si aggiungano ai normali rischi insiti nell’oggetto della prestazione dedotta in contratto”.

Tuttavia non si deve limitare l’attenzione alla sola flessibilità tipologica, bensì “estenderla alla flessibilità organizzativa, vale a dire quella che, a prescindere dal tipo di contratto di lavoro utilizzato, incide sul modo di rendere la prestazione”. E questo in relazione ai nuovi scenari dell’economia globalizzata in cui “le imprese sono chiamate a competere in modo sempre più spasmodico” e in cui emerge il “bisogno di una crescente capacità di adattamento dei lavoratori ai quali si chiede di fare e di saper fare più cose. L’oggetto dell’obbligazione di lavoro dedotta in contratto tende così ad ampliarsi, non limitandosi alle mansioni previste dal contratto medesimo od a quelle equivalenti”.

 

La relazione fa riferimento, in questo senso, alla modifica dell’art. 2103 c.c. ad opera dell’art. 3 del Decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81attuativo della delega contenuta nella l. n. 183/2014 (“Jobs Act”), dove “si è previsto, da un lato, che, in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore, lo stesso possa essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale e, da un altro lato, che ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, possano essere previste dai contratti collettivi. Si prevede inoltre che il mutamento di mansioni sia accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, il cui mancato adempimento non determina comunque la nullità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”.

E balza agli occhi – continua la relazione – come la modificazione in pejus delle mansioni, che non riguarda solo i contratti tipologicamente flessibili, “rischi di evidenziare nuovi problemi per la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori se non supportata da un’adeguata formazione. Il che, tuttavia, desta alcune perplessità se si considera che la nuova norma prevede sì l’assolvimento dell’obbligo formativo ove necessario, ma, nel contempo, in mancanza di tale assolvimento, lascia in essere la validità dell’atto di assegnazione delle nuove mansioni”. E c’è quindi da chiedersi “come possa ritenersi ragionevole che l’omessa formazione obbligatoria in materia di sicurezza”, benché penalmente sanzionata dal d.lgs. n. 81/2008 e che deve avvenire anche in occasione del cambiamento di mansioni, “non riverberi alcun effetto civilistico sulla validità dell’atto datoriale di assegnazione”.

 

Un altro aspetto del suo intervento, con riferimento alla “filosofia partecipata” della prevenzione che la direttiva quadro europea n. 391/1989 ha inaugurato, riguarda i “segnali che, finalmente, iniziano a cogliersi anche nel diritto vivente, vale a dire nelle pronunce della giurisprudenza, che inizia ad avvertire la portata delle innovazioni introdotte dal d.lgs. n. 81/2008”.

Ne sarebbe prova, ad esempio, una pronuncia della Cassazione penale ( Sez. IV, 10/02/2016, n. 8883) che, sulla scorta della natura “collaborativa” (cioè “partecipata”) dell’attuale sistema di prevenzione, afferma che ‘il datore di lavoro non ha più… un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell’evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore’.

Una sentenza che, ad avviso del relatore, “lungi da significare che il datore di lavoro sia esonerato da qualsiasi responsabilità, può lasciare intendere che, ove lo stesso datore abbia adeguatamente provveduto a tutti gli adempimenti prevenzionistici e, in particolare, a fornire al lavoratore una adeguata formazione, nel senso pregnante con cui il legislatore la definisce nell’art. 2 del d.lgs. n. 81/2008, in caso di infortunio non potrà non tenersi nel debito conto l’effettivo comportamento del lavoratore al quale quell’adeguata formazione abbia fornito le necessarie competenze per svolgere in sicurezza le proprie mansioni”. E ciò può contribuire a “stemperare la rigidità di quell’orientamento giurisprudenziale secondo il quale il datore di lavoro non risponde dell’infortunio solo in caso di un comportamento del tutto esorbitante o abnorme ed imprevedibile del lavoratore”.

 

La relazione conclusiva, che si sofferma anche sugli organismi paritetici e sul ruolo del RLST, si conclude affrontando il tema della comunicazione in materia di sicurezza sul lavoro.

Una comunicazione in cui “troppo spesso i messaggi sulla sicurezza sul lavoro hanno come eco di fondo il tintinnar di manette”. In cui “troppo spesso, anche in eventi pubblici di notevole rilievo culturale, si tende a convincere gli astanti sull’importanza della sicurezza sul lavoro con la minaccia delle sanzioni penali”.

Il messaggio secondo cui, “per quanto tu possa adoperarti, in caso di infortunio 99 volte su 100 il datore di lavoro sarà chiamato a risponderne” non solo “finisce per dar sostanzialmente ragione a chi sostiene che quella di cui all’art. 2087 c.c. è una responsabilità oggettiva – il che, però, non è vero” – ma anche scoraggia e disincentiva “chi voglia intraprendere azioni virtuose”.

 

Ed invece, come riportato in apertura di articolo, occorre sforzarsi di far capire che proprio grazie alla dimensione della partecipazione “è possibile e non irrealistico adempiere l’obbligo di sicurezza, facendo leva soprattutto su tutti quegli strumenti che il legislatore ha previsto per supportare l’azione delle imprese”. Un approccio che, “lungi dal liberare il datore di lavoro dalla sua primaria posizione di garanzia quale principale obbligato in merito alla sicurezza sul lavoro”, tuttavia può far sì che il datore di lavoro “esca dal solipsismo in cui le vecchie norme lo relegavano, affiancandogli nello stesso sistema aziendale di prevenzione una serie di soggetti (RSPP, ASPP, Medico competente, Lavoratori, RLS ecc.), i quali, ognuno con propri compiti, funzioni e/o prerogative, possono sostenerlo nella costruzione e nel miglioramento di detto sistema prevenzionistico”.

 

 

 

“ Intervento conclusivo delProf. Paolo Pascucci”,Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Urbino Carlo Bo – Presidente della Commissione tecnico-scientifica dell’Osservatorio Olympus, intervento al convegno “Modelli di rappresentanza e forme di tutela della salute e sicurezza dei lavoratori” (formato PDF, 138 kB).

 

 

Tiziano Menduto

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Trasporto transfrontaliero di rifiuti: piano nazionale delle ispezioni

È stato definito il piano nazionale delle ispezioni presso stabilimenti, imprese, intermediari e commercianti coinvolti in spedizioni transfrontaliere di rifiuti. Il sistema di raccolta dati, il contenuto delle ispezioni e il decreto del 22 dicembre 2016.
 

Con un regolamento, è stato definito il piano nazionale delle ispezioni presso stabilimenti, imprese, intermediari e commercianti coinvolti in spedizioni transfrontaliere di rifiuti.

Queste ispezioni, previste in un numero minimo di 100/anno, saranno concentrate sulle spedizioni, in ingresso o in uscita del territorio italiano, riguardanti le tipologie di rifiuti riportate nell’allegato I al regolamento.

 

 

Sistema informatico di raccolta dati

Per pianificare ed organizzare queste verifiche, presso il Ministero dell’Ambiente verrà istituita una banca dati informatica, a cui potranno accedere tutte le autorità e gli organi di controllo interessati.
In particolare segnaliamo che per ogni spedizione di rifiuti, l’autorità competente aprirà un’apposita scheda in questa banca dati.

In ogni scheda i notificatori/destinatari della spedizione dovranno rispettivamente indicare:

 

Notificatori:

– Almeno 3 giorni lavorativi prima dell’inizio del viaggio, la data effettiva di spedizione;
– Al momento della partenza: quantità di rifiuti spedita, targhe degli automezzi (per viaggi su strada) o dati identificativi dei container trasportati;

– Effettuare il download del documento di movimento compilato e firmato;

 

Destinatari:
– Data di ricevimento dei rifiuti da parte dell’impianto;

– Data di recupero/smaltimento non intermedio effettuato nell’impianto;

– Effettuare il download del documento di movimento, quando ne è terminata la compilazione.

 

Sul sito web del Ministero dell’Ambiente verrà pubblicato un apposito manuale per l’utilizzo di questo sistema informatico.

 

Contenuti delle ispezioni

Le ispezioni effettuate presso stabilimenti, imprese, intermediari e commercianti devono riguardare almeno la sussistenza e la validità della documentazione autorizzatoria dell’attività di gestione rifiuti, l’idoneità dei siti e degli impianti di gestione dei rifiuti.

 

Queste ispezioni dovrebbero essere coordinate con quelle previste dalle normative riguardanti l’ autorizzazione integrata ambientale, la prevenzione del rischio d’incidenti rilevanti o l’autorizzazione/comunicazione per l’attività di trattamento rifiuti.

 

Le ispezioni riguardanti le spedizioni di rifiuti dovranno verificare la documentazione di accompagnamento alla spedizione, il contenuto dei carichi trasportati, l’integrità degli imballaggi, l’accertamento delle identità dei soggetti coinvolti nella spedizione e la verifica dell’iscrizione del trasportatore all’Albo Nazionale Gestori Ambientali.

 

Riferimenti normativi: Decreto Ministeriale 22 dicembre 2016

 

 

Interpreta©

 

Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare – Decreto 22 dicembre 2016 -Adozione del Piano nazionale delle ispezioni di stabilimenti, imprese, intermediari e commercianti in conformità dell’art. 34 della direttiva 2008/98/CE, nonché delle spedizioni di rifiuti e del relativo recupero o smaltimento. (17A00047).

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

Generic

La tutela della salute e sicurezza nei lavoratori minorenni

Un volume dedicato alle PMI e al mondo dell’artigianato riepiloga la normativa in materia di salute e sicurezza. Focus sulle tutele per i lavoratori di minore età: la normativa, gli obblighi, la valutazione e le lavorazioni vietate.
 

Milano, 16 Gen – In materia di salute e sicurezza ogni azienda deve occuparsi della tutela delle categorie di lavoratori particolarmente a rischio, come, ad esempio, i lavoratori di minore età.

A questo proposito ricordiamo che l’art. 28 (Oggetto della valutazione dei rischi) del Decreto legislativo 81/2008 stabilisce l’obbligo di valutare tutti i rischi per la sicurezza e per la salute dei lavoratori in relazione alla natura dell’attività svolta, ivi compresi(…) quelli connessi alle differenze di genere, all’età, alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale attraverso cui viene resa la prestazione di lavoro.

 

Ma cosa si intende per lavoratori minorenni? E quali sono gli obblighi per le aziende e per i datori di lavoro?

 

 

Per rispondere a questa domanda riprendiamo la presentazione del volume “ Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, realizzato dall’Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia ( OPRA Lombardia) e dai vari Organismi Paritetici Territoriali Artigiani (OPTA), che dedica uno specifico capitolo ai lavoratori di minore età.

 

Ricordando che l’età minima per l’ammissione al lavoro è “fissata al momento in cui il minore ha concluso il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non può essere inferiore ai 15 anni”, si segnala che con la locuzione “lavoro minorile” si indica “il lavoro dei bambini e degli adolescenti (persone che non hanno ancora compiuto i 18 anni di età)”.

E si indica che la specificità del lavoro di persone di minore età, è “ravvisabile nella presenza di limiti alla capacità di lavoro in relazione sia all’età sia alle modalità di impiego” Limiti che richiedono un “livello più elevato di tutela della salute dei lavoratori minorenni”.

 

Come indicato all’art. 2 della Legge 17 ottobre 1967, n. 977 “Tutela del lavoro dei bambini e degli adolescenti”, non rientrano nell’ambito di applicazione della normativa in materia di lavoro minorile quei “lavori occasionali o di breve durata svolti dagli adolescenti nei servizi domestici prestati in ambito familiare, nonché nelle imprese a conduzione familiare, sempreché tali prestazioni non si concretino in attività nocive e/o pregiudizievoli”. E la normativa in materia di lavoro minorile non si applica anche:

– alle “lavoratrici minori gestanti, puerpere o in allattamento nei confronti delle quali si applicano le disposizioni del D.Lgs. n. 645/1996 ove queste assicurino un trattamento più favorevole;

– agli adolescenti occupati a bordo delle navi per i quali sono fatte salve le specifiche disposizioni legislative o regolamentari in materia di sorveglianza sanitaria, lavoro notturno e riposo settimanale in ragione di una riconosciuta peculiarità ed inderogabilità delle norme sul lavoro marittimo. L’interesse generale alla sicurezza della navigazione, infatti, è ritenuto prevalente rispetto alla tutela predisposta per il lavoro subordinato”.

 

Al di là di quanto rischio dall’art. 28 del D.Lgs. n. 81/2008, riguardo alla valutazione dei rischi, il documento segnala che lo stesso art. 7 della legge n. 977/1967 stabilisce che il Datore di Lavoro, “prima di adibire i minori al lavoro e in occasione del verificarsi di qualsivoglia modifica rilevante delle condizioni di lavoro, deve effettuare la suddetta valutazione dei rischi avendo riguardo, in particolare:

  1. a) allo sviluppo non ancora completo, alla mancanza di esperienza e di consapevolezza nei riguardi dei rischi lavorativi, esistenti o possibili, in relazione all’età;
  2. b) alle attrezzature ed alla sistemazione del luogo e del posto di lavoro;
  3. c) alla natura, grado e durata di esposizione agli agenti chimici, biologici e fisici;
  4. d) alla movimentazione manuale dei carichi;
  5. e) alla sistemazione, alla scelta, alla utilizzazione ed alla manipolazione delle attrezzature di lavoro e, segnatamente degli agenti, macchine, apparecchi e strumenti;
  6. f) alla pianificazione dei processi di lavoro e dello svolgimento del lavoro e della loro interazione sull’organizzazione generale;
  7. g) alla situazione della formazionee dell’informazione dei minori”.

E si sottolinea inoltre l’obbligo per il datore di lavoro, nel caso in cui siano impiegati dei minori, di fornire le informazioni di cui all’art. 36 (Informazione ai lavoratori) del D.Lgs. 81/2008 anche ai genitori (o ai titolari della potestà genitoriale).

 

Il documento si sofferma poi sulle lavorazioni vietate.

Infatti ai sensi dell’art. 6 della legge n. 977/1967 è vietato “adibire gli adolescenti alle lavorazioni, ai processi ed ai lavori indicati nell’Allegato I della legge”, allegato che “elenca tutte le lavorazioni, i processi ed i lavori distinguendo tra esposizioni ad agenti chimici, fisici e biologici”.

In particolare riguardo ai singoli agenti di rischio il Ministero del lavoro ha fatto alcune precisazioni:

  1. a) rumore: “il divieto di esposizione al rumorenon opera automaticamente ma discende dalla valutazione dei rischi e scatta a partire da un livello di 80 dbA”. La valutazione deve essere operata sulla base delle disposizioni di cui al D.Lgs. 81/2008. “In caso di esposizione media giornaliera degli adolescenti al rumore superiore a 80 decibel LEP-d (livello di esposizione quotidiana, ndr) il Datore di Lavoro – fermo restando l’obbligo di ridurre al minimo i rischi derivanti dall’esposizione al rumore mediante misure tecniche, organizzative e procedurali – deve fornire ai minori i mezzi individuali di protezione dell’udito ed una adeguata formazione all’uso degli stessi”;
  2. b) agenti chimici: “fermo restando il divieto assoluto di esposizione agli agenti etichettati come molto tossici, tossici, corrosivi, esplosivi ed estremamente infiammabili, per gli agenti nocivi ed irritanti il divieto vige solo per quelli etichettati con le frasi di rischio riportate nell’Allegato 1. Ad esempio, tra gli agenti irritanti sono vietati solo quelli sensibilizzanti per inalazione o per contatto cutaneo. Per tutti gli agenti sopra considerati il divieto vige indipendentemente dalle quantità presenti nell’ambiente di lavoro. Si ritiene, comunque, opportuno evidenziare che, laddove il divieto è riferito solo ad alcune fasi del processo produttivo, lo stesso si riferisce a tali specifiche fasi e non all’attività nel suo complesso. Ad esempio, il divieto di lavoro nei magazzini frigoriferi riguarda solo l’accesso a tali luoghi e non l’attività nel suo complesso (supermarket, magazzini ortofrutticoli, ecc.)”. Si indica anche che l’art. 6 della legge 977/1967 “prevede la possibilità di derogare al divieto di adibire ai lavori indicati nell’Allegato I, per scopi didattici e di formazione professionale”.

 

Il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, riporta poi indicazioni relative alla sorveglianza sanitaria, al lavoro notturno e sintetizza, in conclusione, alcuni aspetti relativi al rapporto tra azienda e lavoro minorile:

– riferimento normativo: “la Legge 977/67, il D.Lgs. 345/99 e il D.Lgs. 262/00 relativi alla protezione dei giovani sul lavoro”;

– obbligo: “il datore di lavoro, prima di assumere il minore, deve effettuare una specifica Valutazione del rischio legata alla mansione svolta dal minore, in funzione delle attitudini e dello sviluppo psico-fisico dello stesso. Inoltre deve verificare l’idoneità sanitaria alla mansione; – mantenimento: le visite mediche atte a garantire la sorveglianza sanitaria dovranno essere svolte con la periodicità indicata dal medico Competente;

– comunicazioni: il datore di lavoro deve comunicare ai genitori del minore (o a chi esercita le potestà genitoriali) e al minore stesso l’avvenuta valutazione dei rischi e gli esiti della stessa in rapporto alle mansioni che verranno svolte dal minore, nonché gli esiti delle visite di sorveglianza sanitaria”.

 

 

Organismo Paritetico Regionale per l’Artigianato Lombardia, “ Salute e Sicurezza nelle imprese artigiane e nelle PMI: cosa occorre sapere e cosa si deve fare”, 2014 (formato PDF, 4.20 MB).

 

 

 

RTM

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it