Loading
Generic

Settore metalmeccanico: l’esposizione alle radiazioni ionizzanti

Un documento sulla prevenzione dei rischi nelle aziende metalmeccaniche si sofferma sull’esposizione alle radiazioni ionizzanti. Le radiazioni, gli irraggiamenti, le sorgenti sigillate e non sigillate, la normativa e i materiali metallici di recupero.
 

Roma, 25 Ott – Abbiamo presentato in questi anni i rischi correlati all’esposizione a radiazioni ionizzanti partendo dai possibili effetti sulla salute e, generalmente, se non per le applicazioni medico-sanitarie, senza far riferimento ai rischi specifici all’interno di un particolare comparto lavorativo.

 

 

Dopo aver presentato le radiazioni ionizzanti – “così dette perché sono in grado di ionizzare la materia, cioè di attraversarla e di cederle energia, inducendo in essa delle trasformazioni a livello atomico” – il documento si ricorda che le tali radiazioni “hanno un largo impiego in ambito sanitario e, in misura più limitata, in ambito industriale. Mentre nel primo caso l’esposizione a radiazioni è volontariamente applicata in modo controllato per fini diagnostici e terapeutici, nel secondo è assolutamente indebita e quindi da escludere in modo rigoroso. La possibilità di contaminazione, definita irraggiamento, che si verifica quando le radiazioni raggiungono e penetrano nell’organismo umano, dipende, oltre che dalle modalità dell’esposizione, anche dalle caratteristiche delle radiazioni stesse”.

 

Il documento, che vi invitiamo a visionare, opera poi distinzioni tra:

– irraggiamento esterno: “quando le radiazioni raggiungono la cute attraversando l’aria, se si tratta di raggi, o per contatto accidentale con sostanze radioattive, se si tratta di sorgenti o materiali radioattivi;

– irraggiamento interno: quando si ha inalazione o ingestione di sostanze (polveri, gas) che emettono radiazioni. In questo caso, l’effetto sugli organi interni è molto più diretto e persistente”.

Inoltre a livello di sorgente si parla di:

– sorgenti sigillate: consistono in elementi radioattivi “incapsulati in contenitori di piombo e acciaio inossidabile che impediscono il rilascio delle sostanze contenute”;

– sorgenti non sigillate: “più facilmente disperdibili sotto forma di polveri, liquidi o gas”.

 

In particolare nell’applicazione industriale, le sorgenti sigillate sono impiegate per:

–  “Gammagrafie, con impiego di radiazioni γ, per controlli non distruttivi di saldature, qualità di getti di fusione, ecc;

– Analisi di materiali con tecniche di fluorescenza e impiego di radiazioni X;

– Misurazione di spessore di vari materiali, come fibre tessili, plastiche, carta, metalli, e di livello del contenuto di serbatoi, con impiego di radiazioni γ e β;

– Processi industriali di sterilizzazione, polimerizzazione, conservazione, con impiego di radiazioni γ;

– Applicazioni diverse come parafulmini, rivelatori di incendio, stabilizzatori di scarica, scaricatori elettrostatici;

– Utilizzo di materiale di rottamazione per seconde fusioni, contenente sorgenti dismesse”.

 

Inoltre può accadere che “materiali metallici di recupero, particolarmente se di provenienza estera, contengano materiali radioattivi. Qualora non identificati, questi possono contaminare le fusioni, gli impianti di fusione, e tutti i semilavorati e prodotti finiti che ne derivano. La possibile irradiazione è legata principalmente ad alcune fasi operative delle attività sopra citate, quando cioè l’elemento radioattivo necessario per compiere le misurazioni viene estratto dal suo involucro, fase automatica comandata a distanza; l’irradiazione può avvenire quando non sono rispettate le distanze di sicurezza e ci si trova nel raggio d’azione dell’elemento radioattivo”. E non trascurabile è “l’esposizione a sorgenti abbandonate e non riconosciute, come i vecchi rilevatori di fumo o i parafulmini dimessi”.

Si ricorda che le sorgenti non sigillate sono “principalmente impiegate nelladiagnostica medica nucleare, ad esempio nella scintigrafia, che indaga organi specifici ai quali è fatto pervenire un tracciante radioattivo. La possibilità di contaminazione è legata alla conservazione e alla manipolazione dei radioisotopi, alla pulizia e allo smaltimento di liquidi biologici contenenti elementi radioattivi”.

 

Il documento si sofferma poi sugli effetti biologici, cioè le trasformazioni che avvengono sull’organismo dovute all’assorbimento di energia nei tessuti, e riporta alcune indicazioni su normative e prevenzione.

 

In particolare si ricorda che l’utilizzo di sorgenti e macchine radiogene è “disciplinato da numerose norme tra cui il Decreto Legislativo 230 del 17 marzo 1995, modificato dal Decreto Legislativo n. 241 del 26 maggio 2000”.

Queste norme specificano il “regime autorizzativo, come le comunicazioni di detenzione e di cessazione di detenzione di sorgenti o impianti (art. 22 e 24), le condizioni di esenzione, e le disposizioni di radioprotezione”. Ed è prevista la “nomina di un Esperto Qualificato, un fisico abilitato e iscritto a un apposito albo, che provvede a redigere una relazione preventiva contenente la valutazione e le indicazioni di radioprotezione, la definizione delle zone a rischio, dette controllate e sorvegliate, la verifica delle installazioni, la definizione delle categorie di esposizione (A e B) dei lavoratori, la programmazione della sorveglianza ambientale e delle dosimetrie personali (sorveglianza fisica). La sorveglianza sanitaria è invece affidata al Medico Autorizzato, anch’esso abilitato specificamente alla radioprotezione”.

 

In pratica – continua il documento – le disposizioni operative sulla radioprotezione “sono stabilite per ogni specifico impianto dall’Esperto Qualificato, e riportano ad esempio il tipo e la posizione delle schermature da predisporre in modo da isolare l’area anche al di sotto e al di sopra della sorgente o nella zona di impatto dei fasci di radiazioni, i controlli preliminari e finali degli impianti (ad esempio la taratura o il controllo della contaminazione ambientale), la presenza di segnalazioni di avvertimento, la minimizzazione degli operatori impiegati e il contenimento dei tempi di esposizione, l’allontanamento di personale non direttamente interessato all’attività”. E in questo senso le indicazioni di comportamento “non sono di ordine generale, bensì specifiche per ogni tipo di attività, di impianto, di luogo fisico dove questa si svolge: l’unica figura di riferimento che può intervenire per modificarle, integrarle, correggerle è l’Esperto Qualificato, che è anche responsabile della loro efficacia”.

 

Ricordiamo infine che nel caso di “utilizzo di materiali metallici di recupero, rottami o semilavorati provenienti da seconde fusioni di rottami, è utile richiedere al fornitore una certificazione che il materiale sia stato sottoposto a misure radiometriche”.

Infatti l’art. 157 del già citato Decreto Legislativo 230/1995 e le norme locali applicative di alcune regioni italiane impongono la “sorveglianza radiometrica a chi commercializza e recupera, mediante fusione, rottami metallici. Non è infrequente, infatti, che vengano ritrovate sorgenti o materiali contaminati, soprattutto nei materiali di recupero”.

 

 

 

Inail, “ Labor Tutor – Un percorso formativo sulla prevenzione dei fattori di rischio tipici del settore metalmeccanico”, realizzato in collaborazione con Enfea, edizione 2011, pubblicato nel mese di marzo 2012 (formato PDF, 6.33 MB).

 

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ Percorsi formativi per la prevenzione dei fattori di rischio correlati al settore metalmeccanico”.

 

 

RTM

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

Articoli

Mobbing e stress: l’importanza del contesto organizzativo

Un documento si sofferma sull’organizzazione del lavoro come sistema vivente e sul contesto in cui sorge l’azione del mobbing. La necessità di diagnosi in grado di declinare il disagio lavorativo su un piano organizzativo.
 

Milano, 25 Ott – Adriano Olivetti nel 1955 disse ai lavoratori di Pozzuoli che la fabbrica era concepita ‘alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza’. Una frase che sottolinea la convinzione che “non si può pensare agli aspetti economici di un’impresa senza pensare alle persone che ‘abitano’ il contesto dell’azienda” e la dimensione umana “resta un elemento con cui è doveroso fare i conti se si vuole riuscire a costruire qualcosa di importante e di utile”.

 

A ricordare questa frase di Olivetti e a parlare di dimensione umana e organizzazione è un intervento che si è tenuto ad un workshop di Firenze – organizzato dall’Associazione Italiana Benessere e Lavoro (un’associazione che continua l’esperienza del Network sullo Stress e il Disagio Lavorativo attivo presso l’ISPESL tra il 2006 e il 2010) – e che è stato presentato al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” organizzato da AIBEL, ATS Milano e SNOP (Milano, 7 giugno 2016).

 

 

Nell’intervento “L’organizzazione del lavoro come sistema vivente: Analisi organizzativa, valutazione del rischio lavoro correlato e limiti delle metodologie semplificate” , a cura del Dr. Enzo Cordaro (Presidente Associazione Italiana Benessere e Lavoro), ci si sofferma in particolare sul disagio sul lavoro, con particolare riferimento al fenomeno del mobbing e al lavoro dei vari Centri Clinici che operano in relazione al tema del disagio lavorativo.

 

Come interpretare il fenomeno del mobbing?

 

Per rispondere a questa domanda si indica che è importante provare a comprendere con precisione il “contesto organizzativo in cui sorge l’azione del mobbing, rivolgendo l’attenzione sulla cultura organizzativa che orienta i comportamenti delle persone che insistono in quell’organizzazione”. È importante altresì “svincolare l’analisi fino ad ora quasi esclusivamente riferita ai due ‘contendenti’ (mobber e mobbizzato) come gli attori principali di uno scenario che sembrava apparire come avulso dal contesto in cui il conflitto si generava”.

È insomma necessario “vedere la ‘scena’ inquadrata con un ‘grandangolare’ e non con un ‘teleobbiettivo’”: si deve “guardare anche il contorno della complessità di quello che si ‘muove’ nella realtà in cui si genera il problema mobbing, e non si deve rimanere chiusi nella stretta analisi duale”.

 

Infatti – continua l’analisi del documento – il mobbing si può considerare come il “frutto di una degenerazione della relazionalità che ha le sue origini nell’ambito di un processo organizzativo che imposta atteggiamenti e comportamenti riferiti a una cultura dominante: se nella cultura di un’organizzazione si potenziano comportamenti in cui la solidarietà nelle relazioni è bandita a favore di una feroce ed esasperata competitività, se le relazioni di funzionamento dell’organizzazione non prevedono la capacità di adeguamento da parte delle persone, se l’efficienza delle prestazioni non si rapporta ad un’adeguata efficacia delle azioni, se i processi comunicativi sono interdetti a favore di un controllo esasperato delle relazioni, se non c’è la volontà di risolvere la conflittualità relazionale che si può generare all’interno dei gruppi di lavoro, siamo, conseguentemente, in una condizione di forte rischio sociale che in quell’organizzazione può esprimere un’azione espulsiva delle persone”.

 

E tra l’altro è la stessa Associazione Italiana Benessere e Lavoro (AIBeL) a proporre un sistema interpretativo “articolato all’interno di una processualità che si compie nell’ambito di un contesto che si riferisce alla struttura dell’organizzazione dell’impresa e che detta le regole di funzionamento alle persone, le quali condizionano il modo di lavorare, e impostano una cultura organizzativa che definisce comportamenti e modelli comunicativi e relazionali tra i soggetti”.

 

Se si chiarisce l’importanza del contesto organizzativo “che funziona come setting in cui si generano e si caratterizzano le relazioni”, ci si può riferire al mobbing come fenomeno processuale. Si può considerare la processualità che “induce alla definizione della qualità della vita interna a quell’organizzazione; ovvero la complessità dinamica in cui si articola la relazionalità dei soggetti per saper distinguere e comprenderne la dinamica sociale e valutarne la disfunzionalità”.

 

Ad esempio quando in un’azienda “si configura una condizione di precarietà che impone programmi di emergenza e non si ha la capacità di proporre un progetto stabile per il superamento del conflitto, si può definire una situazione di rigidità nelle regole organizzativeche possono aggravare la complicazione concernente le costrittività organizzative (aumento della quantità di lavoro, riduzione delle garanzie, incremento dei controlli ossessivi, diminuzione dei tempi di riposo etc.), che riducono lo spazio di autonomia lavorativa individuale e aumenta la fatica”. Ed è una condizione che “genera stanchezza fisica e psichica, caduta dell’attenzione, incremento dell’errore, irritabilità, noia e aggressività. In questa situazione il disagio individuale può assumere anche connotazioni alte, si può incrementare il rischio clinico, ma il rischio dell’insorgenza di patologie stress lavoro correlato sono limitate”.

 

Qualora poi il sistema dei provvedimenti provvisori “divenga stabile nel tempo, la dimensione dell’organizzazione incrementa ulteriormente il livello di costrittività, aumenta il livello di fatica e il disagio invade anche la sfera più intima che riguarda la percezione del sé riferito alle proprie competenze lavorative. In questo caso si attiva anche la costrittività esistenziale del lavoro, che si riferisce alla stabilità dell’immagine che le persone costruiscono all’interno del ruolo e delle attività che ricoprono sul posto di lavoro, e misura il livello di scostamento dall’immagine soggettiva della realtà in cui ciascun soggetto è inserito. Questo non fa che implementare il disagio apportando, ai problemi sopra citati, altri problemi, come il disinteresse all’attività lavorativa, la caduta dell’immagine positiva di sé, il senso d’inutilità, un certo disturbo dell’umore con connotazioni depressive, l’ansia come emozione prevalente che accompagna l’atto lavorativo, reazioni psicosomatiche”.

 

E se il sistema vivente – l’organizzazione lavorativa – non riesce ancora a trovare soluzioni per recuperare quanto descritto, la “condizione successiva caratterizza l’insorgenza delle costrittività relazionali, che definisce una condizione dove si esplica una dominanza delle modalità comunicativa simmetrica rigida, si incrementa la conflittualità e la confusione sui contenuti dello scambio comunicativo (l’oggetto del confronto perde la sua identità cognitiva per caratterizzarsi solo come dominante emotiva di espressione di potere), si altera l’affettività, il gruppo diviene competitivo e conflittuale, si genera una condizione di passività relazionale, che caratterizza una cultura del sistema con aspetti ansiosi e paranoidei”.

E in una situazione di disallineamento delle reti conversazionali e rottura delle architetture comunicative si può arrivare alla “tempesta perfetta”, situazione “in cui da un rischio di patologiestress lavoro correlato, si passa ad un forte rischio dove si attivano atteggiamenti di mobbing e, ancora più grave, si generano nuclei di reti morenti, ovvero nuclei che non riescono più a garantire una rete comunicativa e un passaggio comunicativo adeguato alle esigenze di una buona organizzazione, implementando il disagio e l’incomunicabilità dei settori dell’organizzazione”.

 

In definitiva questa visione sistemica “dove i soggetti di un’organizzazione sono direttamente rapportati al contesto che li contiene, non può essere soddisfatta da una diagnosi di tipo fenomenologico, utile per inquadrare la sofferenza individuale”. È necessaria anche una “diagnosi proposizionale”, una “diagnosi capace di declinare quel disagio sul piano organizzativo”.

 

L’intervento, che vi invitiamo a leggere integralmente e che si conclude parlando dei compiti deicentri clinici delle Aziende Sanitarie Locali e delle Aziende Ospedaliere Universitarie che attualmente si occupano del disagio mobbing compatibile e della certificazione delle patologie mobbing correlate, sottolinea infine la dimensione sociale e organizzativa.

 

Infatti in una diagnosi di disagio da lavoro “non si possono non tenere in considerazioni tutte le parti che compongono il sistema, perché è solo se riusciamo a leggere il dato complessivo che possiamo avere una giusta considerazione delle dimensioni specifiche, ad esempio del disagio individuale”. E non si può pensare di “definire la correlazione tra il disagio individuale e la dimensione lavorativa se non si conoscono le condizioni della dimensione sociale in cui il soggetto esplica la sua attività lavorativa”.

 

 

“ L’organizzazione del lavoro come sistema vivente: Analisi organizzativa, valutazione del rischio lavoro correlato e limiti delle metodologie semplificate” , a cura del Dr. Enzo Cordaro (Presidente Associazione Italiana Benessere e Lavoro), intervento al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” (formato PDF, 130 kB).

 

 

Tiziano Menduto

 

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

Generic

La delega di funzioni nella giurisprudenza degli ultimi 2 anni

La delega dell’obbligo di formazione al di là del DVR, fino a dove deve arrivare la vigilanza del delegante, la delega al Responsabile Lavori, la delega ambientale, la differenza coi poteri originari e coi “garanti di fatto”. Di Anna Guardavilla.
 

Alcune sentenze in materia di delega di funzioni (attualmente disciplinata dall’articolo 16 del D.Lgs.81/08) emanate dalla Cassazione Penale negli ultimi due anni si segnalano per il loro particolare interesse.

Proponiamo qui di seguito una sintesi di queste pronunce – come sempre senza pretese di esaustività – suddivise per argomenti e non elencate in ordine strettamente cronologico, benché tutte emanate nell’ultimo biennio.

 

 

La delega dell’obbligo di formazione e informazione (art. 18 c.1 lett.l) D.Lgs.81/08) vale anche quando il DVR è carente in materia

 

In Cassazione Penale, Sez. IV, 2 febbraio 2016, n. 4347 era stato contestato “al T.F., in qualità di dirigente all’uopo delegato, di essere venuto meno ai propri obblighi di formazione ed informazione derivanti dai piani annuali pertinenti per il 2007/2008.”

Egli ricorre in Cassazione e, in uno dei suoi motivi di ricorso, “asserisce che non potevasi a lui richiedere un obbligo di formazione ed informazione a riguardo di una procedura operativa non prevista dal DVR.”

 

La Corte rigetta il ricorso affermando che l’obbligo di formare ed informare al quale era tenuto, per delega, il T.F., non consta dagli atti sottoposti al giudizio di legittimità potersi intendere limitato a quanto definito nel DVR, anche se lo stesso fosse da considerare difettoso, trovando, invece, fonte negli attuali artt.36 e 37 (sostanzialmente riproduttivi delle previsioni previgenti).

In altri termini, al predetto era stato assegnato uno dei compiti datoriali delegabili (quello di cui all’attuale art.18, comma 1, lett.l) e il delegato aveva l’obbligo di organizzare la didattica antinfortunistica per tutti gli addetti, concernente tutte le tematiche settorialmente rilevanti.

Ove l’imputato avesse fatto luogo all’azione doverosa omessa, che avrebbe portato ad acquisire piena consapevolezza delle modalità attraverso le quali caricare in sicurezza l’autocarro, l’evento non si sarebbe verificato, o avrebbe avuto conseguenze meno gravi.”

 

In cosa consiste concretamente l’obbligo di vigilanza del delegante sull’attività del delegato

 

Moltissime sentenze sulla delega ribadiscono il principio secondo il quale il delegante deve vigilare sul corretto espletamento delle attività delegate, ma un po’ meno sono quelle che  entrano nel merito del contenuto operativo di questo obbligo di vigilanza.

Vediamone una che tratta questo tema un po’ più nel dettaglio.

 

Cassazione Penale, Sez.IV, 22 giugno 2015 n. 26279, infatti, una volta ricordato il “principio secondo il quale esiste una responsabilità residuale del datore di lavoro che ha l’obbligo di vigilanza ex art.16, comma 3, d.lgs.81/2008”, si sofferma, ricollegandosi alla sentenza della Corte d’Appello, “sul concetto di “vigilanza alta”, che ha per oggetto il corretto svolgimento delle proprie funzioni da parte del soggetto delegato, con l’obbligo del datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive.”

La Corte conferma qui l’assoluzione del datore di lavoro C.F. il quale aveva conferito delega di funzioni a DL.M.

Da vari elementi in fatto la Corte “ha tratto la convincente conclusione che gli ampi poteri conferiti al geometra DL.M. rappresentassero a tutti gli effetti una delega di funzioni, come contemplata dall’art.16, d.Lgs 81/2008, in quanto comprensiva di tutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo richiesti dalla natura delle funzioni delegate, ivi compreso il potere di spesa, attribuito, implicitamente, ma indubitabilmente, con la clausola di chiusura, generica ma omnicomprensiva, attributiva di “ogni potere relativamente agli incarichi affidatigli, anche se qui non espressamente previsto”.

Su queste premesse, i giudici di merito hanno fondato l’assoluzione del C.F., nella qualità di datore di lavoro, rimarcando, il primo giudice, l’assoluta estraneità dell’imputato alle questioni legate alla sicurezza del cantiere, ed il secondo, fornendo una interpretazione dell’obbligo di vigilanza spettante al datore di lavoro ex art. 16 comma 3, d.Lgs 81/2008, incompatibile con l’assunzione di responsabilità in sede penale patrocinata dal difensore della parte civile.”

La sentenza di Cassazione approfondisce questo punto: “il ruolo di vigilanza di cui al comma 3, del citato art.16, d.Lgs.81/2008, tuttavia, come ben chiarito dalla Corte di merito, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (v. la richiamata sentenza Sezione IV, 1 febbraio 2012, n.10702, Mangone, che si è soffermata proprio su questo aspetto) non può avere per oggetto la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni – che la legge affida al garante – concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato.”

Pertanto “ne consegue che l’obbligo di vigilanza del delegante è distinto da quello del delegato – al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo – e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni.

In coerente applicazione di tale principio la Corte di merito ha ritenuto che il C.F., nella sua qualità di amministratore della società e datore di lavoro, era tenuto, in presenza di valida delega di funzioni, a verificare che il preposto alla gestione del sistema di sicurezza del cantiere,curasse l’applicazione in cantiere delle politiche stabilite dalla direzione aziendale per le attività di sicurezza ed il costante adeguamento dei piani di sicurezza elaborati dal responsabile aziendale per la sicurezza, non anche che venissero concretamente adottate, nelle singoli fasi di lavorazione, le precauzioni necessarie alla prevenzione del rischio.”

 

Delega conferita dal Committente al Responsabile dei Lavori

 

Cassazione Penale, Sez.IV, 11 agosto 2015 n. 34818 ricorda che è da escludere che la delegain tema di sicurezza possa essere attribuita dal committente ad un responsabile dei lavori individuato nel datore di lavoro dell’impresa esecutrice.

Una tale eventualità, infatti – come già condivisibilmente osservato da questa Corte (Sez. 4, n. 1490 del 20/11/2009, dep. 2010, Fumagalli, non mass, sul punto) – «riprodurrebbe ad un più alto livello di responsabilità, l’inconcepibile identificazione tra controllore e soggetto controllato per ciò che riguarda la sicurezza del cantiere.”

 

Nel precedente giurisprudenziale che viene richiamato dalla Corte, ovvero Cassazione Penale, Sez. IV, 14 gennaio 2010 n. 1490la Corte aveva già avuto modo di chiarire che “l’esonero da responsabilità del committente è commisurato alla sfera dell’incarico conferito. Ne discende in primo luogo che l’incarico in questione, che lo si voglia o meno tratteggiare come una forma di delega, per assumere rilevanza giuridica deve comunque presentare una chiara evidenza formale, di guisa che sia possibile inferire quale sia l’ambito del trasferimento di ruolo e di responsabilità. Naturalmente, il conferimento di tale incarico sostitutivo implica altresì il conferimento dei poteri decisori, gestionali e di spesa occorrenti.”

Aveva poi specificato quanto segue: “con maggiore precisione, è da escludere che la delega in tema di sicurezza possa essere attribuita dal committente ad un responsabile dei lavori individuato nel datore di lavoro dell’impresa esecutrice. Una tale eventualità, infatti, riprodurrebbe ad un più alto livello di responsabilità, l’inconcepibile identificazione tra controllore e soggetto controllato per ciò che riguarda la sicurezza del cantiere.”

E aveva concluso che “il D.Lgs. n. 464, art. 6, [ora titolo IV D.Lgs. 81/08] come si è visto, esonera il committente da responsabilità limitatamente all’ambito delegato al responsabile dei lavori.”

 

Delega in materia ambientale – Poteri del direttore generale – Differenza tra verbale dell’Assemblea dei soci e delega – Esercizio di fatto della gestione ambientale – Attribuzione di prerogative a titolo originario

 

Il caso trattato da Cassazione Penale, Sez. III, 23 settembre 2015 n. 38551 è interessante e merita di essere analizzato anche nel merito della vicenda quale esempio utile a comprendere il modo di ragionare della Corte in materia di delega di funzioni conferita a livello apicale e di effettivo esercizio dei poteri di gestione in materia ambientale.

Il sig. A.R. viene dichiarato dal Tribunale “colpevole del reato di cui agli artt. 81, cpv., cod. pen., 29-quatuordecies, comma 2, d.lgs. 3 aprile 2006, n, 152, perché, quale direttore generale della società (società titolare dell’autorizzazione) e procuratore speciale della società (società cessionaria dell’autorizzazione), con espressa delega di funzioni in materia di prevenzione e tutela ambientale per tutte le attività svolte presso lo stabilimento […], esercitava l’attività dello stabilimento con inosservanza delle prescrizioni imposte dall’autorizzazione integrata ambientale in ordine alle emissioni in atmosfera ed alla gestione dei rifiuti.

Il ricorrente è stato nominato direttore generale della il 19/03/2003, come da verbale di assemblea ordinaria dei soci…”.

In termini di poteri, “per consentirgli di esercitare tali prerogative, espressamente accettate dal A.R., l’assemblea gli ha attribuito ampi poteri, esercitabili senza preventiva autorizzazione. In ordine ai poteri e alle mansioni conferiti – prosegue il verbale – il A.R. avrebbe risposto del suo operato direttamente all’assemblea.”

A.R. ricorre in Cassazione, contestando “l’idoneità di tale atto a conferirgli valida delega”.

 

Secondo la Corte, “la questione, così come posta, è del tutto errata e fuorviante.
I principi che questa Corte ha elaborato in materia di “delega ambientale” riguardano la sua attitudine a sollevare il delegante da ogni forma di responsabilità ma non ad escludere quella del delegato che si sia realmente occupato della gestione “ambientale” dell’impresa e abbia effettivamente esercitato i compiti a lui assegnati, assumendosene le relative responsabilità e rendendosi autore diretto delle violazioni accertate.”

 

La Cassazione dichiara inammissibile il ricorso in quanto “l’imputato si ferma, per così dire, alla forma della “delega” ma non contesta, nella sostanza, di aver esercitato le attribuzioni e le funzioni in essa analiticamente descritte che addirittura gli conferivano la rappresentanza della società e lo rendevano responsabile direttamente ed esclusivamente nei confronti dell’assemblea. Né ha eccepito che le violazioni riscontrate fossero conseguenza di mancati investimenti necessari, segnalati e non autorizzati dall’A.U.

In ogni caso, osserva il Collegio che il verbale non contiene una delega vera e propria: la delega comporta un trasferimento di poteri che ne presuppone il possesso da parte del delegante.

Nel caso in esame, invece, l’affidamento delle prerogative è stato effettuato a titolo originariodall’assemblea dei soci, ancorché su proposta dell’A.U., in quanto attribuzioni funzionali tipiche della nuova figura di “direttore generale” nella quale sono confluite parte delle competenze dell’amministratore unico con possibilità di esercitarle in piena e totale autonomia anche rispetto a quest’ultimo.”

 

“Garante di fatto” (art.299 D.Lgs.81/08) e delega di funzioni

 

La recente sentenza Cassazione Penale, Sez. IV, 1° luglio 2016 n. 27056, avente ad oggetto il rapporto tra la delega di funzioni e l’esercizio in concreto di poteri direttivi, chiarisce che “se è ben vero che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, è individuabile la figura del“garante di fatto” in colui che, senza alcuna preliminare investitura da parte del datore di lavoro, espleta concretamente poteri tipici (assumendo conseguentemente, in ragione del principio di effettività codificato dall’art.299 del D.Lgs.n.81/08, la correlata posizione di garanzia) è altrettanto certo che, nel caso di specie, ove il S.D. avesse ipoteticamente esercitato in concreto i poteri giuridici datoriali ciò non avrebbe sostituito la delega formale (rogata solo 2 ore dopo l’infortunio) ma avrebbe solo aggiunto, accanto a quella del P.M. [datore di lavoro, n.d.r.], la (eventuale) responsabilità colposa del S.D. stesso (ex multis sez. 4, n. 34299 del 06/08/2015).”

[S.D. era il soggetto al quale, come si legge in sentenza, “due ore dopo circa l’infortunio al dipendente…, il P.M. stesso [quale datore di lavoro, n.d.r.] conferiva, con procura institoria notarile…i poteri di datore di lavoro e responsabile della sicurezza nei luoghi di lavoro per l’unità produttiva di…].

 

Responsabilità del datore di lavoro in assenza di delega e “incapacità tecnica” dello stesso

 

Cassazione Penale, Sez.III, ud. 10 marzo 2016 (dep. aprile 2016) n. 17426 ricorda che “se il datore di lavoro è una persona giuridica, destinatario delle norme è il legale rappresentante dell’ente imprenditore, quale persona fisica attraverso la quale il soggetto collettivo agisce nel campo delle relazioni intersoggettive, così che la sua responsabilità penale, in assenza di valida delega, è indipendente dallo svolgimento o meno di mansioni tecniche, attesa la sua qualità di preposto alla gestione societaria (Sez. 3, n. 28358 del 04/07/2006 – dep. 08/08/2006, Bonora e altro, Rv. 234949, che ha anche ulteriormente affermato che il legale rappresentante non può esimersi da responsabilità adducendo una propria incapacità tecnica, in quanto tale condizione lo obbliga al conferimento a terzi dei compiti in materia antinfortunistica).

 

Delega valida in quanto conforme a tutti i requisiti previsti dall’art.16 D.Lgs.81/08. Il delegato quale “gestore dei rischi”

 

Cassazione Penale, Sez. IV, 5 ottobre 2015 n. 40043, infine, si è pronunciata sulle responsabilità di un soggetto condannato non solo “in qualità di membro del consiglio di amministrazione, ma anche […] di delegato alla sicurezza aziendale.”

La Corte ricorda che “in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, possono essere trasferiti con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegantea condizione che il relativo atto di delega ex art. 16 del D.Lgs. n. 81 del 2008 riguardi un ambito ben definito e non l’intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa (Cass. Sez. U, Sentenza n. 38343 del 24/04/2014 Ud. (dep. 18/09/2014), Rv. 261108).

Nel caso in esame, il ricorrente era titolare di una formale delega in relazione alle esigenze di sicurezza aziendale […] connotata da tutte le caratteristiche a renderla idonea a radicare in capo al T.S. la posizione di garanzia e, quindi, di gestore dei rischi per la sicurezza dei lavoratori. Inoltre la sua qualificazione professionale lo rendeva idoneo a valutare la pericolosità di un macchinario dotato di un insufficiente sistema di sicurezza.”

 

[Tra i precedenti, si veda anche Cassazione Penale, Sez. IV, 25 giugno 2015 n.26999.

E, sul delegato quale “gestore del rischio”, si vedano le motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione sul caso Thyssenkrupp: Cass. Pen., Sez. Un., 18 settembre 2014 n.38343. Per un approfondimento su questo punto, si veda l’articolo “ Datore, dirigente, preposto, delegato e “aree di gestione del rischio”.]

 

 

Anna Guardavilla

Dottore in Giurisprudenza specializzata nelle tematiche normative e giurisprudenziali relative alla salute e sicurezza sul lavoro

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

 

 

Generic

Apparecchi di sollevamento: utilizzatore, noleggiatore e installatore

Un intervento si sofferma sul ruolo del datore di lavoro utilizzatore, dell’impresa affidataria, del noleggiatore, dell’installatore/manutentore e del coordinatore in relazione agli adempimenti correlati all’uso degli apparecchi di sollevamento.
Bergamo, 15 Set – In questi anni l’attività di vigilanza ha riscontrato incertezze e criticità negli adempimenti e nella corretta applicazione della normativa relativa agli apparecchi di sollevamento e ai ruoli delle figure coinvolte nelle varie fasi (installazione, utilizzo, smontaggio, …). E spesso si è rilevata una difficoltà nell’interazione tra i vari soggetti coinvolti.

 

Di questo tema si è parlato nel seminario “ Verifiche periodiche delle attrezzature di sollevamento cose e persone: regime di controllo e criticità” (Bergamo, 19 febbraio 2016), promosso dal Tavolo Provinciale di Coordinamento Sicurezza in Edilizia costituito il 16 settembre 2014 a Bergamo.

 

 

In particolare l’intervento “I risultati dell’attività di vigilanza ed il regime sanzionatorio”, a cura  dell’Ing. Giuliana Vitale (Direzione Territoriale del lavoro di Bergamo), si è soffermato sugli adempimenti e compiti del datore di lavoro utilizzatore, dell’impresa affidataria, del noleggiatore, dell’installatore/manutentore, e del coordinatore per la progettazione e/o per l’esecuzione dei lavori.

 

Partiamo dal ruolo del datore di lavoro utilizzatore.

 

Questi in sintesi gli adempimenti a carico del datore di lavoro utilizzatore ai sensi dell’art. 71 del D.Lgs. 81/2008 (nel documento agli atti, che vi invitiamo a visualizzare integralmente, sono inserite anche le sanzioni):

1) “Interventi di manutenzione – comma 4; controlli iniziali, controlli periodici, controlli straordinari – comma 8;

2) Tutti gli interventi manutentivi, le installazioni e gli smontaggi della gru devono essere riportati sul relativo registro di controllo (comma 4), così come devono essere annotati i controlli ‘ad eccezione di quelli giornalieri, per i quali è sufficiente la registrazione solo in caso in cui dovessero evidenziare eventuali difetti’. I controlli relativi agli ultimi tre anni devono essere conservati e tenuti a disposizione degli organi di vigilanza (comma 9). In cantiere deve essere esibito l’esito positivo almeno dell’ultimo controllo (comma 10);

3) verifica trimestrale delle funi – comma 3 All. VI punto 3.1.2;

4) verifiche periodiche – comma 11: ‘oltre a quanto previsto dal comma 8, il datore di lavoro sottopone le attrezzature di lavoro riportate nell’ALLEGATO VII a verifiche periodiche’;

5) calcolo del piano di appoggio – comma 3 All. VI punto 3.1.3. – Le attrezzature di lavoro smontabili o mobili che servono a sollevare carichi devono essere utilizzate in modo tale da garantire la stabilità dell’attrezzatura di lavoro durante il suo impiego, in tutte le condizioni prevedibili e tenendo conto della natura del suolo;

6) Dichiarazione di corretta installazione – comma 4 lett. a) – Il datore di lavoro prende le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano installate ed utilizzate in conformità alle istruzioni d’uso;

7) Gestione interferenze – comma 3 All. VI 3.2.1 – Quando due o più attrezzature di lavoro che servono al sollevamento di carichi non guidati sono installate o montate in un luogo di lavoro di modo che i loro raggi d’azione si intersecano, è necessario prendere misure appropriate per evitare la collisione tra i carichi e/o elementi delle attrezzature di lavoro stesse”.

 

Riguardo al ruolo del datore di lavoro utilizzatore, il relatore presenta anche alcuni casi specifici:

– 1° caso – “Datore di lavoro utilizzatore e noleggiatore formalizzano nel contratto che tutti gli interventi manutentivi e le verifiche periodiche di cui all’art. 71 del D.Lgs. 81/08 sono a carico del noleggiatore. Gli accordi contrattuali non esonerano il datore di lavoro utilizzatore dalle responsabilità delle omesse verifiche. In assenza degli adempimenti previsti dall’art. 71 il datore di lavoro utilizzatore deve vietare l’ utilizzo della gru in cantiere comunicando al coordinatore della sicurezza l’impossibilità di uso della stessa;

– 2° caso – Il datore di lavoro acquista una gru di seconda mano: l’ultima verifica periodica non è stata effettuata. Il nuovo datore di lavoro utilizzatore in occasione della prima messa in esercizio della gru deve effettuare tutti gli adempimenti previsti dall’art. 71 del D.Lgs. 81/08 anche se il precedente proprietario ha omesso di effettuarli. Il nuovo utilizzatore è responsabile delle omissioni dei controlli e delle verifiche. Ove dal registro della gru emerga un recente utilizzo della gru da parte del precedente proprietario è perseguibile anche quest’ultimo;

– 3° caso – Il datore di lavoro è proprietario di una gru di oltre 20 anni mai sottoposta a verifica periodica. Il datore utilizzatore in questo caso deve fare effettuare l’indagine supplementare da tecnico abilitato ai sensi del DM 11/04/2011. Successivamente il datore di lavoro si rivolgerà all’INAIL per far sottoporre la gru a prima verifica periodica. Al datore di lavoro utilizzatore viene contestata la violazione dell’art. 71 comma 11 del D.Lgs. 81/08 per omessa verifica periodica”.

 

Veniamo al ruolo del noleggiatore.

 

Il relatore indica che ai sensi dell’art. 72 comma 1 del D. Lgs. 81/08: ‘chiunque noleggi o conceda in uso attrezzature di lavoro senza operatore deve, al momento della cessione, attestarne il buono stato di conservazione, manutenzione ed efficienza ai fini di sicurezza…’. E ai sensi dell’art. 71 comma 11 del D. Lgs. 81/08: “le verifiche periodiche sono volte a valutare ‘l’effettivo stato di conservazione e di efficienza ai fini di sicurezza’.

Inoltre secondo l’Art. 72 comma 2 del D. Lgs. 81/08, il noleggiatore ‘dovrà altresì acquisire e conservare agli atti per tutta la durata del noleggio o della concessione dell’attrezzatura una dichiarazione del datore di lavoro che riporti l’indicazione del lavoratore o dei lavoratori incaricati del loro uso, i quali devono risultare formati conformemente alle disposizioni del presente Titolo e, ove si tratti di attrezzature di cui all’articolo 73, comma 5, siano in possesso della specifica abilitazione ivi prevista’.

 

Riguardo al ruolo dell’impresa affidataria si riporta un caso: “l’impresa affidataria dei lavori si è occupata dell’installazione della propria gru e dell’uso della stessa per le attività che necessitavano di movimentazione dei carichi in cantiere. Terminate le proprie attività, l’impresa lascia il cantiere senza smontare la gru. La verifica periodica, all’atto dell’accesso ispettivo, è risultata scaduta ma ancora in corso al momento della sospensione delle proprie attività di cantiere e la gru era condotta da un lavoratore di un’altra impresa non abilitato allo scopo”.

In questo caso le contestazioni sono rivolte:

– “all’impresa affidataria: art. 72 comma 2 del D.Lgs. 81/08 per non aver acquisito la dichiarazione del datore di lavoro utilizzatore in merito alla formazione del lavoratore incaricato della conduzione della gru;

– all’impresa utilizzatrice: art. 73 del D.Lgs. 81/08 per l’omessa formazione specifica del lavoratore incaricato della conduzione della gru; art. 71 comma 11 per l’omessa verifica periodica della gru”.

 

Inoltre si presenta anche il ruolo dell’installatore/manutentore.

 

Infatti l’installatore che interviene per il montaggio della gru “rilascia la dichiarazione di corretta installazione e annota l’intervento effettuato sul registro che accompagna la gru”. E, laddove necessario, “non è forse il caso che l’installatore e/o il manutentore inseriscano una nota per avvertire che la verifica periodica è scaduta”?

 

Infine il relatore accenna brevemente anche al ruolo del coordinatore per la progettazione e/o per l’esecuzione dei lavori ricordando quanto la gru sia una “macchina generatrice di interferenze”…

E una “gestione poco attenta degli adempimenti della gru o il non corretto utilizzo della stessa possono compromettere la sicurezza dei lavoratori in cantiere”.

 

Concludiamo consigliando, riguardo al ruolo dei coordinatori, la lettura del recente articolo di PuntoSicuro dal titolo “ Attrezzature di lavoro: il ruolo dei coordinatori e della vigilanza” che presenta un altro intervento al seminario promosso dal Tavolo Provinciale di Coordinamento Sicurezza in Edilizia.

 

 

“ I risultati dell’attività di vigilanza ed il regime sanzionatorio”, a cura dell’Ing. Giuliana Vitale (Direzione Territoriale del lavoro di Bergamo), intervento al seminario “Verifiche periodiche delle attrezzature di sollevamento cose e persone: regime di controllo e criticità” (formato PDF, 1.12 MB).

 

Leggi gli altri articoli di PuntoSicuro su manutenzione e verifiche periodiche delle attrezzature di lavoro

 

 

RTM

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

Generic

Imparare dagli errori: l’importanza di proteggere la testa

Esempi di infortuni correlati all’uso errato o mancato uso di dispositivi di protezione della testa. Le conseguenze del mancato uso del casco o elmetto di protezione. La descrizione degli infortuni e la scelta di idonei DPI.
 

Brescia, 15 Set – Riprendiamo il viaggio di “ Imparare dagli errori”, la rubrica che PuntoSicuro dedica al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, attraverso le conseguenze relative all’uso errato o mancato uso dei Dispositivi di Protezione Individuale (DPI) nei luoghi di lavoro.

 

Le prime cinque tappe di questo percorso hanno analizzato le varie casistiche correlate all’uso o all’assenza di occhiali di protezione e di idonei guanti per proteggere le mani.

Tuttavia c’è un’altra parte essenziale del nostro corpo che se colpita duramente porta spesso a casi mortali o lesioni gravi: la testa.

 

Cominciamo ad occuparci oggi proprio dei DPI per la protezione della testa ricordando che l’Allegato VIII del D. Lgs. 81/2008 indica che i lavoratori esposti a specifici pericoli di offesa al capo per caduta di materiali dall’alto o per contatti con elementi comunque pericolosi devono essere provvisti di copricapo appropriato.

 

Le dinamiche degli infortuni presentati sono tratte dalle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.

 

Il caso

Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un muratore durante attività edili.

Un lavoratore mentre sta raccogliendo alcune attrezzature di lavoro al di sotto di un balcone, improvvisamente viene colpito alla testa da una soglia che cade dal balcone sovrastante. Il lavoratore, che non usava il casco di protezione, riporta la frattura del cranio.

 

Sono evidenti i fattori causali riportati nella scheda:

– “mancato uso del casco”;

– “soglia in marmo pericolante”.

 

Il secondo caso riguarda un infortunio avvenuto ad un lavoratore straniero durante attività di ristrutturazione di un locale.

 

Il lavoratore si trova con due colleghi più esperti presso un locale dove si svolgono lavori per la ristrutturazione interna di un locale. Devono montare e realizzare l’impianto di refrigerazione e ricambio d’aria del locale.

Sono diversi giorni che lavorano in quel locale. E avviene che succede che il primo lavoratore, mentre si trova su di una scala a pioli del tipo a libro per prendere misure sui canali per il posizionamento di una bocchetta per la presa d’aria, perde l’equilibrio e cade a terra, sbattendo il capo nel pavimento e riportando la frattura del cranio.

Dall’indagine successiva è emerso che il lavoratore – un’apprendista che aiutava gli operai più esperti – si trovava a cavalcioni sull’ultimo piolo della scala, posizionata parallelamente alla parete, con in mano un metro a rotella. Non indossava il casco ma aveva le scarpe antiinfortunistiche.

Dall’indagine è emerso anche che la ditta aveva fornito agli operai scale e trabattelli per i lavori in quota.
Questi i fattori causali dell’incidente rilevati dalla scheda:

– “l’infortunato prima dell’evento si trovava a cavalcioni sull’ultimo piolo della scala con una mano impegnata”;

– “l’infortunato non indossava il casco”.
Anche il terzo caso riguarda un infortunio avvenuto durante attività edili.

Nella rimozione di un tetto di un edificio in ristrutturazione, un lavoratore cade da un impalcato alto circa 2 metri e urta il capo contro il pavimento della soletta sottostante provocandosi un trauma cranico. L’impalcato non era stato montato correttamente e non era sufficientemente esteso per tutta l’area di lavoro. Il lavoratore non faceva uso del caschetto di sicurezza che aveva ricevuto in dotazione.

 

In questo caso abbiamo:

– un “ponteggio instabile, non montato correttamente e non sufficientemente esteso per tutta l’area di lavoro”;

– il “mancato uso del casco di sicurezza”.

 

 

La prevenzione

In questi “Imparare dagli errori” non ci soffermiamo in realtà sulle cause degli infortuni segnalati, ad esempio sulle cause delle cadute dagli impalcati, delle cadute dalle scale o del perché un operaio edile viene investito da materiale che cade dall’alto. La rubrica ha affrontato in passato tutti questi aspetti, con riferimento sia ai casi di caduta dall’alto che di caduta di materiale.

 

Ci soffermiamo invece sulla mancanza dell’elmetto di protezione che risulta comunque un elemento di aggravamento delle conseguenze dell’incidente e cerchiamo, attraverso alcuni materiali pubblicati in precedenti articoli, di ricordare le specificità, i limiti e le potenzialità di questo importante DPI di protezione del capo.

 

Per avere qualche indicazione utile per la conoscenza, la scelta e l’uso di adeguatidispositivi di protezione della testa, possiamo fare riferimento al progetto multimediale Impresa Sicura – elaborato da EBEREBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e Inail – che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente per la salute e la sicurezza come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013. Progetto che ha prodotto diversi materiali relativi alla prevenzione in molti comparti lavorativi (metalmeccanica, cantieristica navale, lavorazione del legno, calzature, …) e una raccolta dettagliata di informazioni sui Dispositivi di Protezione Individuale nel documento “ImpresaSicura_DPI”.

 

In quest’ultimo documento si indica che, riguardo alla protezione del capo, le norme tecniche definiscono l’elmetto di protezione per l’industria come un ‘copricapo il cui scopo primario è quello di proteggere la parte superiore della testa dell’utilizzatore contro lesioni che possono essere provocate da oggetti in caduta’ (UNI EN 397). Mentre ilcopricapo antiurto per l’industria è invece destinato a ‘proteggere la testa dell’utilizzatore dalle lesioni causate da un urto della testa contro oggetti duri e immobili’ (UNI EN 812).

Vi sono poi altri dispositivi di protezione del capo come:

– l’elmo per vigili del fuoco: un copricapo destinato a ‘garantire la protezione della testa dell’utilizzatore dai pericoli che potrebbero insorgere durante le operazioni condotte dai vigili del fuoco’ (UNI EN 443);

– dispositivi di protezione del capo “utilizzati per le discipline sportive e per le attività di tempo libero definiti da altre norme specifiche” (ad esempio caschi per sport aerei, per sci alpino, per ciclisti, ….).

 

Rimandando ad altre puntate di “Imparare dagli errori” l’approfondimento sulle caratteristiche di elmetti e copricapi, concludiamo l’articolo riportando dal documento di “Impresa Sicura” qualche informazione riguardo alla scelta degli elmetti di protezione.

 

Il primo dovere del datore di lavoro è “l’esecuzione di specifica valutazione, allo scopo di definire chiaramente la fonte e la natura di tutti i potenziali rischi. Una volta identificati i rischi, il requisito successivo è considerare e mettere in pratica tutte quelle misure fattibili per l’eliminazione o la riduzione del rischio alla fonte”. Per proteggere il capo “se il rischio non può essere eliminato o ridotto ad un livello tale da non provocare lesioni, il ricorso ad un elmetto di protezione è inevitabile ed è necessario avviare la procedura di selezione”.

Una volta individuato il DPI devono essere infine “determinati i requisiti di prestazioneche devono essere riportati nella nota informativa del fabbricante. Nell’ambito degli elmetti di protezione esistono una serie di prescrizioni che portano ad altrettanti requisiti di prestazione obbligatori. Al loro interno questi requisiti sono suddivisibili in funzione del loro livello di prestazione”.

 

 

Sito web di INFOR.MO.: nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 3417, 3065 e1868 (archivio incidenti 2002/2010).

 

 

Tiziano Menduto

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

 

Generic

Come è cambiata nel tempo l’esposizione ad agenti cancerogeni

Alcune riflessioni sulle modifiche nel tempo del rapporto tra lavoro e agenti cancerogeni. La necessità di misure più affinate, le criticità normative, le indicazioni per la classificazione dei soggetti esposti e ex-esposti ad agenti cancerogeni.
Ancona, 16 Set – In relazione al rapporto tra lavoro e tumori professionali nel secolo scorso si poteva fare riferimento a soggetti così fortemente esposti, rispetto al resto della popolazione, che era sufficiente distinguere tra “esposti” e tutti gli altri, i “non esposti”. Ma oggi nel nostro Paese “il quadro dei rischi è molto cambiato”. Infatti “molte lavorazioni e molti agenti di particolare pericolosità sono scomparsi o semplicemente sono stati esportati verso Paesi ‘in via di sviluppo’. (dove, ovviamente, esercitano i medesimi effetti che ‘da noi’). ‘Da noi’ le esposizioni occupazionali ad agenti cancerogeni sono divenute nel complesso di minor intensità e meno costanti in una singola storia lavorativa, ma spesso si sono sparse a macchia d’olio in una miriade di condizioni di ‘bassa’ esposizione”.

Quindi ora il range delle esposizioni occupazionali a cancerogeni “non può più essere letto ‘in bianco e nero’ e si è certo tutto spostato verso il basso: è necessario adottare una ragionevole scala di grigi, dai meno ai più scuri”.

 

 

Queste sono le parole tratte dalla presentazione di un workshop che si è tenuto ad Ancona il 16 giugno 2016, organizzato dalla Società Nazionale degli Operatori della Prevenzione (SNOP), insieme ad ASUR Marche AV3, e dal titolo “Linee di indirizzo e azioni del sistema pubblico per l’applicazione del programma sui cancerogeni occupazionali e i tumori professionali nel contesto del piano nazionale della prevenzione 2014-2018”.

 

L’evento ha permesso un approfondimento e un’accurata riflessione sulla situazione attuale delle problematiche relative ai cancerogeni occupazionali, anche con riferimento alla normativa vigente e al piano nazionale di prevenzione.

 

Per diffondere queste riflessioni e offrire utili informazioni ai nostri lettori sul tema dell’esposizione a cancerogeni in Italia, ci soffermiamo oggi sul contributo dal titolo “Applicazione degli artt. 236, 242, 243 e 244 del Dlgs 81/08. La valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come ‘professionalmente esposti ad agenti cancerogeni’, la loro l’inclusione in programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc e la loro conseguente registrazione. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro” a cura di Roberto Calisti (Servizio Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro – SPreSAL – Civitanova Marche – ASUR MARCHE – area vasta n. 3).

 

Nel documento, che come racconteremo in un prossimo articolo ha stimolato la pubblicazione di un successivo documento comune di vari operatori, si ricorda che il tema del “lavoro ed esposizione ad agenti cancerogeni” è da molto tempo che è sotto attenzione e in studio in Italia. E si racconta, a partire dagli anni ’50 ad oggi, le pubblicazioni, gli studi, le ricerche rilevanti che hanno affrontato il tema.

 

Tuttavia, come si racconta nella presentazione, in Italia le esposizioni occupazionali ad agenti cancerogeni sono cambiate, sono “divenute nel complesso di minor intensità e meno costanti in una singola storia lavorativa (spesso interessano solo una fase, anche relativamente breve, della storia di lavoratori che cambiano molte occupazioni)”. Oggi è necessario definire “scale articolate di più classi di professionalmente esposti su diversi livelli, scale i cui gradini più bassi possono essere (ad esempio per gli idrocarburi policiclici aromatici – IPA – e il benzene) in overlapping (sovrapposizione, ndr) con quelli di alcune fasce di ‘popolazione generale’ con esposizioni ambientali significative”.

 

In ogni “le esposizioni occupazionali a cancerogeni che oggi vediamo (o almeno dovremmo vedere – spesso siamo un po’ miopi) sono più difficili da identificare e da misurare che in passato”.

Tra l’altro oggi l’identificazione di gruppi omogenei per esposizione è “particolarmente difficile ed ha un’utilità limitata finché non sia corredata da una stima dell’entità dell’esposizione che caratterizza ciascun gruppo, anche solo lungo una scala semi-quantitativa.

Ad esempio, per intendersi, “il titolo di mansione ‘asfaltatore di strade’ va certamente ancor oggi associato ad un’esposizione occupazionale ad IPA, ma sappiamo anche che per gli asfaltatori misure di esposizione fatte in contesti recenti diversi hanno dato valori molto diversi; è quindi importante sapere quanti IPA ci sono negli asfalti in uso, se si asfalta all’aperto o in galleria, se a fine a turno i lavoratori si fanno una doccia che rimuove l’imbrattamento cutaneo e così via”. E oltre ad ottenere informazioni più approfondite sugli scenari di esposizione, oggi “dobbiamo costruire possibilità di misura più affinate e sensibili, matrici lavoro-esposizione sistemiche specifiche per tempo e per luogo e capacità di ragionamento che ci consentano di inferire, sistematizzare le conoscenze, trasferirle da un contesto all’altro”.

 

Il documento, che vi invitiamo a visionare integralmente, risponde poi a molte domande:

– quanti sono esposti a cancerogeni in ambiente di lavoro oggi in Italia, a cosa esattamente sono esposti e “quanto”?

– quanti sono i tumori professionali incidenti oggi in Italia?

– come affrontare il problema? Quali sono i riferimenti di legge e le “linee-guida”?

E si sofferma anche su alcuni temi rilevanti:

– criteri per la sorveglianza sanitaria e l’attivazione di screening oncologici per gli esposti e gli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro (art. 242 Dlgs 81/08);

– indicazioni pratiche per la classificazione di soggetti individuali come “esposti / ex -esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro” e la loro conseguente registrazione;

– esposizione occupazionale ad agenti cancerogeni: individuazione, caratterizzazione, contrasto;

– il monitoraggio delle esposizioni e dei tumori.

 

Ricordiamo che a livello normativo la materia è regolata dagli artt. 236, 242, 243 e 244 del D.Lgs. 81/2008. Il documento ne riporta alcuni stralci:

– dall’art. 236: ‘(…) il datore di lavoro effettua una valutazione dell’esposizione a agenti cancerogeni o mutageni, i risultati della quale sono riportati nel documento di cui all’art. 17’;

– dall’art. 242: ‘I lavoratori per i quali la valutazione di cui all’articolo 236 ha evidenziato un rischio per la salute sono sottoposti a sorveglianza sanitaria”;

– dall’art. 243: ‘I lavoratori di cui all’articolo 242 sono iscritti in un registro nel quale è riportata, per ciascuno di essi, l’attività svolta, l’agente cancerogeno (…) utilizzato e, ove noto, il valore dell’esposizione a tale agente’;

– l’art. 244 ha disposto la realizzazione di ‘sistemi di monitoraggio dei rischi occupazionali da esposizione ad agenti chimici cancerogeni e dei danni alla salute che ne conseguono’.

E si indica tuttavia che dal 1996/2002 (produzione e poi aggiornamento di linee guida) “non vi è stata più una produzione di indirizzo formale e organica del sistema pubblico” su questa materia. E questo “ha fatto sì che si siano protratti nel tempo equivoci” e “difficoltà oggettive di interpretazione e applicazione della norma. E al di là di questo documento, che affronta alcuni argomenti che sono rimasti negli anni maggiormente critici, “resta indispensabile e sempre più urgente un pronunciamento istituzionale e organico del sistema pubblico”.

 

Ci soffermiamo brevemente, tra i tanti temi trattati, sulle “indicazioni pratiche per la classificazione di soggetti individuali come ‘esposti/ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro’ e la loro conseguente registrazione”.

 

L’autore indica che andrebbero certamente “rivisti gli articoli 242 e 243 del Dlgs 81/08, che nella loro formulazione attuale potrebbero prefigurare, se applicati davvero e alla lettera (cosa che comunque non è), un’attivazione automatica di programmi di sorveglianza sanitaria massiva e di conseguente ‘etichettatura’ dei soggetti professionalmente esposti o ex-esposti a cancerogeni per qualunque tipologia di esposizione, di qualunque intensità e di qualunque frequenza. Si ribadisce che ha senso inserire le persone in un programma di sorveglianza sanitaria ad hoc esclusivamente in funzione della probabilità che si ammalino di un dato tipo di cancro, del tipo di cancro che rischiano di contrarre e delle opportunità realmente offerte da una diagnosi precoce”. E si segnalano anche altre incongruità o criticità della normativa.

 

Tuttavia si ricorda che, partendo dalla situazione normativa attuale, vi sono comunque delle “indicazioni pratiche che è possibile applicare nell’immediato”.

Ne riassumiamo alcune:

– “la valutazione dell’ esposizione ad agenti cancerogeni è comunque un obbligo dei datori di lavoro” e deve “qualificare l’esposizione in termini quantitativi di intensità e durata, oltre che descrivendone le modalità (potremmo dire oggi gli ‘scenari di esposizione’)”;

– il “gold standard” (lo standard di riferimento) della valutazione dell’esposizione è “senz’altro costituto da misure dirette (a condizione che siano di buona qualità), ma spesso queste possono essere di improba realizzazione e/o di limitata rappresentatività”. Le misure dirette “possono quindi essere utilmente integrate da stime, per trasposizione alla realtà in esame di valutazione di misure condotte in contesti paragonabili”;

– “si è visto come l’art. 242 e, conseguentemente, l’art. 243 del Dlgs 81/08 si applichino ‘quando la valutazione di cui all’articolo 236 ha evidenziato un rischio per la salute’. È senz’altro problematico il fatto che la legge non definisca espressamente l’espressione ‘rischio per la salute’, se non in modo indiretto e inconclusivo tramite questa definizione della parola ‘rischio’ contenuta dell’art. 222 del Dlgs 81/08: ‘la probabilità che si raggiunga il potenziale nocivo nelle condizioni di utilizzazione o esposizione’. Si ritiene peraltro ragionevole assumere che, essendo il Dlgs 81/08 un ‘Testo unico sulla salute e sicurezza del lavoro’, il rischio per la salute di cui trattasi sia esclusivamente quello occupazionale e che, per gli agenti cancerogeni, si tratti esclusivamente del rischio di generazione” di quelli che nel documento “sono stati definiti come ‘tumori professionali’: cioè quei tumori che riconoscono una quota rilevante delle proprie cause in una o più esposizioni occupazionali”.

 

Rimandando ad una lettura delle riflessioni successive sulle esposizioni, veniamo alla parte conclusiva del paragrafo dove si indica che perché si possa parlare di “esposizioni sporadiche e di debole intensità” (ESEDI) – in questo caso non si applicano alcuni articoli del D.Lgs. 81/2008 – “debbono sussistere sia la condizione della sporadicità, sia quella della debole intensità”.

E si propone che “per tutti gli agenti cancerogeni chimici (amianto non escluso):

– possano considerarsi ‘sporadiche’ le esposizioni che si protraggano per non più di sessanta ore in un anno solare (vale a dire, per la durata di una settimana di lavoro e mezza, della durata convenzionale di quaranta ore), per non più di quattro ore per singolo intervento ‘esposto’, per non più di due interventi ‘esposti’ al mese;

– possano considerarsi ‘di debole intensità’ le esposizioni il cui valore si collochi nello stesso ordine di grandezza del limite superiore del range di oscillazione dell’esposizione della ‘popolazione generale non professionalmente esposta’ (che quindi deve essere ben noto, con modalità tempo- e luogo-specifica)”.

Una mera proposta tecnica “per la cui applicabilità, o meno, non si può che rimandare a un pronunciamento istituzionale formale”.

 

 

“ Applicazione degli artt. 236, 242, 243 e 244 del Dlgs 81/08. La valutazione dell’esposizione ad agenti cancerogeni e del rischio che ne consegue. Indicazioni per la classificazione dei lavoratori come ‘professionalmente esposti ad agenti cancerogeni’, la loro l’inclusione in programmi di sorveglianza sanitaria ad hoc e la loro conseguente registrazione. La questione degli ex-esposti ad agenti cancerogeni in ambiente di lavoro”, a cura di Roberto Calisti (Servizio Prevenzione e Sicurezza negli Ambienti di Lavoro – SPreSAL – Civitanova Marche – ASUR MARCHE – area vasta n. 3), intervento al workshop “Linee di indirizzo e azioni del sistema pubblico per l’applicazione del programma sui cancerogeni occupazionali e i tumori professionali nel contesto del piano nazionale della prevenzione 2014-2018” (formato PDF, 600 kB).

 

 

Tiziano Menduto

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

Generic

Industrie meccaniche: i rischi dell’addetto alla tranciatura

Il profilo di rischio dell’addetto alla tranciatura nelle industrie meccaniche. I principali fattori di rischio, le procedure gestionali e le check list con gli aspetti di sicurezza richiesti per presse, trance, troncatrici e seghe a nastro.
 

Roma, 19 Set – Riprendiamo la presentazione dei profili di rischio correlati a varie attività dell’industria meccanica secondo quanto raccolto nelle schede correlate alla ricerca Inail “ Profili di rischio nei comparti produttivi dell’artigianato, delle piccole e medie imprese e pubblici esercizi: Industrie Meccaniche”.

 

 

Dopo esserci occupati, ad esempio, dei rischi degli operatori addetti all’imbutitura, al taglio al plasma, alla fresatura, alla piegatura, alla movimentazione di carichi e alla tornitura, ci soffermiamo oggi sui profili di rischio dell’addetto alla tranciatura.

 

Ricordiamo che la tranciatura è, come indicato nella ricerca Inail, un “processo di deformazione plastica eseguito su lamiere che consente di ottenere pezzi di diversa forma tramite l’utilizzo di un punzone e di una matrice. Il materiale si separa in seguito al raggiungimento della tensione di rottura a taglio dello stesso”.

 

La scheda “S.P.R.14_Addetto alla tranciatura” segnala che tale addetto è un lavoratore specializzato nella lavorazione a freddo dei metalli – lamiere (deformazione plastica) denominata tranciatura”. E le attrezzature maggiormente utilizzate sono “trancecesoie,troncatrice e seghe”.

 

Questi i principali fattori di rischio connessi alla professione dell’addetto alla tranciatura:

– “amputazioni, traumi, lacerazioni, contusioni, ferite provocati dalla manipolazione dei metalli, contatto con organi della macchina in movimento, cadute, scivolamenti;

– elettrocuzione o ustioni causate dal contatto con parti in tensione delle macchine;

– lesioni agli occhi e al corpo causate dalla proiezione di frammenti e dalla caduta di oggetti durante la lavorazione;

– lesioni a carico dell’apparato uditivo (ipoacusia, perdita dell’udito) causate dall’elevato rumore;

– lombalgie e traumi al rachide dovuti alle vibrazioni trasmesse al corpo intero (vibrazioni trasmesse dalle macchine/impianti a terra);

– malattie respiratorie, dermatologiche e a carico dell’apparato digerente dovuto rispettivamente ad inalazione, contatto o ingestione di prodotti chimici

– lesioni a carico dell’apparato muscolo-scheletrico causate da lavoro ripetitivo e dalla movimentazione manuale dei carichi”.

 

Come per tutte le schede dei profili di rischio correlati alla ricerca Inail, anche in questo caso sono presentate le misure di prevenzione relative a diverse tipologie di rischio: rischi infortunistici, rischio rumore, rischio chimico, rischio biologico, rischio vibrazioni sistema mano-braccio e corpo intero, movimentazione manuale dei carichi (MMC), esposizione acampi elettromagnetici (CEM), videoterminali, esposizione a radiazioni ottiche artificiali (ROA), lavoro ripetitivo, rischio microclimatico e stress lavoro correlato.

 

E sono raccolte anche le procedure gestionali fondamentali:

– “valutazione del rischio specifica per valutare l’entità dell’esposizione;

– formazione/informazione ed eventuale addestramento;

– sorveglianza sanitaria svolta dal medico competente nominato;

– prevedere specifiche procedure o istruzioni operative per svolgere l’attività;

– luoghi di lavoro in cui le lavorazioni comportano un’esposizione al rischio sono provvisti di apposita segnaletica ed eventualmente delimitati per regolarne l’accesso;

– proteggere il lavoratore mediante dispositivi di protezioni individuali;

– programmazione dell’attività lavorativa dal punto di vista tecnico/organizzativo che tenga conto della comprensione delle procedure e istruzioni da parte dei lavoratori stranieri;

– prevedere pause frequenti con cambio di attività”.

 

Rimandando alla lettura dettagliata della scheda e delle misure di prevenzione riportate, evidenziamo ora alcune indicazioni specifiche – presenti in brevi check-list nella parte finale della scheda – relative agli aspetti di sicurezza minimi richiesti dall’organo di controllo (con riferimento alla “ Guida al sopralluogo in aziende del comparto metalmeccanico” – DGR 7629 Regione Lombardia 10 agosto 2011) per attrezzature di lavoro come presse, trance, cesoie, troncatrici, seghe a nastro e apparecchi di sollevamento.

 

Riportiamo ad esempio alcune delle verifiche richieste dalla check-list per presse e trance.

 

Le presse (meccaniche con innesto a frizione o idrauliche) sono provviste di apprestamenti antinfortunistici come stampi chiusi, schermi fissi, schermi mobili interbloccati, barriere immateriali (fotocellule), doppi comandi contemporanei e a pressione continua, comando di arresto e di emergenza, …?

Inoltre:

– “quando viene usato il comando a pedale (in alternativa al doppio comando) viene adottato uno degli apprestamenti antinfortunistici sopraccitati?

– la chiavetta del selettore modale è custodita da persona responsabile?

– l’elettrovalvola di comando della è a doppio corpo?

– se sono ancora presenti presse meccaniche con innesto a chiavetta, sono utilizzate esclusivamente con stampi chiusi”?

 

Avendo già parlato di cesoie nel profilo di rischio relativo all’ addetto alla linea cesoie, ci soffermiamo ora sulle troncatrici:

 

Ad esempio queste attrezzature “sono provviste di un carter fisso che copra la metà superiore del disco e di un carter mobile che copra interamente i lati del disco nella metà inferiore?

Inoltre:

– “sull’impugnatura esiste un interruttore a pressione continua protetto dai contatti accidentali”?

– c’è il “comando con arresto di emergenza?

– la macchina è dotata di un dispositivo che richiami la testa in posizione alta di riposo con i ripari che coprono completamente il rischio”?

 

Concludiamo con alcune indicazioni per le seghe a nastro.

 

La breve check list chiede se sono munite di un carter che copre la parte non attiva del nastro.

Inoltre chiede di verificare anche altri aspetti. Ne riprendiamo alcuni, invitandovi alla lettura integrale della scheda:

– “I volani di rinvio del nastro sono racchiusi in apposito carter?

– I portelli apribili del carter sono dotati di microinterruttore o Comando con arresto di emergenza?

– La macchina è dotata di un dispositivo che richiami la testa in posizione alta di riposo con i ripari che coprono completamente il rischio”?

 

E per tutte e tre le attrezzature trattate viene infine richiesto se:

– “è presente il libretto d’uso e manutenzione”;

– l’attrezzatura è “inserita in un programma di manutenzione programmata dei dispositivi di sicurezza”;

– gli operatori sono stati addestrati all’uso dell’attrezzatura ed informati degli eventuali ‘rischi residui’.

 

 

 

Profili di rischio nei comparti produttivi, “ S.P.R.14_Addetto alla tranciatura”, Inail/ex Ispesl (formato PDF, 197 kB).

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ Profili di rischio nei comparti produttivi: industrie meccaniche”.

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ Profili di rischio nelle industrie meccaniche: gli addetti alla tranciatura”.

 

 

 

RTM

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

 

Generic

Valutazione dello stress: criticità e problematiche organizzative

I risultati del lavoro di un’azienda sanitaria riguardo al controllo e all’assistenza di diverse attività produttive in merito alla valutazione del rischio stress lavoro correlato. Le criticità, i problemi organizzativi e le esperienze positive.
 

Milano, 19 Set – Sicuramente uno dei rischi più difficili da rilevare, più trascurati nelle valutazioni dei rischi, più critici per le aziende è quello relativo allo stress lavoro correlato. E lo dimostrano anche le ricerche, le inchieste e le attività di monitoraggio che hanno evidenziato spesso criticità nell’applicazione della normativa e nella realizzazione delle valutazioni dello stress lavoro correlato.

 

 

Per continuare a raccogliere dati su questo tema, anche con riferimento ai risultati delleattività di monitoraggio e controllo svolto dalle aziende sanitarie, possiamo fare riferimento ad un intervento al convegno “ Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” organizzato da AIBEL, ATS Milano e SNOP (Milano, 7 giugno 2016).

 

Nell’intervento “Il percorso di una ATS: assistenza, controllo, evidenze di buone pratiche”, a cura della D.ssa Maria Grazia Fulco e del Dr. Elio Gullone (ATS Città Metropolitana di Milano – SC PSAL), ci si sofferma proprio su alcune attività di verifica svolte, a proposito del rischio stress lavoro correlato, dall’ATS Città Metropolitana di Milano (invio di lettere e questionari, attività di audit, raccolta documenti di valutazione dei rischi (DVR),…). Attività che dal 2011 al 2016 hanno “intercettato” ben 384 attività produttive (con 68 segnalazioni riguardanti lo stress e 90 aziende “non a posto”).

 

Rimandano alla lettura diretta dell’intervento, che riporta esempi della documentazione e del monitoraggio svolto, riportiamo in breve alcuni risultati dei controlli:

– “criticità principali sono trasversali a tutti i settori;

– scarsa informazione/formazione rivolta a RLS e lavoratori, loro minimo coinvolgimento;

– ruolo carente del datore di lavoro;

– limitata partecipazione professionale del Medico Competente;

– ruolo di contabilità del RSPP (tabelle e numeri);

– affidamento consulente esterno, visto come risolutore dei problemi interni;

– adempimento formale alla norma;

– carenze di proposte migliorative anche possibili;

– carente il programma di interventi migliorativi;

– genericità DvR non sempre adeguato al contesto in caso di aziende multisito, o diverse unità produttive”.

 

Sono state poi rilevate varie problematiche organizzative.

 

Ad esempio “in cooperative nel settore delle pulizie, dell’assistenza, in imprese di vigilanza, ed anche in qualche catena della GDO (grande distribuzione organizzata, ndr): scarsa capacità e talvolta non volontà di gestire i turni, le assenze per malattia, i permessi, la gestione del personale in generale, i turni ‘spezzati’ che incidono fortemente sulla conciliazione casa/lavoro”. In certi casi si ricorre poi a “chiedere la copertura di eventuali emergenze di personale ai lavoratori più disponibili generando malcontento fra i lavoratori, fino ad arrivare in qualche caso a far pensare al lavoratore che ci fosse una chiara volontà da parte dell’azienda a creare volutamente disagio alla persona”. E le conseguenze possono essere “aumento del turn-over lavorativo, richieste al medico competente, aumento diagnosi da distress lavorativo, contenziosi”, …

 

Sempre riguardo alle problematiche organizzative l’intervento si sofferma anche sulla “gestione di personale con provenienza geografica diversa (RSA, Cantieri e Cooperative)” e su aspetti come:

– “differenze di genere, di culto, di cultura;

– scarsa vigilanza su figure addette alla gestione e controllo di altro personale, ad esempio, capitani di vigilanza, governanti degli hotel, capomanovale, e così via;

– assenza di procedure chiare agli operatori e al pubblico;

– mancato sostegno a lavoratori in affaticamento lavorativo”.

E si indica come, ad esempio, nelle banche si sia dimostrato come “fortemente stressante il tema della vendita ‘imposta’ di prodotti finanziari tossici o difficili”.

Spesso poi è stato trascurato “il rischio da aggressione, o l’impatto emotivo dei lavoratori che hanno a che fare con clienti/utenti difficili” (sportellisti di banche, operatori sociali, conducenti di autobus/treni, addetti alla assistenza, …).

 

Dopo l’attività di monitoraggio e assistenza dell’ATS, alcune problematiche sono staterisolte.

 

Ad esempio in alcune aziende “è migliorata la capacità di gestire il personale, semplicemente, affidando tale responsabilità a figure più capaci, anche nella progettazione ed organizzazione del lavoro”.

E per la gestione delle etnie diverse “alcune cooperative si sono orientate sulla scelta di monoetnie, altre hanno cercato di valorizzare le differenze fra le varie provenienze geografiche, promuovendo momenti di incontro con la messa in comune di cibi tradizionali (RSA) con riferito beneficio”.

 

In particolare l’ATS ha favorito i miglioramenti “sia con gli Audit, che con le comunicazioni di riscontro ed anche con i verbali”, cercando di:

– “stimolare le aziende a concentrarsi sulle criticità allo scopo di favorire la ricerca di miglioramenti validi per la collettività;

– continuare la promozione e la facilitazione del dialogo fra le figure della prevenzione aziendale;

– favorire l’emersione di buone prassi per la gestione del rischio organizzativo”.

Sono stati poi proposti “interventi info-formativi ai lavoratori sui rischi connessi alle criticità organizzative”, corsi per medici competenti, sostegno alle reti di RLS, …

E si è cercato di far cogliere la valutazione come “opportunità di miglioramento nella propria azienda”.

 

Sono poi riportate nell’intervento alcune esperienze positive, con riferimento particolare a due esperienze “diverse per tipologia, ma simili per l’attenzione posta nei confronti del proprio personale”.

Ad esempio l’esperienza positiva di una cooperativa di facchinaggio che ha portato a:

– “capacità di intervento e vigilanza su aspetti conflittuali fra lavoratori;

– apertura di canali di comunicazione fra lavoratori e vertice aziendale con possibilità di esplicitare eventuali propri disagi direttamente al DL;

– creazione di eventi conviviali per favorire l’integrazione in azienda;

– chiara identificazione delle figure cui far riferimento;

– messa a disposizione di appartamenti per lavoratori fuori sede ed in temporanea difficoltà”.

In ogni caso nelle due esperienze positive raccontate nell’intervento “l’attenzione era stata posta sulle persone che costituivano l’azienda, era stato istituito e presidiato un percorso strutturato che si avvaleva di più canali di comunicazione efficaci per parlare al datore di lavoro. Era stato realizzato un monitoraggio costante della vita aziendale che aveva trasferito nei lavoratori la fiducia e la consapevolezza di essere ascoltati e di rappresentare una risorsa per tutta l’azienda”.

 

In conclusione i risultati di questa attività dell’ATS mostrano come “una vera presa in carico del datore di lavoro con una valutazione rispettosa dell’accordo europeo negli aspetti concreti, che superi gli adempimenti meramente formali, rappresenti lo strumento dinamico ed efficiente per migliorare il benessere dei lavoratori”. E i risultati migliori sono stati trovati dove si è riscontrata una “collaborazione fattiva dei lavoratori, insieme a tutte le figure della prevenzione, anche nella ricerca di soluzioni. E dove si era realizzata la capacità di leggere con intelligenza di mente e di cuore (slegandosi da esclusive-immediate valutazioni economiche) la realtà aziendale”.

 

 

 

“ Il percorso di una ATS: assistenza, controllo, evidenze di buone pratiche”, a cura della D.ssa Maria Grazia Fulco e del Dr. Elio Gullone (ATS Città Metropolitana di Milano – SC PSAL), intervento al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” (formato PDF, 1,11 MB).

 

 

Tiziano Menduto

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

Generic

Safety Expo

Safety Expo in programma il 20 e 21 settembre a Bergamo, un interessante evento per i professionisti del settore sicurezza.

Di seguito il link dell’evento:

Safety Expo: Forum di Prevenzione Incendi + Forum di Sicurezza sul lavorohttp://www.safetyexpo.it/

Generic

Organizzazione di lavoro e sicurezza: la gestione delle risorse umane

Una pubblicazione affronta il tema della gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni per la salute e sicurezza sul lavoro. Focus sui coinvolgimento dei componenti dell’organizzazione, sulla gestione delle risorse umane e sui rapporti con il SPP.
Roma, 8 Sett – Convinti che conoscere alcuni aspetti rilevanti delle organizzazioni di lavoropossa favorire non solo un miglioramento delle organizzazioni e del benessere organizzativo, ma anche una gestione più adeguata della tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, ci soffermiamo oggi sul coinvolgimento dei componenti dell’organizzazione e sulla gestione delle risorse umane.

Un tema, quello delle risorse umane, più volte affrontato dal nostro giornale in relazione alla necessità di una sorta di “ patto per la sicurezza” e di idonee condizioni organizzative che, partendo dal fine comune della prevenzione dei rischi, facilitino la collaborazione tra la gestione delle risorse umane (Human Resource Management) e la gestione della sicurezza sul lavoro (Servizio di Prevenzione e Protezione aziendale e Responsabile Health Safety Environment).

 

 

Per affrontare questi temi facciamo riferimento ad una pubblicazione della Contarp dell’Inail – a cura di Paolo Clerici, Annalisa Guercio e Loredana Quaranta – dal titolo “ La gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni per la salute e sicurezza sul lavoro”. Un documento che presenta una metodologia sistematica da impiegare come “strumento operativo nella implementazione e nella conduzione dei SGSL al fine di gestire al meglio l’elemento umano e di migliorare le prestazioni dell’organizzazione”.

 

Riguardo alla gestione della partecipazione e del coinvolgimento si indica nel documento che molti studi hanno evidenziato come le organizzazioni, per raggiungere i propri obiettivi primari, debbano “implementare un sistema di relazioni tra i diversi livelli delle loro strutture, sia in senso verticale che orizzontale”.

Infatti si indica che non è sufficiente la “motivazione” per far sì che “gli individui e i gruppi di lavoro perseguano con efficacia ed efficienza i propri obiettivi secondari, senza perdere di vista i fini organizzativi. Occorre che le persone si sentano parte di un progetto globale, di cui costituiscono un elemento parziale ma ugualmente importante: se non è stato capace di creare questo senso di appartenenza tra il personale, il management non potrà ottenere da esso nessun reale sforzo verso l’obiettivo comune”.

E sappiamo come questo aspetto della partecipazione e del coinvolgimento sia importante, come più volte dichiarato anche dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro, proprio per la gestione della sicurezza nelle aziende.

 

Inoltre si ricorda come “uno dei più potenti ed efficaci strumenti a disposizione delle organizzazioni per raggiungere determinati obiettivi” sia rappresentato dai sistemi di gestione. E “fattori quali coinvolgimento del personale, comunicazione, flusso informativo e cooperazione, formazione, informazione, addestramento e consapevolezza, costituiscono una parte fondamentale dei SGSL”.

 

Veniamo alla gestione delle risorse umane, una delle “aree funzionali più importanti all’interno di un’organizzazione: è infatti grazie alla collaborazione delle persone, ovvero le risorse umane, che è possibile raggiungere gli obiettivi e perseguire i fini organizzativi”.

E non è esagerato affermare che il successo di un’organizzazione “dipende in larga misura dalla gestione delle risorse umane e dalle strategie messe in atto per creare e mantenere un forte senso di stabilità e coinvolgimento in tutto il personale. Viceversa, una non adeguata gestione delle risorse umane facilmente rallenta o addirittura limita il successo e lo sviluppo dell’organizzazione”.

 

Si ricorda che la scelta del personale è “tanto importante quanto la gestione del personale medesimo: saper cercare, reclutare, motivare, coinvolgere e valorizzare il personale in forza diventa un elemento di differenziazione rispetto alla concorrenza e determina la riuscita o meno del progetto organizzativo”. In questo senso la Direzione Risorse Umane(o anche “Funzione Gestione Risorse Umane” – FGRU) deve “mantenere il controllo dei dati relativi alle risorse gestite, ai costi, all’organizzazione, alla valutazione e allo sviluppo”, anche se non tutte le organizzazioni “hanno raggiunto questa consapevolezza”. Infatti in molti casi “interventi quali la formazione del personale e la sua qualificazione, gli aggiornamenti delle modalità di comunicazione, le azioni volte ad incrementare partecipazione e coinvolgimento, sono visti come un puro costo e non come un investimento nel miglioramento delle competenze”. Tuttavia benché “dimostrare i vantaggi in termini organizzativi e decisionali derivanti dall’impiego di sistemi avanzati di gestione delle risorse umane” risulti infatti difficile (i risultati generalmente diventano visibili “solo al termine di ampi progetti che necessitano di tempi lunghi”), i benefici provenienti dall’applicazione dei SGSL “dimostrano la validità, anche economica, di un approccio sistemico”.

 

In definitiva organizzare le risorse umane significa “poter e saper stabilire compiti e responsabilità di ogni funzione, posizione e soggetto all’interno dell’organizzazione, regolando e definendo l’attività in modo da raggiungere più facilmente gli obiettivi pianificati”.

E si segnala che malgrado siano numerose le organizzazioni che “non investono nella gestione informatizzata dei dati delle risorse umane e non applicano tecniche e strumenti di Business Intelligence HR”, è opportuno (se le dimensioni e le risorse lo rendono possibile) che “la Funzione Gestione Risorse Umane (FGRU) o Ufficio Personale utilizzistrumenti informatici nelle aree:

– gestione delle presenze e controllo accessi;

– gestione dell’amministrazione del personale;

– gestione dell’anagrafica e dei dati del personale e loro analisi;

– gestione delle attività di formazione e sviluppo del personale;

– gestione dei turni e gestione della programmazione del personale;

– gestione delle note spese e delle trasferte del personale;

– gestione dei sistemi premianti e delle valutazioni del personale;

– gestione dei dati dell’organizzazione aziendale;

– gestione di salute e sicurezza sul lavoro, in sinergia con il Servizio di Prevenzione e Protezione (SPP);

– gestione della selezione del personale”.

 

Se poi “intervenire sulla formazione, sul coinvolgimento e la motivazione e sulla consapevolezza della struttura ‘Risorse Umane’ è il primo passo da compiere in fase di implementazione di un SGSL”,  si segnala l’importanza dei “rapporti funzionali tra le diverse strutture che a differenti livelli agiscono sulla SSL” e che “debbono agire in maniera fortemente sinergica”.

Infatti il FGRU, specificamente preposta a gestire il personale sotto tutti i punti di vista (carriera, pagamenti, spostamenti del personale, formazione, ecc.), dovrebbeinterfacciarsi con il SPP, preposto agli aspetti di SSL: attrezzature, impianti e sostanze, lavoratori”. E un sistema di gestione dovrebbe “includere tra i suoi processi i rapporti funzionali tra queste due strutture e far sì che operino in maniera ottimale, fornendo gli strumenti operativi e le regole per formalizzare i rapporti tra i diversi elementi”.

 

Il capitolo del documento Inail dedicato alla gestione delle risorse umane, si conclude sottolineando che la FGRU deve trasformarsi, “da semplice gestore ‘burocratico’ di un elemento cruciale quale è l’elemento umano, in cabina di regia e coordinamento per il buon funzionamento delle interfacce tra l’organizzazione e l’uomo, in sinergia con SPP e responsabile del SGSL”.

 

 

Inail, “ La gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni per la salute e sicurezza sul lavoro”, pubblicazione realizzata dalla Consulenza Tecnica Accertamento Rischi e Prevenzione (CONTARP) e a cura di Paolo Clerici, Annalisa Guercio e Loredana Quaranta, edizione 2016, pubblicazione maggio 2016 (formato PDF, 3.13 MB).

 

 

 

Vai all’area riservata agli abbonati dedicata a “ La gestione dell’elemento umano nelle organizzazioni”.

 

 

Tiziano Menduto

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

 

Generic

Imparare dagli errori: incendi ed esplosioni in attività di saldatura

Esempi di infortuni correlati alle attività di saldatura con riferimento al rischio di incendio e esplosione. La saldatura di un serbatoio di gasolio e la vicinanza di bidoni con vernici e solventi. Gli infortuni, la normativa e la prevenzione.

Brescia, 8 Sett – Non sono pochi i rischi per la salute e la sicurezza degli operatori impegnati nelle attività di saldatura. Ad esempio rischi collegati alla presenza di agenti chimici e cancerogeni (fumi, polveri, vapori, gas, …), all’esposizione al rumore, ai campi elettromagnetici, alle alte temperature, alle atmosfere esplosive, …

 

Per questo motivo ogni tanto la rubrica di PuntoSicuro “ Imparare dagli errori”, dedicata agli infortuni e alle malattie professionali, si sofferma sugli incidenti, sui rischi e sulla prevenzione nelle molte attività di saldatura diffuse in vari comparti lavorativi.

 

Ci soffermiamo in particolare oggi su alcuni infortuni correlati alla presenza di materiali infiammabili e di atmosfere esplosive.

 

Ricordiamo che i casi che presentiamo sono raccolti nell’archivio di schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi.

 

I casi

Il primo caso riguarda un infortunio avvenuto nel 2012 ad un lavoratore straniero durante le operazioni di saldatura di un serbatoio di gasolio in metallo per camion.

 

Durante l’attività di saldatura del serbatoio si verifica uno scoppio con distacco delle pareti laterali e dei setti divisori interni che colpiscono il lavoratore con la conseguenza di un grave trauma cranio-encefalico e successivo arresto cardio-circolatorio.

 

Il fattore causale dell’incidente, rilevato dalla scheda di Infor.Mo., è un errore procedurale che potrebbe dipendere anche da carenze nella formazione/informazione/addestramento del lavoratore: “l’infortunato operava in una situazione di gravità in quanto a rischio esplosione”.

 

Anche il secondo caso, un infortunio del 2004, riguarda le conseguenze di un’esplosione e di un incendio.

 

Il titolare di una ditta e un dipendente stanno costruendo un cavalletto in metallo da montare su di un piccolo autocarro per il trasporto degli infissi da loro prodotti.

Mentre stanno saldando/molando, verosimilmente delle scintille vanno a contatto con alcuni bidoni che hanno contenuto e/o contengono vernici e solventi (probabilmente alcuni bidoni non sono coperti) che si trovano lì vicino.

A causa di queste scintille si innesca una prima esplosione e un successivo incendio.

I due lavoratori si trovano all’interno di un prolungamento costruito a ridosso del capannone (abusivo), dove all’interno si eseguivano piccoli lavori di saldatura e di verniciatura.

A causa dell’incendio, in prossimità dell’unica apertura (portone) presente, il titolare che si trova all’interno rimane intrappolato, mentre il dipendente che si trova all’esterno viene solo leggermente ferito dall’esplosione e dall’incendio.

 

Questi i fattori causali dell’infortunio mortale, come rilevati dalla scheda:

– il lavoratore “stava eseguendo delle saldature/molature vicino a bidoni di diluente e vernice”; – sul luogo di lavoro vi sono “bidoni contenenti vernici e solventi non coperti”.

 

La prevenzione

Riguardo al tema delle esplosioni ricordiamo innanzitutto che alla protezione da atmosfere esplosive, il Decreto legislativo 81/2008, Testo Unico in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, dedica il Titolo XI. Dove con “atmosfera esplosiva” si intende “una miscela con l’aria, a condizioni atmosferiche, di sostanze infiammabili allo stato di gas, vapori, nebbie o polveri in cui, dopo accensione, la combustione si propaga nell’insieme della miscela incombusta”.

 

Riprendiamo, a questo proposito, due degli articoli contenuti nel Titolo XI:

 

Articolo 289 – Prevenzione e protezione contro le esplosioni

1. Ai fini della prevenzione e della protezione contro le esplosioni, sulla base della valutazione dei rischi e dei principi generali di tutela di cui all’articolo 15, il datore di lavoro adotta le misure tecniche e organizzative adeguate alla natura dell’attività; in particolare il datore di lavoro previene la formazione di atmosfere esplosive.

2. Se la natura dell’attività non consente di prevenire la formazione di atmosfere esplosive, il datore di lavoro deve:

a) evitare l’accensione di atmosfere esplosive;

b) attenuare gli effetti pregiudizievoli di un’esplosione in modo da garantire la salute e la sicurezza dei lavoratori.

3. Se necessario, le misure di cui ai commi 1 e 2 sono combinate e integrate con altre contro la propagazione delle esplosioni e sono riesaminate periodicamente e, in ogni caso, ogniqualvolta si verifichino cambiamenti rilevanti.

 

Articolo 290 – Valutazione dei rischi di esplosione

1. Nell’assolvere gli obblighi stabiliti dall’articolo 17, comma 1, il datore di lavoro valuta i rischi specifici derivanti da atmosfere esplosive, tenendo conto almeno dei seguenti elementi:

a) probabilità e durata della presenza di atmosfere esplosive;

b) probabilità che le fonti di accensione, comprese le scariche elettrostatiche, siano presenti e divengano attive ed efficaci;

c) caratteristiche dell’impianto, sostanze utilizzate, processi e loro possibili interazioni;

d) entità degli effetti prevedibili.

2. I rischi di esplosione sono valutati complessivamente.

3. Nella valutazione dei rischi di esplosione vanno presi in considerazione i luoghi che sono o possono essere in collegamento, tramite aperture, con quelli in cui possono formarsi atmosfere esplosive.

 

Riguardo sempre ai rischi di incendio e di esplosione prendiamo spunto da alcune indicazioni normative regionali dedicate, in questo caso, alle attività di saldatura metalli.

 

In particolare il Decreto n. 10033 del 9 novembre 2012 della Direzione Generale Sanità della Regione Lombardia  ha approvato il documento “ Vademecum per il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori nelle attività di saldatura metalli”. Vademecum che dedica uno spazio proprio al rischio incendio.

 

Si indica che per le aziende che effettuano lavorazione di saldatura di metalli, generalmente il rischio incendio viene considerato “medio”, “pur non potendo escludere che, in casi specifici (dimensioni dell’azienda, capacità produttive dell’impianto, ecc.), la valutazione conduca ad una classificazione di livello di rischio ‘elevato’”.

Questi i “contenuti minimi del documento di valutazione del rischio incendio:

– informazioni sulle caratteristiche di infiammabilità ed esplosività delle materie prime e di eventuali intermedi;

– quantitativi in uso e in deposito;

– caratteristiche degli ambienti con eventuale compartimentazione;

– elenco attrezzature e impianti da utilizzare per l’estinzione, ubicazione e relativo programma di verifica e manutenzione periodica;

– caratteristiche dell’impianto elettrico;

– classificazione del rischio”.

 

Infine il vademecum riporta ulteriori adempimenti correlati al rischio incendio:

– “eventuale valutazione dei rischi di esplosione (in relazione alle caratteristiche delle sostanze utilizzate), vedi Titolo XI del D.Lgs 8 aprile 2008 n. 81;

– redazione del piano di emergenza ed evacuazione;

– nomina e formazione degli addetti all’emergenza ed evacuazione;

– nomina e formazione degli addetti al primo soccorso;

– installazione e manutenzione della segnaletica relativa alle attrezzature”.

 

 

Sito web di INFOR.MO.: nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 2737 e 1399(archivio incidenti 2002/2010).

 

 

Tiziano Menduto

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

 

Fonte: puntosicuro.it

Generic

L’attività del CSE: controllore aggiunto o regista della sicurezza?

Le funzioni, gli obblighi e la condotta penalmente esigibile da parte del Coordinatore della sicurezza per l’Esecuzione dell’opera (CSE). Di Carmelo G. Catanoso.
 

Nell’ultimo anno sono stati pubblicati diversi documenti da parte di enti di vigilanza, associazioni di settore, ordini e collegi professionali, ecc., su quelle che sono le funzioni, gli obblighi e la condotta penalmente esigibile da parte del Coordinatore della sicurezza per l’Esecuzione dell’opera (CSE).

 

In questi documenti viene adesso ribaltato quanto per anni è stato detto su questa figura in convegni, seminari, corsi e commenti su pubblicazioni del settore, spesso ad opera di funzionari o ex funzionari di enti di vigilanza e da rappresentanti della Pubblica Accusa. Chi ha avuto modo di partecipare a queste iniziative o leggere le pubblicazioni, sicuramente ricorderà affermazioni come queste:

–       << il CSE è il deus ex machina del cantiere….>>

–       <<il CSE deve vigilare sull’operato delle imprese in cantiere…>>

–       << il CSE è il perno della sicurezza in cantiere ….>>.

 

Adesso, sembra, insomma, che si sia passati da un approccio “talebano” ad un approccio moderatamente pragmatico. Sicuramente, questo cambio di atteggiamenti è dovuto al continuo susseguirsi, a partire dal gennaio 2010, di una serie di pronunce della Cassazione Penale riguardo quale debba essere la condotta penalmente esigibile da parte del CSE.

Come noto, la figura del Coordinatore della Sicurezza per l’Esecuzione (CSE), introdotta dalla direttiva 92/57/CEE, già prevista dal D. Lgs. n° 494/1996 e riconfermata dal D. Lgs. n° 81/2008, è attualmente gravata, nella nostra legislazione, da una serie di obblighi e responsabilità.

 

Probabilmente il legislatore, nell’istituire la figura CSE, non voleva introdurre un nuovo soggettogarante in toto della sicurezza in cantiere ma solo innalzare il livello di tutela. Va però detto che la formulazione dell’articolato che lo riguarda (ieri art. 5 del D. Lgs. n° 494/1996 e oggi art. 92 del D. Lgs. n° 81/2008), denotava e denota palesemente una scarsa conoscenza delle dinamiche organizzative e relazionali che permeano il settore delle Costruzioni.

Il D. Lgs. n° 494/1996 doveva avere, come obiettivo primario, quello di migliorare il sistema di gestione dei rischi aggiuntivi ed interferenziali (così come richiesto dalla direttiva 92/57/CEE di cui è provvedimento di recepimento e ben rappresentata dai “considerando” della direttiva stessa), derivanti dalla presenza in cantiere di più imprese e più lavoratori autonomi, affidandone la regia in fase progettuale al Coordinatore della Sicurezza per la Progettazione (CSP) e poi, in fase esecutiva, al CSE, e non quello di creare un ulteriore livello di controllo, da affidare in esclusiva a quest’ultima figura, per prevenire i reati propri [1] dei datori di lavoro, dei dirigenti e dei preposti delle imprese o dei lavoratori autonomi.

 

Infatti, non è un caso che la direttiva 92/57/CEE preveda la Responsabilità dei committenti e dei responsabili dei lavori (art. 7) e gli Obblighi dei datori di lavoro e di altri gruppi di persone (artt. 9 e10) mentre si limita, per CSP e CSE, a prevedere i Compiti dei Coordinatori (art. 5 e 6).

 

Il nostro legislatore non ha certo brillato per chiarezza nel recepimento della citata direttiva e con la motivazione di voler innalzare il livello di tutela ha previsto una serie di obblighi penalmente sanzionati per il CSP e, soprattutto, per il CSE. Tutto ciò ovviamente, ha innescato negli enti di vigilanza, soliti rilevare i reati di puro pericolo, la convinzione che una situazione di reato concretizzatasi in seguito alla mancata adozione di una misura prevenzionale prevista da unobbligo proprio (cioè posto a carico di ben determinati soggetti che, nel caso in esame, sono il datore di lavoro, i dirigenti ed i preposti delle imprese), fosse sistematicamente addebitabile anche al CSE.

 

Ma c’è di più. Questo approccio ha dimostrato in questi anni, la palese incapacità a comprendere quale sia la condotta penalmente esigibile da parte dei CSE. Infatti, ammesso che lo stesso CSE possa essere sempre presente in cantiere per vigilare sull’operato delle imprese e dei lavoratori autonomi, questi non potrebbe mai conseguire il risultato di assicurare la completa adozione di tutte le misure prevenzionali in quanto, fisicamente, non potrebbe mai vigilare su tutto il cantiere nello stesso tempo.

 

Infatti, non è un caso che lo stesso legislatore, fin dagli anni ’50, abbia definito, tra le altre, la figura del preposto e cioè quel soggetto, appartenente alla sfera imprenditoriale, addetto a vigilare sulla concreta applicazione delle misure prevenzionali adottate dal datore di lavoro.

Pertanto, con l’introduzione della figura del CSE, è stato un grave errore pensare che i compiti (e le responsabilità) delle varie figure d’impresa (preposto, in primis) siano passati anche sulle spalle del coordinatore facendo sì che quest’ultimo sia sempre chiamato a rispondere per la mancata vigilanza sull’attuazione degli obblighi di sorveglianza posti a carico delle prime.

Del resto basterebbe leggere i contenuti dell’allegato XV al D. Lgs. n° 81/2008 (Contenuti minimi dei piani di sicurezza), palesemente redatto, visti l’approccio pragmatico e i contenuti, da unapenna diversa rispetto a quella del Capo I del Titolo IV, per rendersi conto che l’oggetto dell’azione dei coordinatori sono i rischi interferenziali e quelli derivanti dalle particolarità dell’area di cantiere e della relativa organizzazione dei lavori ma non quelli propri o specifici dell’attività d’impresa.

 

In conclusione, pensare che il coordinatore debba occuparsi anche dei rischi propri o specifici delle imprese esecutrici altro non è che l’applicazione distorta di un di per sé confuso precetto normativo.

 

Comunque, si ricorda che obblighi del CSE sono quelli indicati dall’art. 92 del D. Lgs. n° 81/2008.

Articolo 92 – Obblighi del coordinatore per l’esecuzione dei lavori

  1. Durante la realizzazione dell’opera, il coordinatore per l’esecuzione dei lavori:
  1. verifica, con opportune azioni di coordinamento e controllo, l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’articolo 100, ove previsto, e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro;
  2. verifica l’idoneità del piano Operativo di Sicurezza, da considerare come piano complementare di dettaglio del piano di sicurezza e coordinamento di cui all’articolo 100, assicurandone la coerenza con quest’ultimo, ove previsto, adegua il piano di sicurezza e di coordinamento di cui all’articolo 100 e il fascicolo di cui all’articolo 91, comma 1, lettera b), in relazione all’evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, valutando le proposte delle imprese esecutrici dirette a migliorare la sicurezza in cantiere, verifica che le imprese esecutrici adeguino, se necessario, i rispettivi piani operativi di sicurezza;
  3. organizza tra i datori di lavoro, ivi compresi i lavoratori autonomi, la cooperazione ed il coordinamento delle attività nonché la loro reciproca informazione;
  4. verifica l’attuazione di quanto previsto negli accordi tra le parti sociali al fine di realizzare il coordinamento tra i rappresentanti della sicurezza finalizzato al miglioramento della sicurezza in cantiere;
  5. segnala al committente o al responsabile dei lavori, previa contestazione scritta alle imprese e ai lavoratori autonomi interessati, le inosservanze alle disposizioni degli articoli 94, 95 e 96 e 97,comma 1,  alle prescrizioni del piano di cui all’articolo 100, ove previsto, e propone la sospensione dei lavori, l’allontanamento delle imprese o dei lavoratori autonomi dal cantiere, o la risoluzione del contratto. Nel caso in cui il committente o il responsabile dei lavori non adotti alcun provvedimento in merito alla segnalazione, senza fornire idonea motivazione, il coordinatore per l’esecuzione dà comunicazione dell’inadempienza alla azienda unità sanitaria locale e alla direzione provinciale del lavoro territorialmente competenti;
  6. sospende, in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, le singole lavorazioni fino alla verifica degli avvenuti adeguamenti effettuati dalle imprese interessate.
  1. Nei casi di cui all’articolo 90, comma 5, il coordinatore per l’esecuzione, oltre a svolgere i compiti di cui al comma 1, redige il piano di sicurezza e di coordinamento e predispone il fascicolo, di cui all’articolo 91, comma 1, lettere a) e b), fermo restando quanto previsto al secondo periodo della medesima lettera b).

 

Andando ad esaminare quanto richiesto dall’art. 92, comma 1 lettera a) del D. Lgs. n°81/2008, ciò deve essere inteso come un’attività da espletare all’interno dell’azione di coordinamento e controllo delle attività in cantiere, prima e durante l’esecuzione dei lavori.

 

Il CSE non può e non deve essere il vigilante interno al cantiere; egli è un tecnico che organizza e dirige la sicurezza, non può sostituirsi al datore di lavoro e ai suoi dirigenti e preposti e non ha alcun titolo per controllare le maestranze ma soprattutto non può essere ritenuto responsabile per inadempienze a obblighi di legge commesse da altri.

Concetto semplice, ma spesso sconosciuto in pratica, anche a chi ha istituzionalmente l’obbligo di controllare sul campo il rispetto della legge.

 

In generale, va quindi chiarito, che l’azione di controllo richiesta al CSE, invece, deve essere di tipo propositivo, poiché questi deve limitarsi a indicare al Committente quale possa essere, di fronte a:

  • la mancata attuazione, da parte delle imprese e dei lavoratori autonomi, di quanto previsto nel PSC, ciascuno per la parte di propria pertinenza (art. 100, comma 3 del D. Lgs. n°81/2008);
  • la mancata attuazione, da parte delle sole imprese,  di quanto previsto nel Piano Operativo di Sicurezza – POS (art. 100, comma 3 del D. Lgs. n°81/2008),
  • il mancato adeguamento, da parte dei lavoratori autonomi, alle indicazioni fornite dal CSE (art. 94, del D. Lgs. n°81/2008),

l’azione correttiva più consona da attuare per ri-allineare i comportamenti delle imprese e dei lavoratori autonomi e migliorare il livello di sicurezza in cantiere.

 

Al CSE, infatti, è richiesto di verificare, e non di assicurare (non ha un obbligo di risultato ma di mezzi), l’osservanza e il rispetto, da parte di tutte le imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi presenti in cantiere, della corretta applicazione del PSC.

 

Il CSE deve pianificare e programmare la propria attività, in funzione dell’evoluzione dei lavori e dei periodi di particolare criticità, garantendo con tutte le azioni tecniche, organizzative e procedurali che metterà in atto, l’efficacia prevenzionale della propria funzione.

 

Non si può pretendere la continua presenza del CSE in cantiere, ma una presenza funzionale allo stato d’avanzamento dei lavori sia per far da filtro organizzativo all’accesso in cantiere di tutte le imprese e i lavoratori autonomi a cui il Committente ha direttamente affidato i lavori, sia per un controllo delle modalità lavorative adottate dalle stesse.

 

I datori di lavoro delle imprese con i propri dirigenti e preposti, avevano, hanno e avranno sempre le loro responsabilità derivanti dalla normativa prevenzionale vigente, che non potranno essere alleggerite dalla presenza del CSE, perché ad esso demandate.

 

L’art. 92 comma 1, lett. b) richiede al CSE di verificare l’idoneità del POS.

Anche in questo caso vanno fatte delle precise distinzioni.

Il CSE deve attuare due differenti obblighi:

  1. verificare l’idoneità del POS;
  2. assicurare la coerenza del POS con il PSC.

 

Nel primo caso, l’uso del verbo verificare, deriva dal fatto che il legislatore richiede al CSE, solo la verifica dell’idoneità del POS, proprio perché l’obbligo di risultato in termini d’idoneità del POS, spetta solo al datore di lavoro dell’impresa esecutrice.

 

Se il POS non è idoneo, il CSE non dovrà fare altro che rispedirlo al mittente richiedendo gli adeguamenti allo standard costituito dai contenuti indicati dall’Allegato XV al D. Lgs. n° 81/2008[2].

 

Quindi, non è certo corretto pensare che il legislatore abbia voluto individuare un profilo di responsabilità del CSE anche per i rischi propri specifici dell’attività d’impresa, perché in caso contrario si rischierebbe di attivare l’automatica chiamata in causa del CSE per qualunque reato di puro pericolo, contravvenzionalmente sanzionato dall’ente di vigilanza, a carico dell’impresa esecutrice.

 

Nel secondo caso, l’uso del verbo assicurare, a differenza del primo, impone un obbligo di risultato al CSE e va inteso, quindi, come aspetto fondamentale delle attività funzionali di questa figura. Il CSE, quindi, deve essere garante che il POS sia coerente con il PSC e cioè che l’impresa abbia recepito, coerentemente, le indicazioni contenute nel PSC. Tale garanzia, però, deve riguardare solo le attività descritte nel POS e non i comportamenti dell’impresa adottati in concreto durante l’esecuzione delle lavorazioni in cantiere. Se il POS non è idoneo e non è coerente con il PSC, il CSE non dovrà fare altro che rispedirlo al mittente richiedendo gli adeguamenti necessari.

 

Come già detto prima, il CSE non è un ufficiale di polizia giudiziaria (UPG), visto che la sua funzione è prevalentemente indirizzata verso un’attività di monitoraggio e verifica e, quando necessario, di richiesta di regolarizzazione (art. 92, comma 1, lettera e) del D. Lgs. n° 81/2008), alle imprese ed ai lavoratori autonomi, solo delle inosservanze alle disposizioni agli articoli 94, 95 , 96 e 97 comma 1 ed alle prescrizioni del PSC di cui all’art. 100 del D. Lgs. n° 81/2008.

 

Innanzi tutto va chiarito che le inosservanze riscontrate, ovviamente, sono quelle derivanti dal mancato rispetto di quanto previsto nel PSC e nel POS.

 

Il problema è che spesso, gran parte dei funzionari degli enti di vigilanza e della magistratura inquirente e giudicante, non riesce a comprendere che non è possibile verificare con continuità quanto sopra. Questo perché le situazioni e i comportamenti che si discostano da quanto definito nei documenti programmatici citati, si possono concretizzare in tempi rapidissimi quando il CSE non è presente in cantiere. Visto che ci sono datori di lavoro, dirigenti e preposti, con specifici obblighi a loro carico, previsti dalla normativa fin dagli anni ’50, la Corte di Cassazione, anche se con grande ritardo, non ha fatto altro che richiamare tutto ciò  con due pronunce della Sez. IV, n° 1490 del 14 gennaio 2010 e n ° 18149 del 13 maggio 2010, a cui ne sono seguite molte altre (come si vedrà più avanti), ribadendo che devono essere le figure d’impresa, già citate, ad essere le prime a verificare con continuità il rispetto dei contenuti del PSC e del POS, visto che esse sono o dovrebbero essere, loro sì, sempre in cantiere.

Il nuovo indirizzo fornito dalla Cassazione Penale ha messo uno stop ad affermazioni da parte di rappresentanti della Pubblica Accusa e funzionari degli enti di vigilanza che in convegni, seminari, ecc., ribadivano che <<il CSE deve essere pronto ad intervenire “sempre”, dall’inizio lavori alla chiusura del cantiere, senza limitare l’intervento ai soli casi in cui si verifichino situazioni che mettono a rischio l’incolumità degli addetti ai lavori>>. Affermazioni come questa, purtroppo ancora oggi molto diffuse nonostante i nuovi orientamenti della Cassazione Penale, denotano che non si è compreso che, in cantiere, il CSE ci va sulla base di una sua valutazione che è sua e soltanto sua ed è basata su criteri oggettivi che tengono conto delle diverse variabili tipiche del cantiere; in definitiva, il CSE in cantiere può andarci tutti i giorni, due volte al giorno, una volta alla settimana, ecc., così come ritiene meglio fare per garantire l’espletamento dei suoi compiti.

 

Esistono, però, delle fasi particolarmente critiche in cui è indispensabile la presenza del CSE durante lo svolgimento delle stesse.

 

Quando si parla di fase critica s’intende una fase dell’attività in cui si possono concretizzare, in tempi ristrettissimi, situazioni e comportamenti in grado di alterare il livello di sicurezza atteso (già frutto dell’analisi dei rischi e della definizione delle misure prevenzionali previste nel PSC), rendendolo non più accettabile.

 

In altre parole, parlando di criticità non si sta lasciando alle imprese l’onere di inventarsi delle soluzioni a rischi non valutati in fase di progetto e di coordinamento progettuale ma si sta chiedendo al CSE, al verificarsi di queste criticità, una presenza in cantiere al fine di intervenire per individuare, in tempo reale, insieme all’impresa affidataria ed alle imprese esecutrici, una serie di soluzioni condivise che permettano l’esecuzione dei lavori in sicurezza.

 

Ad esempio, nel caso di un cantiere per l’esecuzione di un cavalcavia ferroviario dove sono presenti delle linee elettriche aeree non sezionabili (l’alimentazione elettrica della linea ferroviaria), pur prevedendo nel PSC una serie di misure tecniche, organizzative e procedurali, rimane la necessità, di dover operare, sia per l’esecuzione delle spalle che, in particolare, per la posa delle travi, al di sopra delle linee elettriche in tensione non eliminabili/spostabili.

 

Queste fasi critiche richiedono la presenza del CSE:

    • prima dell’inizio dei lavori, per una specifica riunione di coordinamento con, ovviamente, tutte le imprese incaricate dell’esecuzione di questi lavori, al fine di richiamare tutte le scelte progettuali ed organizzative e le regole definite preventivamente nel PSC;
    • successivamente, durante la vera e propria posa delle travi al di sopra della linea in esercizio.

 

Tornando all’obbligo di segnalazione previsto dall’art. 92 comma 1, lett. e), il legislatore, però, ha imposto al CSE, prima di procedere alla segnalazione al committente o al responsabile dei Lavori (RL), di contestare per iscritto alle imprese le inosservanze ai citati articoli, in modo da permettere un contraddittorio con le stesse e la successiva risoluzione del problema evidenziato.

 

La richiesta di segnalazione al committente o al RL non può che essere di tipo propositivo, visto che l’art. 92, comma 1 lettera e) del D. Lgs. n° 81/2008, chiede al CSE di indicare il provvedimento più adeguato alla tipologia ed entità della violazione commessa dall’impresa: sospensione dei lavori, allontanamento dal cantiere o risoluzione del contratto.

 

Va precisato che la sospensione dei lavori citata dal legislatore, misura adottabile solo dal Committente o dal RL, non si riferisce alla singola lavorazione ma all’insieme delle lavorazioni che si svolgono in cantiere e cioè al cantiere nella sua interezza, con la conseguenza di bloccare l’esecuzione dell’intera opera, penalizzando, così, anche tutte le altre imprese che inadempienti non sono.

 

Il legislatore, pertanto, ha inteso prefigurare la sospensione dei lavori come l’ultima soluzione da adottare solo nel caso in cui l’attività in cantiere non possa proseguire vista la continua ed immodificabile condotta inadempiente dell’impresa.

 

Particolarmente criticabile è la previsione che obbliga il CSE, nel caso il committente o il responsabile dei lavori non adotti alcun provvedimento in merito alla segnalazione senza fornire idonea motivazione, di comunicare ad ASL e DTL territorialmente competenti tale inadempienza. Qui il legislatore ha dimenticato che tra committente/responsabile dei lavori e CSE c’è un rapporto fiduciario nonché un obbligo di verifica dei primi sull’operato del secondo (art. 93). Forse il legislatore voleva fornire un supporto agli enti di vigilanza per esercitare un maggiore controllo sui cantieri? Chissà? Certo è che il legislatore s’è dimenticato che il CSE non è un ufficiale di polizia giudiziaria che, invece, ai sensi di quanto previsto dall’art. 55 del c.p.p., ha l’obbligo d’intervento per evitare che la situazione di reato in atto venga portata ad ulteriori conseguenze. Né tantomeno il CSE ha l’obbligo, come privato cittadino, di denunciare i reati di cui viene a conoscenza (a meno che non si stia parlando di delitti puniti con l’ergastolo o di delitti contro la personalità dello Stato). Il buon senso, negli ultimi due decenni merce rara in ambito legislativo in tema di sicurezza sul lavoro, avrebbe consigliato due alternative:

1)    il CSE segnala agli enti di vigilanza il soggetto che sta commettendo il reato e cioè l’impresa oppure;

2)    non si prevede alcun obbligo di comunicazione agli enti di vigilanza lasciando che siano questi, in base alla programmazione delle loro attività, ad effettuare i controlli ed i conseguenti interventi.

 

Proseguendo nella disamina dell’art. 92, è solo nei casi previsti dalla lett. f) dell’art. 92 del D. Lgs. n° 81/2008 e cioè in caso di pericolo grave e imminente, direttamente riscontrato, che il CSE acquista il potere, ma anche il dovere, di ordinare la sospensione delle singole lavorazioni alle imprese esecutrici ed ai lavoratori autonomi coinvolti, fino all’avvenuta verifica della messa in atto degli adeguamenti necessari al ripristino delle condizioni di sicurezza in cantiere.

 

Va chiarito infatti che il CSE è obbligato ad intervenire solo quando, durante le sue verifiche, programmate ed attuate in funzione delle specificità e criticità dei lavori, ravvisasse situazioni tali da poter potenzialmente compromettere gravemente l’incolumità degli addetti ai lavori e di terzi in quanto direttamente esposti al rischio.

 

E’ del tutto evidente che la discriminante che fa scattare l’azione del CSE è quella relativa all’esecuzione di lavorazioni particolarmente critiche e che influenzano le altre attività lavorative che si svolgono nello stesso tempo e nella stessa area di cantiere, creando dei rischi interferenziali.

 

Se queste situazioni non si concretizzano, l’attività del CSE non è richiesta in quanto, trattandosi di rischi propri dell’impresa, essi sono governati dalle norme prevenzionali vigenti.

In definitiva e in sintesi, al fine di individuare correttamente l’ambito d’azione e, quindi, delle responsabilità del CSE, è fondamentale riferirsi alle tipologie dei fattori di rischio, distinguendone due categorie:

  • fattori di rischio specifici propri, direttamente connessi con le specifiche lavorazioni a cura e nella responsabilità del singolo datore di lavoro (con misure di prevenzione e di protezione da indicare nel rispettivo POS e riconducibili alla realtà organizzativa, alla dotazione di macchine e di attrezzature e alle scelte operative di ciascuna impresa);
  • fattori di rischio interferenziali e contestuali, ovvero inerenti alla realtà di cantiere con le sue peculiarità, in quanto tengono conto delle caratteristiche del sito, delle sue caratteristiche al contorno, delle tipologie delle lavorazioni svolte da tutti i soggetti presenti in cantiere e delle loro possibili interferenze spaziali e/o temporali.

 

E sono proprio i soli fattori di rischio proposti al secondo punto quelli facenti capo al coordinamento, sia in fase di progettazione, con la redazione del PSC, sia , ancora di più, in fase di esecuzione, quando il CSE si troverà in concreto di fronte alla summenzionata specifica realtà di cantiere.

 

A rafforzare quanto sopra, vi è una serie di  sentenze della Corte di Cassazione:

Cassazione Penale Sez. IV, n° 1490 del 14 gennaio 2010 – Cassazione Penale Sez. IV, n° 18149 del 13 maggio 2010 – Cassazione Penale Sez. IV, n° 12703 del 29 marzo 2011  – Cassazione Penale Sez. IV, n° 14654 del 12 aprile 2011  – Cassazione Penale Sez. IV, n° 25663 del 27 giugno 2011 – Cassazione Penale Sez. IV, n° 46839 del 19 dicembre 2011 – Cassazione Penale Sez. IV, n° 6379 del 16 febbraio 2012 – Cassazione Penale, Sez. IV, n° 37738 del 12 settembre 2013 – Cassazione Penale, Sez. IV, n° 47283 del 17 novembre 2014 – Cassazione Penale, Sez. IV, n° 7960 del 23 febbraio 2015 – Cassazione Penale, Sez. IV, 02 luglio 2015, n. 28132 – Cassazione Penale, Sez. IV, 16 luglio 2015, n. 31015 – Cassazione Penale, Sez. IV, 16 settembre 2015, n. 37595 – Cassazione Penale, Sez. III, 19 ottobre 2015, n. 41820 – Cassazione Penale, Sez. IV, udienza 17 dicembre 2015, n. 11634 – Cassazione Penale, sez. IV, 4 luglio 2016, n. 27165.

 

In tutte queste sentenze della Suprema Corte, si ribadisce il concetto che il CSE, deve esercitare<<un ruolo di vigilanza che riguarda la generale configurazione delle lavorazioni e non la puntuale stringente vigilanza, momento per momento, demandata alle figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto).>>

Inoltre, nelle citate sentenze, tra cui l’ultima elencata (Cassazione Penale sez. IV, n° 27165/2016), da apprezzare per l’estrema chiarezza, viene ribadito che le funzioni del CSE sono di <<alta vigilanza>> e non vanno confuse con la vigilanza operativa che è demandata al datore di lavoro ed alle figure che da lui dipendono come, ad esempio, il preposto.

Inoltre, sempre in quest’ultima sentenza, si ribadiscono altri aspetti estremamente importanti:

–       <<Il coordinatore per l’esecuzione non è il controllore del datore di lavoro, ma il gestore del rischio interferenziale.>>;

–       << il CSE ha il compito di verificare documentalmente che vi sia stata un’attività di formazione ed informazione dei lavoratori, ma colui su cui grava l’onere di verificare – e la responsabilità – che tale formazione sia effettiva, è il datore di lavoro ai sensi dell’art. 37 d.lgs 81/08.

–       <<Mentre le figure operative sono prossime al posto di lavoro ed hanno quindi poteri-doveri di intervento diretto ed immediato, il coordinatore opera attraverso procedure; tanto è vero che un potere-dovere di intervento diretto lo ha solo quando constati direttamente gravi pericoli (art. 92, co. 1 lett. f) d.lgs. n.81/2008)>>.

 

Accanto a queste, ignorate anche da gran parte dei commentatori, ci sono numerose sentenze di assoluzione nella giurisprudenza di merito, molte di queste divenute definitive per i CSE coinvolti, che definiscono con accuratezza il perimetro delle funzioni e delle responsabilità del CSE: Tribunale di Avellino, Sez. Pen., 03 ottobre 2011, n. 151 – Tribunale di Como, Sez. Erba, 30 luglio 2013, n. 129 – Tribunale di Como, Sez. Pen., 26 febbraio 2014, n. 270 – Tribunale di Sondrio, Sez. Pen., 18 marzo 2014, n. 102 – Tribunale di Reggio Emilia, Sez. Pen., 20 maggio 2014, n. 1089 – Tribunale di Milano, Sez. Pen. 6, 24 settembre 2014, n. 7017 – Corte d’Appello di Milano, Sez. 5, 26 novembre 2015, n.8128, Corte d’Appello di Brescia, Sez. 2, 4 maggio 2016, n. 1426.

 

In conclusione, per tenere conto sia delle reali dinamiche organizzative e produttive del settore delle costruzioni che delle ripetute pronunce della Corte di Cassazione, si reputa opportuno che il legislatore riveda approfonditamente i contenuti del Titolo IV e, in particolare, gli obblighi del CSE anche per riavvicinarci al resto dei Paesi della UE che hanno definito tale figura non come un controllore aggiunto ma come un regista della sicurezza sul lavoro durante il processo costruttivo.

 

 

Carmelo G. Catanoso

Ingegnere Consulente di Direzione

 

 

 

[1] Per “reato proprio” s’intende il reato che può essere commesso soltanto da colui che riveste una determinata qualifica o ha uno status precisato dalla norma, o possiede un requisito necessario per la commissione dell’illecito come, ad esempio, il datore di lavoro, il dirigente, il preposto, ecc. citati nel D. Lgs. n° 81/2008.

 

[2] Su questo aspetto, tra le Regioni, si espressa anche la Regione Lombardia con il Decreto n° 3221 del 12/04/2016, “Linee d’indirizzo per la prevenzione e la sicurezza dei cantieri per opere di grandi dimensioni e rilevante complessità e per la realizzazione di infrastrutture strategiche”, pag. 11, par. 3.4, ultimo capoverso.

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it