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Valutazione dei rischi e risk based thinking

Il risk based thinking e la valutazione dei rischi dei processi secondo ISO 9001:2015: sono strumenti settoriali o hanno valore generale? Di Alessandro Mazzeranghi.
Con la pubblicazione della nuova edizione della ISO 9001, lo scorso anno, per la prima volta una norma di sistema di gestione, che non tratta di salute e sicurezza, ha introdotto al suo interno il concetto di valutazione dei rischi. Anzi, lo ha sistematizzato tanto da scegliere di parlare di risk based thinking; è una novità rilevante, e paradossalmente interessa anche chi, da tanti anni, ragiona in termini di valutazione dei rischi. Insomma, è una novità interessante.

 

Per capire meglio la questione probabilmente non basta la mera lettura della norma, per l’approccio estremamente sintetico adottato dalla stessa. È necessario uno sforzo immaginazione per capire come si potrà “interpretare” la questione nei prossimi anni, confidando in un approccio graduale dei nuovi contenuti della norma. Questo sforzo di immaginazione è proprio il contenuto di questo articolo.

 

La gestione di una azienda ( organizzazione) cosa deve considerare?

Noi tutti riteniamo che una azienda coincida con un business specifico, ovvero con una o più tipologie di prodotti che l’azienda vuole immettere sul mercato.

Potremmo dire quindi che una azienda nasce e vive per cogliere, cogliendo delle opportunità offertele dal mercato. Quindi la missione primaria della azienda è fare business (produrre utile) sfruttando le opportunità che le si presentano.

Questa è la base della visione capitalistica delle imprese. Ma è una visione che andava benissimo in altri tempi. Se non ci hanno pensato le aziende, ha provveduto la crisi iniziata nel 2007, a dimostrare che le aziende non possono basarsi solo sulla ricerca di opportunità, ma devono anche considerare i rischi a cui le azioni intraprese o progettate le espongono. La chiusura di tante aziende e la perdita di tanti posti di lavoro dimostrano chiaramente, alla fine (si spera) di questa disastrosa crisi, che i rischi a cui le aziende erano esposte non erano effettivamente noti. E stiamo vedendo che correre ai ripari dopo il disastro continua ancora oggi ad accumulare sofferenze sociali (in termini di perdita di posti di lavoro ritenuti “sicuri”) ed economiche (in termini di stagnazione della crescita del PIL).

 

Quindi se vogliamo parlare di lezioni che dovremmo avere imparato da quasi dieci anni di sofferenze, ci sono almeno due aspetti significativi:

–          Ogni azienda deve conoscere e gestire i rischi a cui è esposta

–          Ogni azienda deve identificare le relazioni reciproche di rischi che ha con l’esterno (contesto e parti interessate).

La prima affermazione è più ovvia, specialmente per chi ha l’abitudine a valutare i rischi nell’ambito della salute e della sicurezza sul lavoro. Si tratta di effettuare una valutazione dei rischi più ampia, ovvero multidisciplinare, che consideri i possibili danni che l’azienda può subire qualora si verificassero eventi indesiderati e possibili (cioè che possono effettivamente accadere con una probabilità che naturalmente non è ancora nota, ma lo sarà a seguito della analisi).

In un contesto generale solido (quindi escludendo eventuali crisi generalizzate) immaginiamo una azienda che per il 70% fattura ad un solo cliente. È evidente che un cambio di strategia del cliente, o il ridimensionamento del cliente, o qualunque accidente spinga il cliente a comprare da altri, potrebbe essere fatale alla azienda. Che probabilità associamo all’evento indesiderato? E quali contromisure si devono, eventualmente, adottare se il rischio è elevato?

Stiamo proprio parlando di gravità (del danno alla azienda) e di probabilità che l’evento indesiderato si verifichi. Quindi dei concetti comunemente utilizzati nelle valutazioni dei rischi in materia di salute e sicurezza.

 

Veniamo alla seconda affermazione: il rischio per l’azienda non è solo legato al business, come nel caso sopra, o ad altri fattori ovvi come la tutela degli asset, la tutela del know how, la tutela della salute e sicurezza dei lavoratori (un infortunio rappresenta anche un rischio di danno per l’azienda, e non solo in virtù del D.lgs. 231/2001); esistono altri elementi che sono legati al contesto in cui l’azienda è inserita, contesto con il quale sono in essere rapporti che generano reciproche influenze (e rischi).

 

Faccio un esempio basato su fatti veri: un cantiere navale posizionato lungo la foce di un fiume è notoriamente esposto ad eventuali esondazioni. Fra l’altro la cosa è talmente conosciuta ed evidente che il piano di emergenza ne tiene debitamente conto. Anche sotto altri profili la questione sembra gestita, infatti esiste una assicurazione specifica per i danni materiali in caso di esondazione; inoltre nei contratti con i clienti sono esplicitamente escluse penali nel caso di ritardi di consegna o altri disservizi dovuti a calamità naturali, incluse le esondazioni. Cosa manca? Non sembra che sia stato tutto valutato? La risposta è negativa; mancano due cose fondamentali (ovvero non sono state valutate due conseguenze negative fra loro correlate): la insoddisfazione del cliente in caso di gravi ritardi derivanti da una esondazione (la prossima volta il cliente sceglierà un altro fornitore, e la questione sarà nota a tutto l’ambiente), e l’alterazione dei flussi di cassa per il corrispondente ritardo della fatturazione. Non sono cose da poco. E non basta la vaga percezione del rischio, deve essere quantificato (monetizzato) nei casi peggiori.

Quindi la distinzione fra un mero riconoscimento intuitivo dei possibili pericoli / rischi, e invece un risk assesment sistematico e completo, può comportare una differenziazione delle strategia di difesa della azienda e del business.

 

Attenzione: in certi settori questa non è una novità! Nel settore petrolifero (esplorazione e produzione), già da oltre dieci anni le principali compagnie tutelano le tempistiche di avviamento dei nuovi impianti chiedendo ai fornitori chiave garanzie sia su aspetti di salute, sicurezza e ambiente (a cui associano il rischio di sospensione della attività dei fornitori per il sequestro degli impianti), sia su aspetti legati al “disaster recovery”, ovvero alla capacità del fornitore di mantenere la produzione anche in caso di gravi disastri (dagli incendi ai terremoti, e per paesi diversi dal nostro, agli atti ostili da parte di soggetti terzi).

Concludendo queste poche considerazioni: il risbased thinking non solo è una necessità interna alla azienda, ma diventerà sempre di più una richiesta (e un requisito) del mercato.

 

Risk based thinking: siamo pronti?

Come si accennava, chi scrive si è trovato a lavorare su questi temi già dalla fine del secolo scorso, con fatica e con un approccio più qualitativo che semi oggettivo (come sottintende la norma); è sempre una questione di fortuna, si potrebbe dire. Quindi un po’ di esperienza maturata dovrebbe rendere facile la applicazione della ISO 9001:2015 così potrebbe sembrare. Invece anche chi ha avuto già esperienze sul tema della gestione aziendale basata (anche) sul rischio, e altrettanto chi viene da forti esperienze di valutazione dei rischi (tipicamente chi si è occupato di salute e sicurezza sul lavoro), trova difficoltà. In una parola sembra che nessuno sia veramente pronto a collegare tutti gli aspetti a cui fa riferimento la norma. Il rischio è quello di essere “più realisti del re”, cioè di esagerare presi da una ansia di completezza e dettaglio più formale che sostanziale.

 

In questo momento molti stanno lavorando sui metodi, e le proposte che possiamo conoscere sono molto varie, ma ancora piuttosto embrionali. Chi scrive a sua volta sta cercando di costruire un metodo, che vorrebbe presentare anche su queste pagine per proseguire la discussione che spera di avviare con questo articolino.

 

Alessandro Mazzeranghi

 

Fonte: puntosicuro.it

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

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Spazi confinati: i rischi delle strutture isolate del sottosuolo

Un intervento si sofferma sulle strutture isolate del sottosuolo con riferimenti ai rischi per i lavoratori e alle possibili misure di prevenzione. I sistemi aperti, le strutture isolate, la ventilazione e me misure da adottare.
 

Modena, 28 Giu – In alcuni luoghi di lavoro gli infortuni, anche mortali, avvengono con eccessiva frequenza e soprattutto a causa di incidenti dovuti alla qualità dell’aria presente all’interno dell’ambiente.

Stiamo parlando degli spazi confinati e dei molti incidenti che in Italia continuano ad avvenire malgrado l’entrata in vigore del  Decreto del Presidente della Repubblica 14 settembre 2011, n. 177 che prevede un sistema di qualificazione delle imprese e dei lavoratori autonomi che operano nell’ambito degli   ambienti confinati e sospetti di inquinamento.

 

Affrontiamo il tema degli spazi confinati, con particolare riferimento alle strutture isolate del sottosuolo, presentando alcuni documenti correlati alla lezione, dal titolo “Atmospheric Hazards and Isolated Subsurface Structures in the Subsurface Infrastructure – A Deadly Combination”, di uno dei massimi esperti in materia di spazi confinati, Neil McManus (CIH, ROH, CSP North West Occupational Health & Safety North Vancouver, British Columbia Canada). Lezione in webconference che McManus ha tenuto al quinto convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati, dal titolo “ Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”, un evento organizzato nell’ambito del progetto “ A Modena la sicurezza sul lavoro in pratica” dal Centro di Ricerca Interdipartimentale sulla Sicurezza e Prevenzione dei Rischi C.R.I.S. in collaborazione con l’Associazione organismo di ricerca  European Interdisciplinary Applied Research Center for Safety di Parma.

 

Nel documento “Strutture isolate del sottosuolo: un infortunio che sta aspettando di verificarsi?”, McManus, ricorda che i problemi degli spazi confinati nascono anche perché certi tipi di spazio di lavoro:

non sono luoghi dove le persone normalmente lavorano, ovvero non sono progettati o destinati all’occupazione permanente di un lavoratore;

presentano vie di accesso e uscita limitate;

hanno conformazione geometrica in grado di intrappolare le persone e/o inquinanti aerodispersi e/o un’energia pericolosa.

E non sono disponibili molte informazioni pubblicate circa il tipo e l’entità delle condizioni di pericolo e di come queste si sviluppano.

I pericoli che, sulla base dei dati storici, rappresentano la principale causa d’incidente sono:

carenza di ossigeno;

atmosfere contaminate;

incendi ed esplosioni;

arricchimento di ossigeno.

 

Inoltre, prosegue la presentazione, l’atmosfera pericolosa “può svilupparsi prima di entrare in uno spazio confinato e/o nel corso dello svolgimento di un’attività lavorativa”.

 

Riguardo alle infrastrutture presenti nel sottosuolo queste sono spesso situate sotto: “zone pedonali, carreggiate, parchi”, … si indica che sono solitamente costituite da strutture in calcestruzzo gettato in opera o prefabbricate, alcune di nuova costruzione quale aggiunta/modifica a reti già esistenti, o già in servizio. Queste possono costituire sistemi aperti, ovvero un sistema di ambienti interconnessi tra loro per mezzo di tubature o condotti, in grado di consentire la diffusione all’interno dell’intero sistema di eventuali inquinanti oppure strutture isolate.

Prescindendo dalla modalità con cui sono interconnesse, bisogna ricordare che queste strutture sono soggette agli effetti dello stress meccanico, chimico e del tempo che, progressivamente, ne riducono le caratteristiche prestazionali, specie rispetto alla tenuta. Da notare che, in particolare, le reti fognarie e di trasporto del gas metano, sono le condotte sotterranee che più patiscono l’usura da parte del tempo e dall’ambiente di posa tenuto anche conto che, nel caso delle fognature, queste sono state spesso costruite in materiali poveri (cemento, cemento-amianto, muratura, ecc.) con modalità di posa per lo più finalizzate al massimo risparmio dei costi. Questo insieme di fattori, quindi, determina potenziali situazioni di mancanza di tenuta di tratti delle reti interrate che potrebbero essere origine (reti fognarie, distribuzione di gas metano) o recettori (reti fognarie, di distribuzione di energia elettrica, telefonia/dati) di agenti chimici pericolosi (inclusi in specifici ambiti geologici i gas endogeni) che potrebbero penetrare al loro interno.

 

La lezione propone alcuni esempi di sistemi aperti:

– “fognature sanitarie/acque piovane e strutture a loro connesse;

– pozzetti interrati della rete distribuzione elettricità;

– pozzetti delle reti di comunicazione (telefono, cavo TV, cavo fibra ottica);

– tunnel servizi (vapore, acqua calda e fredda, gas di processo)”.

Nel caso delle strutture isolate del sottosuolo, queste possono essere “strutture deliberatamente isolate in sistemi aperti” e “strutture intrinsecamente isolate”.

 

Tra le strutture intrinsecamente isolate possiamo avere:

– “distribuzione acqua potabile (pozzetto delle valvole, pozzetto apparecchi di misura);

– pozzi di emungimento acqua;

– camerette sulle reti di distribuzione;

– alcune camerette delle reti di comunicazione”;

– ambienti caratterizzati dall’assenza di canalizzazioni di collegamento con altre strutture interrate che possono consentire l’aerodispersione di inquinanti gassosi (ad esempio le tubazioni di trasporto dell’acqua in uscita da un pozzetto idrico con valvole sono direttamente interrate nel terreno).

 

A causa della loro conformazione strutturale e del contesto di installazione, le strutture isolate del sottosuolo possono contenere:

– “acque reflue raccolte in fogna, acqua di falda, acqua di marea;

– sabbia, piccole pietre;

– foglie, altri detriti organici;

– residui di sale sparso sulle strade;

– insetti, ragni;

– piccoli animali;

– siringhe ipodermiche, aghi, altri oggetti appuntiti;

– rifiuti di origine umana e animale;

– reflui liquidi per lo smaltimento e vapori;

– gas e vapori endogeni;

– vapori di liquidi infiammabili causati da perdite di serbatoi (benzina, GPL, ecc.);

– gas di scarico di veicoli, di apparecchiature fisse e portatili (es. generatore di corrente mobile)”.

E non bisogna dimenticare che questi ambiti possono anche essere allagati dall’acqua che, tra l’altro, favorisce la formazione di ruggine e consente la crescita di microrganismi sui detriti organici”.

 

Il documento agli atti, ricco d’immagini esplicative, riporta alcune strategie per impedire l’ingresso delle acque superficiali: “impedire l’entrata di acqua usando un portello di accesso a tenuta stagna deviando le perdite su un canale di scolo” oppure “prevedere una pompa immersa, predisporre un drenaggio in fogna prevedendo un sifone per evitare che i gas di fogna possano permeare l’atmosfera interna”.

 

Riguardo alla ventilazione:

– alcune strutture contengono sistemi di ventilazione fissi (“solo ventilazione: alcune stazioni di sollevamento/pompaggio; solo aspirazione: alcune camerette elettriche sotterranee, alcune stazioni di sollevamento/pompaggio”);

– la maggior parte delle strutture isolate del sottosuolo “dipendono dalla ventilazione naturale (aperture di ventilazione nella superficie di accesso; aperture di ventilazione nella superficie di accesso + aperture supplementari). Alcune strutture contengono un condotto che ha un’apertura sulla superficie”.

Ci sono peraltro diverse strutture interrate che non sono ventilate.

 

Il documento, che vi invitiamo a leggere integralmente, si sofferma poi su altri aspetti (autoventilazione, bilanciamento della pressione, …) e altri ambienti che fanno parte delle reti interrate (pozzi di respirazione, falde freatiche, strutture di respirazione, stazioni di pompaggio nei cimiteri, …). E sono riportate alcune prospettive di regolamentazione e varie indicazioni tratte da ricerche e studi.

Infatti noi “non sappiamo quasi niente di:

– condizioni ambientali nelle strutture isolate del sottosuolo;

– sviluppo della contaminazione atmosferica e come ripristinare le condizioni ambientali”.

Ed è dunque necessario “compiere uno sforzo considerevole per indagare su questi temi”.

 

In conclusione McManus riporta alcuni “suggerimenti di misure da adottare nel luogo di lavoro:

– esaminare tutte le strutture del sottosuolo indipendentemente dall’età e dall’uso prima dell’accesso al loro interno e durante lo svolgimento della prestazione lavorativa;

– prima dell’accesso al loro interno e durante lo svolgimento della prestazione lavorativa ventilare tutte le strutture del sottosuolo;

– esaminare l’autoventilazione delle strutture del sottosuolo per determinarne le caratteristiche del comportamento”.

 

 

 

Strutture isolate del sottosuolo: un infortunio che sta aspettando di verificarsi?”, prima parte(formato PDF, 5,41 MB) e seconda parte (formato PDF, 4,31 MB), documenti relativo alla lezione “Atmospheric Hazards and Isolated Subsurface Structures in the Subsurface Infrastructure — A Deadly Combination” di  Neil McManus (CIH, ROH, CSP North West Occupational Health & Safety North Vancouver, British Columbia Canada), V convegno nazionale sulle attività negli spazi confinati “Confined Spaces: new perspective in Confined Spaces Safety”

 

 

Fonte: puntosicuro.it

 

RTM

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

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Rischio stress e valutazioni nelle aziende: il paradosso italiano

Un intervento ad un convegno sul tema dello stress lavoro correlato riporta alcuni dati e alcune riflessioni su un paradosso tutto italiano: aumentano le possibilità di stress nei luoghi di lavoro, ma le valutazioni dei rischi sembrano non rilevarlo.
Milano, 28 Giu – Se l’ Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ritiene che entro il 2020 la depressione diventerà la causa principale d’inabilità al lavoro, si può comprendere quanto sia importante che i luoghi di lavoro possano costituire in futuro “un ambiente privilegiato per la prevenzione dei disturbi psicologici e per la promozione di una migliore salute mentale”.

 

A riportare le indicazioni dell’OMS è un intervento che si è tenuto al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili”, un convegno organizzato da AIBEL, ATS Milano e SNOP che si è tenuto il 7 giugno 2016 a Milano.

 

Nell’intervento “Il tema stress lavoro correlato nei Piani Regionali Prevenzione – Il confronto tra le figure professionali, prime conclusioni del Gruppo di lavoro CIIP sullo Stress”, a cura della D.ssa Laura Bodini (Direttivo nazionale SNOP e vice-presidente CIIP), non solo sono riportati i dati dell’OMS ma si fa riferimento anche ad altri dati ed esperienze rilevanti. Ad esempio ai tanti documenti di associazioni e enti pubblici, alla “ campagna europea 2014-2015” e alla maggiore attenzione al tema dell’organizzazione del lavoro e al tema del tecnostress.

E si indica che diverse revisioni di letteratura hanno trovato un “consistente aumento del rischio in lavoratori esposti a stress lavoro-correlato di sviluppare: patologie cardiovascolari, disturbi psicologici comuni, depressione, disturbi muscolo-scheletrici del rachide e dell’arto superiore, aumento delle assenze per malattia, aumento di consumo di psicofarmaci, etc”.

 

E diverse ricerche parlano di “aumentati (decine di miliardi di euro) costi sociali, sanitari ed economici per malattie psicologiche correlate al lavoro e assenze dovute a stress lavoro-correlato” (LC).

 

Nell’intervento, che vi invitiamo a visionare integralmente, sono poi riportati i riferimenti normativi del D.Lgs. 81/2008 e si sottolinea la presenza del tema relativo al rischio stress nel Piano Nazionale di Prevenzione 2014-2018, nel progetto CCM “Piano nazionale di monitoraggio e di intervento per l’ottimizzazione della valutazione e gestione dello stress lavoro-correlato” e nei Piani Regionali.

Tuttavia – continua la relatrice – è come se ci fosse una “difficoltà di base anche nel mondo ASL” ad affrontare questo tema con convinzione. Si assiste, insomma, ad una “svolta culturale ancora debole sia nel mondo del lavoro che nel sistema ASL”, anche per mancanza di investimento in figure sanitarie (medici del lavoro, assistenti sanitari, psicologi del lavoro…).

 

Vengono poi ricordati:

– l’Accordo quadro europeo sullo stress lavoro (8/10/2004);

– l’Accordo quadro europeo sulle molestie e la violenza nel luogo di lavoro (8/11/2007) e si riportano alcune indicazioni su un paradosso italiano.

 

Infatti in Italia negli ultimi anni si sono verificati:

– “peggioramento delle condizioni contrattuali con blocco dei contratti e del turnover nella pubblica amministrazione ad iniziare dal settore critico della sanità;

– aumento della precarietà nelle varie forme e pesanti ristrutturazioni aziendali (crisi economica e occupazionale);

– modifiche significative degli orari di lavoro e del regime pensionistico;

– difficile gestione di alcuni diritti (assenze per malattia, ridotta capacità lavorativa, etc);

– aumento degli Indicatori di malessere (aumento consumo fumo, alcool, psicofarmaci, dipendenza da gioco d’azzardo, comportamenti aggressivi nella società e nei luoghi di lavoro, suicidi…) che emergono anche dai dati correnti gestionali delle ASL, ISTAT”…

Malgrado tutte queste premesse, come indicato anche in altri articoli del nostro giornale, i “primi risultati delle indagini e della valutazioni dei rischi su stress LC (2010-2015) non rispecchiano i risultati degli altri paesi europei, ma in Italia vi è frequentemente un anacronistico e tranquillizzante ‘ semaforo verde’. Anche in settori critici indicati dal mondo scientifico e dall’Europa: sanità, scuola, grande distribuzione, trasporti, sistema finanziario, etc. Anche in situazioni di pesante ristrutturazione aziendale”.

 

Perché questo paradosso? 

 

La relatrice riporta qualche causa possibile:

– “mancanza di cultura del benessere da parte di molte aziende (sottovalutazione del problema, difensivismo, paura di contenziosi medico-legali, burocratismo);

– limitata adozione dell’Accordo Quadro SLC come strategia di miglioramento dell’efficienza delle aziende (art.1 comma 3) e partecipazione dei lavoratori nella ricerca delle soluzioni (art.4. comma 3);

– frequente affidamento ad esterni della VdR (valutazione dei rischi, ndr) con scarsa valorizzazione delle competenze e conoscenze interne all’impresa, ad iniziare dalla partecipazione di tutti;

– mancanza di (uso strumenti di) ascolto e scarsa partecipazione informata e formata di lavoratori e RLS;

– mancata valorizzazione e scarso coinvolgimento dei medici competenti;

– dibattito sugli strumenti (oggettivo/soggettivo) e non sulle soluzioni;

– confusione, più o meno intenzionale, tra stress e stress al lavoro;

– confusione tra valutazione dello stress e valutazione del rischio stress”;

– nelle VdR “maggiore attenzione a safety (attrezzature, impianti, DPI) rispetto a security (ruoli, benessere, organizzazione);

– ristrutturazioni aziendali significative non sono prese in considerazione con i sistemi di valutazione esistenti”.

Sono poi riportate altre possibili cause, ad esempio l’uso di indicatori non mirati, la scarsa attitudine alle soluzioni dei problemi organizzativi individuati, la mancanza di dati raccolti con sistematicità sui disturbi soggettivi e sull’aumento del consumo farmaci,…

E ancora:

– “mancata o errata analisi per gruppi omogenei, aspecificità, mancato coinvolgimento degli RLS;

– mancata attenzione ai problemi man mano rilevati e scarsa attitudine alle soluzioni (ergonomiche, formative, organizzative) dei problemi individuati;

– predilezione per interventi di prevenzione rivolti al singolo ed al sostegno delle sue capacità di far fronte allo stress, invece che verso aspetti di progettazione, organizzazione, gestione del lavoro”.

 

Vengono poi ricordate alcune criticità riguardo al metodo di valutazione italiano e alle indicazioni della Commissione Consultiva sulla valutazione del rischio Stress LC (2010).

Queste indicazioni, “frutto di mediazione politica, avevano definito un livello minimo di attuazione articolato in due fasi: una necessaria (oggettiva), l’altra eventuale (soggettiva). Questa indicazione sottendeva una gerarchia: sulla base degli esiti della sola valutazione oggettiva il processo si poteva fermare senza conferma derivante dall’analisi della percezione dei lavoratori”. E si sottolinea che “siamo ancora fermi dopo 5 anni alla verifica di efficacia della metodologia”.

 

Insomma, che fare?

 

Ad esempio la consulta CIIP e le associazioni aderenti si impegnano a:

– “mantenere nel tempo il Gruppo di lavoro sullo stress LC che sta attraversando un periodo critico;

– sostenere con iniziative la sensibilizzazione alla cultura del benessere;

– rivalutare il percorso sostenendo le figure interne al sistema di prevenzione di impresa;

– raccogliere e diffondere esperienze, strumenti e soluzioni sulla gestione dello stress LC in settori specifici (es. sanità, trasporti, alberghi, etc…);

– riprendere l’ascolto dei soggetti, cominciando dal mondo di chi lavora e il loro ruolo: medico competente, dirigenti, lavoratori, RLS, … fino ad ora poco valorizzati”.

 

E nel mondo delle Regioni e delle ASL è necessario “credere di più nei Piani Regionali Prevenzione che danno indicatori e numeri che impegnano i servizi territoriali in modo decisivo e non marginale nel sostegno a RLS e bilateralità, che valorizzano anche audit come modalità di controllo e di ascolto”.

Bisogna investire in figure professionali, “bilanciando controllo/ prevenzione e assistenza/ sportello”, e con un “orientamento alle soluzioni dei problemi organizzativi evidenziati con scambio, messa in rete di buone pratiche” …

 

E infine nel mondo degli RLS e sindacale è bene:

– “puntare e sostenere la partecipazione dei lavoratori e degli RLS (formazione, riunione periodica, valutazione, proposta soluzioni, confronti tra reti di comparto, etc)” tenendo conto di quanto sostenuto dai piani nazionali e regionali;

– “non delegare alle ASL ma avere il coraggio di segnalare le situazioni ingestibili;

– cercare insieme risposte a invecchiamento della popolazione lavorativa, alle questione di genere, ai bisogni e aspettative (senza diritti) di giovani generazioni spesso con livelli di scolarità elevate;

– orientamento alle soluzioni dei problemi organizzativi evidenziati con scambio, messa in rete di buone pratiche… anche nella contrattazione aziendale”.

 

 

“ Il tema stress lavoro correlato nei Piani Regionali Prevenzione – Il confronto tra le figure professionali, prime conclusioni del Gruppo di lavoro CIIP sullo Stress”, a cura D.ssa Laura Bodini (Direttivo nazionale SNOP e vice-presidente CIIP), intervento al convegno “Stress, molestie lavorative e organizzazione del lavoro: aspetti preventivi, clinici e normativo-giuridici. Le soluzioni possibili” (formato PDF, 2.08 MB).

 

 

Tiziano Menduto

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

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Relazione annuale 2015 dell’EU-OSHA

Adattarsi al cambiamento e ai rischi e alle sfide che esso comporta.
Il 2015, contraddistinto tanto da risultati quanto da sfide, è stato un altro anno ricco di eventi per l’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (EU-OSHA). La relazione annuale 2015 illustra i punti salienti dell’anno, che sono stati caratterizzati dall’anticipare e dall’adattarsi ai cambiamenti nel mondo del lavoro e dall’affrontare i rischi e le sfide risultanti da questi stessi cambiamenti. L’anno è stato anche segnato dalla conclusione della campagna dell’EU-OSHA “Insieme per prevenire e gestire lo stress lavoro-correlato”.

 

“Gli ambienti di lavoro sono caratterizzati da una crescente concorrenza e le tecnologie si sviluppano rapidamente. Di conseguenza, è importante sapersi adattare a questi cambiamenti e lavorare insieme per ottenere i migliori risultati possibili.”

 

Christa Sedlatschek, la direttrice dell’EU-OSHA, ha evidenziato come il cambiamento sia stato un tema di fondo del 2015: “Sempre di più, il lavoro è trasferito al di fuori dei contesti tradizionali, gli ambienti di lavoro sono caratterizzati da una crescente concorrenza e le tecnologie si sviluppano rapidamente. Inoltre, l’andamento demografico comporta un invecchiamento della forza lavoro in Europa. Di conseguenza, è importante sapersi adattare a questi cambiamenti e lavorare insieme per ottenere i migliori risultati possibili. In tale ottica, nel 2015 l’EU-OSHA ha pubblicato articoli di esperti su tre rischi nuovi ed emergenti e sul loro impatto in termini di sicurezza e salute sul lavoro (SSL): il crowdsourcing, i farmaci che aumentano le prestazioni e larobotica.”

 

Quest’anno ha rappresentato un momento importante per uno dei progetti di punta dell’EU-OSHA, l’indagine europea fra le imprese sui rischi nuovi ed emergenti (ESENER). I risultatidell’ESENER-2 mostrano che i rischi più diffusi negli ambienti di lavoro europei sono quelli psicosociali (ad esempio, nel 58 % degli ambienti di lavoro nell’UE si riferisce che un fattore di rischio è rappresentato da clienti difficili) e quelli relativi ai disturbi muscoloscheletrici (ad esempio, nel 56 % si segnalano posizioni di lavoro faticose o dolorose). La seconda edizione dell’indagine evidenzia altresì l’importanza della valutazione dei rischi nell’affrontare i rischi stessi. Ora questi risultati possono essere consultati facilmente utilizzando il nuovo dashboard interattivo disponibile online.

 

In settembre i principali risultati dell’importante progetto pilota dell’EU-OSHA sui lavoratori più anziani, ” Lavoro più sicuro e più salutare a qualsiasi età“, sono stati presentati a responsabili delle politiche, professionisti in materia di SSL e rappresentanti delle parti sociali a Bruxelles. Nell’ambito di questa conferenza i dibattiti si sono concentrati sull’invecchiamento, sulla SSL e le questioni di genere nonché sui sistemi di riabilitazione e di rientro al lavoro.

 

I risultati della valutazione del progetto dell’EU-OSHA relativo alla valutazione interattiva dei rischi online (OiRA)  hanno dimostrato che le parti interessate sono molto soddisfatte dell’andamento del progetto. Alla fine del 2015 il numero totale degli strumenti OiRA era pari a 86 e altri 30 erano in fase di sviluppo. Inoltre, è stata introdotta anche una nuova interfaccia, OiRA 2.0, volta a migliorare l’esperienza degli utenti. Per chiudere l’anno al meglio, in novembre il progetto OiRA si è aggiudicato un certificato per le migliori prassi nell’ambito del programma relativo al Premio europeo del settore pubblico.

 

In novembre si è tenuto a Bilbao il vertice “Ambienti di lavoro sani e sicuri”, che ha segnato la fine della campagna “Insieme per prevenire e gestire lo stress lavoro-correlato”  ed è stato dedicato alla memoria del dottor Eusebio Rial González (1966-2014). Tra gli altri vi hanno partecipato oltre 300 professionisti di SSL, consiglieri politici e responsabili delle decisioni.

 

Gli indicatori chiave di prestazione dell’EU-OSHA forniscono una panoramica delle prestazioni dell’organizzazione nel 2015 in relazione ai suoi obiettivi. In base agli indicatori il 92% delle parti interessate sostiene di avere utilizzato informazioni prodotte dall’EU-OSHA: il 48% le ha usate per lo scambio di informazioni, il 39% per misure di attuazione e definizione di politiche a livello aziendale, il 38% per un’ulteriore diffusione e il 37% per ulteriori ricerche. I risultati della valutazione della campagna Ambienti di lavoro sani e sicuri 2012-13 “Lavoriamo insieme per la prevenzione dei rischi” e anche l’analisi dell’indagine OiRA attestano le buone prestazioni dell’Agenzia.

 

Infine, il 2015 ha anche visto l’inaugurazione del nuovo sito web dell’EU-OSHA e del nuovo sito web di Napo . Grazie a un nuovo aspetto e approccio, i due siti sono più facilmente navigabili e possono essere utilizzati su dispositivi mobili.

 

Consulta la sintesi della relazione annuale 2015 per un quadro sinottico (disponibile in tutte le lingue)

 

Leggi la relazione annuale 2015 per un resoconto completo delle attività dell’EU-OSHA nel 2015 (disponibile solo in inglese)

 

Vedi l’infografica sugli indicatori chiave di prestazione dell’EU-OSHA per il 2015

 

Fonte: Eu-Osha

 

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Imparare dagli errori: quando non si proteggono adeguatamente gli occhi

Esempi di infortuni correlati uso errato o mancato uso di DPI per la protezione degli occhi. La manutenzione di linee elettriche e le conseguenze delle schegge. La dinamica degli infortuni, i fattori causali e la prevenzione.

Brescia, 16 Giu – In “ Imparare dagli errori”, la rubrica di PuntoSicuro dedicata al racconto e all’analisi degli infortuni lavorativi, si siamo soffermati in questi anni più volte sulle problematiche relative aidispositivi di protezione individuale (DPI), dispositivi che nei luoghi di lavoro a volte possono essere inadatti, assenti, non utilizzati, usati male, in cattive condizioni, …

Dispositivi che – come si può visualizzare nelle schede di INFOR.MO., strumento per l’analisi qualitativa dei casi di infortunio collegato al  sistema di sorveglianza degli infortuni mortali e gravi – non sono quasi mai il principale fattore causale dell’incidente, ma la cui assenza rende l’infortunio possibile o più grave.

 

Operando una ricerca su INFOR.MO. in relazione ai casi gravi di infortunio correlati ai “dispositivi di protezione individuale e abbigliamento”, compaiono tre diverse categorie:

– uso errato o mancato uso (ma disponibile) di DPI;

– inadeguatezza strutturale o deterioramento di DPI;

– DPI non fornito.

 

La nostra rubrica si soffermerà nelle prossime puntate proprio sulla prima categoria individuata. Quanti sono i casi di infortunio grave in cui è rilevabile un errato uso o un mancato uso di DPI disponibili in azienda? Sicuramente ancora troppi…

 

Per aumentare la consapevolezza dell’importanza dell’uso adeguato dei DPI, riporteremo alcuni casi di infortunio e alcune informazioni sui DPI, sul loro uso, sulla scelta e la manutenzione… In queste prime puntate ci occuperemo dei dispositivi per la protezione del viso e degli occhi.

 

 

Il caso

Il primo caso riguarda un infortunio in attività di manutenzione di linee elettriche.

Un manutentore si trova, assieme a due colleghi, in una zona di campagna per effettuare un intervento di manutenzione su un palo di una linea elettrica.

Dopo aver messo in sicurezza il tratto di linea interessato dai lavori (installando su di un palo il dispositivo di messa in corto circuito e a terra), effettua i lavori, e al termine di questi, risale sulla scala a pioli in alluminio appoggiata al palo, per scollegare e recuperare il dispositivo di cui sopra, ma nello scendere a terra, viene colpito da un ramoscello dell’albero che si trova a fianco del palo, riportando un trauma penetrante del bulbo con incarceramento dell’iride nella ferita corneale.

L’infortunato ha riferito successivamente che “probabilmente il ramoscello, dapprima incastrato tra altri rami, per un suo movimento durante la discesa, si liberava, tornando repentinamente nella sua posizione naturale. L’azienda ha fornito ai propri lavoratori, quali DPI, anche degli schermi facciali, ma nelle procedure aziendali non è previsto che questi vengano utilizzati nelle suddette operazioni”. Ma nella valutazione dei rischi, nella scelta dei DPI e nelle procedure aziendali si era tenuto conto di tutti i rischi per i lavoratori?

Questi i fattori causali identificati nella scheda:

– nello scendere dalla scala urta alcuni rami dell’albero presente a fianco del palo;

– schermo facciale non utilizzato.

 

Il secondo caso riguarda un infortunio con ferita all’occhio sinistro di un lavoratore.

Un lavoratore sta rifinendo una scatola di ferro quando, nel tentativo di rimuovere un eccesso di saldatura con martello e scalpello nuovo, una scheggia di questo eccesso di saldatura colpisce il suo occhio sinistro.

È stato accertato successivamente che il lavoratore utilizzava gli occhiali di protezione in modo non adeguato.

 

Questi i fattori causali dell’incidente rilevati dalla scheda:

– lo scalpello, nuovo, si scheggiava;

– il lavoratore utilizzava gli occhiali di protezione in modo non adeguato.

 

La prevenzione

Sono tanti i documenti pubblicati in questi anni che hanno affrontato il tema dei dispositivi di protezione individuale e dell’importanza di utilizzarli adeguatamente per prevenire infortuni più o meno gravi.

 

Riprendiamo oggi una scheda informativa pubblicata dal Servizio Prevenzione Igiene e Sicurezza in Ambienti di Lavoro (SPISAL) dell’ Azienda ULSS 9 di Treviso dedicata alla protezione degli occhi e intitolata “ Occhiali per la protezione degli occhi contro la proiezione di schegge”.

 

La scheda ricorda, ad esempio, che in Veneto tra il 2009 e il 2011 sono stati denunciati all’INAIL ben 8.906 infortuni agli occhi, cioè in media circa 3.000 infortuni all’anno. E sicuramente moltiinfortuni agli occhi non vengono denunciati perché generalmente non comportano lunghe assenze dal lavoro.

 

Nella scheda si sottolinea che nonostante l’apparente lievità anche lesioni minime agli occhi “possono provocare gravi conseguenze per la vista se insorgono complicanze infettive o si formano cicatrici nella cornea in corrispondenza della pupilla”. Conseguenze che possono determinare “lesioni permanenti indennizzabili (superiori al 5%)”, seri danni alla vista, “fino alla perdita del bulbo oculare”.

Ed è dunque evidente che nei luoghi di lavoro è perciò necessario “adottare sempre tutti gli accorgimenti necessari per proteggere gli occhi”.

 

La scheda ricorda che “il maggior numero di infortuni denunciati agli occhi negli ultimi tre anni si registra in metalmeccanica (2.334) e in edilizia (1.666)”. E un caso particolare è quello degli agenti chimici: con questi agenti gli infortuni “non sono molto numerosi ma sono spesso gravi” quando sono coinvolte sostante corrosive.

 

E cosa fare per la prevenzione?

Si segnala che se la prevenzione si basa innanzitutto sull’adozione di misure protettive di tipo collettivo, “per questa tipologia di rischio spesso è inevitabile ricorrere anche all’uso deidispositivi individuali di protezione”, come occhiali e schermi.

 

Concludiamo questa breve sottolineatura dell’importanza della protezione degli occhi (su cui ritorneremo in un prossimo imparare dagli errori), riportando le indicazioni della scheda su cosa deve fare, per questa tipologia di prevenzione, il datore di lavoro, il preposto e i lavoratori.

 

Il datore di lavoro (o il dirigente) deve:

– “valutare i rischi e individuare le misure di protezione più idonee;

– assicurarsi che le attrezzature siano dotate degli schermi di protezione contro la proiezioni di materiali, se previsti (protezione collettiva);

– se necessario usare anche i DPI, esporre la segnaletica che indica l’obbligo di utilizzare gliocchiali protettivi in prossimità del posto di lavoro in cui è presente il rischio;

– fornire i DPI idonei ai lavoratori;

– informare, formare ed addestrare i lavoratori all’uso dei DPI;

– formare i preposti;

– vigilare sulla sicurezza delle attrezzature e sull’uso dei DPI da parte dei lavoratori”.

 

Cosa deve fare invece il preposto:

– “vigilare sull’uso dei DPI da parte dei lavoratori;

– segnalare al datore di lavoro (o al dirigente) le deficienze dei DPI e ogni condizione di pericolo di cui venga a conoscenza”.

 

E i lavoratori devono:

– “osservare le disposizioni aziendali ai fini della protezione collettiva e individuale;

– utilizzare correttamente i DPI;

– segnalare al datore di lavoro, al dirigente o al preposto le deficienze dei DPI e ogni condizione di pericolo di cui vengano a conoscenza;

– non rimuovere o modificare senza autorizzazione i dispositivi di sicurezza o segnalazione o controllo;

– partecipare ai programmi di formazione e addestramento”.

 

Infine  i lavoratori autonomi devono:

– “utilizzare correttamente DPI idonei rispetto al rischio”.

 

 

 

Sito web di INFOR.MO.: nell’articolo abbiamo presentato le schede numero 475 e 3703 (archivio incidenti 2002/2010).

 

Tiziano Menduto

Fonte: puntosicuro.it

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

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Formazione alla sicurezza: considerazioni di merito e di metodo

Cosa si intende per formazione sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza? Di Renata Borgato.
In questo articolo ci riferiamo alla formazione erogata per assolvere l’obbligo definito dal d.lgvo 81/08 e dall’Accordo Stato Regioni del dicembre 2011.

 

L’articolo 2, comma 1, lettera aa) del “testo unico” definisce  la “formazione” come “processo educativo attraverso il quale trasferire ai lavoratori ed agli altri soggetti del sistema di prevenzione e protezione aziendale conoscenze e procedure utili alla acquisizione di competenze per lo svolgimento in sicurezza dei rispettivi compiti in azienda e alla identificazione, alla riduzione e alla gestione dei rischi”. Allude quindi a non una singola attività, volta a realizzare un adempimento di tipo formale (magari prevalentemente diretto a evitare sanzioni), quanto a un vero e proprio insieme di iniziative finalizzate a permettere a ciascuno di accrescere le proprie conoscenze in materia di prevenzione dei rischi sul lavoro, di migliorare le proprie capacità operative e soprattutto di aumentare la consapevolezza dell’importanza della prevenzione e della protezione in ogni ambiente di lavoro. La condivisione di questo principio cardine tra tutte le figure (lavoratori, preposti,  dirigenti, medico competente, rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza) costituisce la prima e più efficace misura di prevenzione in quanto allinea gli insegnamenti erogati durante le attività formative “ufficiali” con la cultura diffusa nel luogo di lavoro e con l’organizzazione d’impresa. Se l’impegno aziendale è concentrato in altre direzioni, per esempio sulla produttività, e a questa priorità viene sacrificata la prevenzione, quello che i dipendenti percepiranno, al di là delle dichiarazioni di facciata, è che la sicurezza si può trascurare: quando c’è uno scollamento tra quanto viene detto e quanto viene agito, quello che passa realmente è ciò che viene fatto.

 

 

Lo scollamento tra quanto viene ufficialmente detto nelle aule e nelle convention e quanto poi realmente avviene durante il lavoro ha necessariamente delle ripercussioni sui comportamenti dei sottoposti e le contraddizioni si scaricano ai livelli inferiori, spesso proprio sui preposti, chiamati da un lato a vigilare sul rispetto delle norme di sicurezza e dall’altro a farle disattendere per privilegiare le esigenze produttive. O, in alcuni casi, a violarle essi stessi.

 

Per migliorare la sicurezza nei luoghi di lavoro, occorre dunque ridurre queste discrasie in quanto i risultati della formazione “formale” non possono che essere influenzati  dalla formazione  “informale” che percorre ogni attività presente nel posto di lavoro. Paradossalmente è questa formazione continua e pervasiva che orienta maggiormente gli atteggiamenti e di conseguenza i comportamenti delle persone. Nulla incide quanto la coerenza dei messaggi e l’esempio concreto, ripetuto e generalizzato.

Dunque, se si vuole far crescere la cultura della sicurezza, ciascuno, coerentemente con il  ruolo che ricopre, deve mandare un  segnale non contraddittorio che contribuisca al rafforzamento di essa.

Le norme  indicano anche le caratteristiche che la formazione dovrebbe avere: sia nell’art. 37 del d. 81 che nell’accordo stato Regioni ricorrono gli aggettivi  “sufficiente ed adeguata in materia di salute e sicurezza”.

Si tratta però di definizioni vaghe. Sufficienti rispetto a cosa? Adeguate a che?

 

Questa ambiguità consegna la risposta all’interpretazione di chi progetta i percorsi formativi che, di conseguenza, risultano assai disomogenei tra loro. La formulazione stessa dei programmi che compare nell’Accordo Stato Regioni autorizza a privilegiare la sfera delle conoscenze a scapito della costruzione di atteggiamenti. Peraltro concentrarsi sulla trasmissione di contenuti risulta molto più facile che cercare di incidere sulla cultura delle persone. Nel primo caso basta padroneggiare gli argomenti o anche, semplicemente, preparare delle slides da snocciolare in aula. Nel secondo occorre confrontarsi con i discenti e con le loro cornici interpretative.

 

Il savoir faire che si richiede ai formatori in questo caso è assai più complesso e articolato e comprende la capacità di ascoltare, di confrontarsi, di valorizzare le esperienze e le diversità, di comporre conflitti, di gestire le proprie e altrui emozioni. I contenuti cessano a questo punto di costituire il baricentro per l’azione formativa, ma divengono il pretesto per acquisire quel “deuteroapprendimento” cui faceva cenno Bateson. E quando si è imparato ad apprendere, questa competenza  può essere trasferita da un contesto all’altro.

 

Di conseguenza la formazione dovrebbe  essere giudicata sufficiente solo nel caso in cui abbia prodotto effetti abilitanti, cioè quando chi è stato coinvolto sia in grado di elaborare pensieri autonomi in materia di sicurezza,  di assumere comportamenti sicuri anche in situazioni non previste e di scegliere tra più opzioni comportamentali quelle adeguate a prevenire il rischio. Si dovrebbe definire “adeguata” una formazione che contribuisca a ridurre quell’80% di eventi indesiderati che continuano a verificarsi. Eventi, lo abbiamo già detto, dovuti all’errore umano.

 

Un’apertura in questo senso si può scorgere nell’art. 3 dell’Accordo Stato Regioni ove si dice “la metodologia di insegnamento/apprendimento privilegia un approccio interattivo che comporta la centralità del lavoratore nel percorso di apprendimento” e specifica che è opportuno” garantire un equilibrio fra lezioni frontali, esercitazioni teoriche e pratiche e relative discussioni nonché lavori di gruppo… favorire metodologie di apprendimento interattive ovvero basate sul problem solving, applicate a simulazioni e situazioni di contesto su problematiche specifiche … prevedere dimostrazioni, simulazioni in contesto lavorativo e prove pratiche…”

Le indicazioni non sono precisissime e scontano probabilmente il fatto che nella stesura del testo dell’Accordo gli esperti di andragogia e i metodologi abbiano avuto poca o nessuna voce in capitolo. Leggendo il testo, si sente che a proposito di metodologie si è solo orecchiato, senza andare a fondo. Sarebbe infatti bastato un più preciso riferimento per esempio alla notissima teoria dell’Experiential Learning di David Kolb [1]per dare riferimenti operativi più chiari e per evitare  quell’enfatizzazione dei contenuti che inficia l’efficacia di molti interventi formativi in materia di sicurezza.

 

Il decreto 81 sembra comunque alludere in qualche modo a una centratura sul ricevente, cioè a un’attenzione a rendere fruibile per i discenti quanto il docente dice, ove prescrive che il contenuto della formazione sia facilmente comprensibile per i lavoratori e che consenta loro di acquisire le conoscenze e competenze necessarie in materia di salute e sicurezza sul lavoro.  Lo stesso comma prosegue disponendo la “verifica della comprensione e conoscenza della lingua veicolare utilizzata nel percorso formativo” “ove la formazione riguardi lavoratori immigrati”.

Le non confortanti rilevazioni della conoscenza della lingua italiana da parte di cittadini di madre lingua [2]suggeriscono se non di proporre una prova analoga per i lavoratori italiani almeno una  verifica iniziale della loro padronanza della lingua e una costante rilevazione della comprensione, soprattutto quando si faccia uso del linguaggio di precisione [3] o di sigle, acronimi ecc. Né i risultati dell’indagine Pisa [4] fanno sperare che ci si possa aspettare competenze maggiori da parte dei più giovani.

 

Renata Borgato

Docente, formatrice e consulente aziendale

 

[1] L’apprendimento esperienziale è un processo dove la costruzione della conoscenza avviene passando attraverso l’osservazione e la trasformazione dell’esperienza. Il ciclo è composto da  quattro differenti stadi, l’esperienza concreta, l’osservazione riflessiva, la contestualizzazione astratta e la sperimentazione attiva. Questi quattro stadi sostengono un processo di apprendimento efficace e completo. È possibile iniziare l’apprendimento da qualsiasi punto del ciclo, e ciascuno stadio ha bisogno di abilità diverse per essere svolto nel migliore dei modi.

 

[2] Vedere in proposito, per esempio, le osservazioni del linguista Tullio De Mauro che, partendo da alcuni dati raccolti da due ricerche straniere dice che il 71% della popolazione si trova sotto il livello minimo di lettura e comprensione di un testo scritto in italiano di media difficoltà. Quindi secondo gli studi solo il 29% possiede gli strumenti linguistici per usare con padronanza la lingua nazionale. Il 5% non è in grado neppure di decifrare lettere e cifre, un altro 33% sa leggere, ma decifrare solo testi di primo livello su una scala di 5 ed è a forte rischio di regressione nell’analfabetismo, un ulteriore 33% si ferma a testi di 2° livello. Non più del 20% possiede le competenze minime per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita quotidiana (fonte La Repubblica, 28/11/2011).

[3] Con linguaggio di precisione qui si indica il linguaggio specifico di qualunque disciplina, adatto a esprimere in modo puntuale ed economico un concetto, utile per gli addetti ai lavori, ma non sempre immediatamente comprensibile per gli altri.

[4] Secondo le rilevazioni Pisa (indagine internazionale promossa dall’OCSE per valutare il livello di istruzione degli adolescenti dei 65 principali paesi industrializzati) l’Italia è sotto la media OCSE:  1/5 degli studenti quindicenni italiani ha problemi con la lingua: Alla fine delle scuole superiori gli studenti dovrebbero capire l’articolo di fondo di un giornale, ma tra il 33 e il 40% degli studenti non capisce neppure i test Pisa, che pure sono più facili di esso. In particolare non capiscono le parole e i predicati verbali astratti (es. esimere, desumere)

Fonte: puntosicuro.it

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Articoli

Attrezzature in edilizia: come usare in sicurezza la carotatrice

Una scheda e una lista di controllo si soffermano sulla sicurezza nell’uso delle carotatrici su piedistallo. I fattori di rischio, le misure per prevenirli e le istruzioni per l’impiego corretto dell’attrezzatura di lavoro.
Torino, 17 Feb – Per eseguire perforazioni su pareti, pavimenti e solai realizzati con calcestruzzo, pietra naturale o altri materiali da costruzione di origine minerale spesso viene utilizzata una macchina chiamata carotatrice. (altro…)

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Il rischio biologico dei lavoratori all’estero: il Virus Zika

Il rischio biologico dei lavoratori trasfertisti: l’esempio del Virus Zika

I lavoratori che effettuano trasferte lavorative in paesi con scadenti condizioni igieniche devono essere gestiti secondo una procedura standard.

 

In sostanza occorre

Step generale

1) identificare i lavoratori che, abitualmente, effettuano questi viaggi ed individuare un rischio biologico per i principali batteri/virus

2) inserire il fattore di rischio nel D.V.R., elaborando delle procedure

3) Fornire al medico competente la lista di questi lavoratori (altro…)

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Seminario gratuito sulle verifiche periodiche delle attrezzature di sollevamento

Seminario “Verifiche periodiche delle attrezzature di sollevamento cose e persone: regime di controllo e criticità”
Venerdì 19 febbraio 2016 – ore 14.00 presso il CENTRO CONGRESSI GIOVANNI XXIII – Sala Oggioni, viale Papa Giovanni XXIII n.106, Bergamo

 

L’iniziativa, promossa da Tavolo Provinciale di Coordinamento Sicurezza in Edilizia punta a divulgare i contenuti normativi e le modalità di applicazione delle procedure relative alle verifiche periodiche delle attrezzature di sollevamento cose e persone, proponendo anche delle soluzioni interpretative, sulla scorta dell’esperienza dei componenti del Tavolo di coordinamento e sulle prassi attualmente consolidate e condivise a livello provinciale.
Il Tavolo Provinciale di Coordinamento Sicurezza in Edilizia è stato costituito a seguito del protocollo d’intesa sottoscritto il 16 settembre 2014 tra INAIL Sede territoriale di Bergamo, ASL di Bergamo (ora ATS), Direzione Territoriale del Lavoro, Università degli Studi di Bergamo, CPTA, Scuola Edile di Bergamo, Ordine Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori della Provincia di Bergamo, Ordine Ingegneri della Provincia di Bergamo, Collegio dei Geometri e dei Geometri Laureati della Provincia di Bergamo, Collegio dei Periti Industriali e Periti Industriali Laureati della Provincia di Bergamo, finalizzato ad avviare un rapporto di collaborazione per promuovere e coordinare un programma pluriennale di azioni comuni in tema di prevenzione e miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza nel settore dell’edilizia. In tale ambito viene organizzato a Bergamo un seminario gratuito (previa iscrizione) sulle verifiche periodiche delle attrezzature di sollevamento cose e persone (gru, carrelli semoventi a braccio telescopico, piattaforme di lavoro elevabili, escavatori utilizzati per il sollevamento di carichi etc.) per Venerdì 19 febbraio 2016 – ore 14.00 presso il CENTRO CONGRESSI GIOVANNI XXIII – Sala Oggioni, viale Papa Giovanni XXIII n.106, Bergamo (in allegato locandina dell’evento).
L’incontro si rivolge a proprietari, noleggiatori/venditori, concessori in uso, soggetti abilitati alle verifiche periodiche, manutentori ed esecutori dei controlli, consulenti, coordinatori della sicurezza, utilizzatori del settore dell’edilizia.
Per Architetti, Ingegneri, Geometri e Periti è previsto il riconoscimento di crediti formativi professionali dai rispettivi Ordini e Collegi professionali.
Fonte: puntosicuro.it
Articoli

Formazione: preparazione e valutazione del percorso educativo

Un intervento si sofferma sulla formazione con particolare riferimento alle novità e agli orientamenti interpretativi. La normativa, la giurisprudenza, le definizioni, il percorso formativo, la pianificazione e la valutazione del processo.

Empoli, 17 Feb – In questi mesi il nostro giornale si è più volte soffermato sul tema della formazione alla sicurezza. (altro…)

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Macchine e attrezzature di lavoro: i controlli del datore di lavoro sugli apparecchi di sollevamento materiali

Evento organizzato da INAIL-Dipartimento Tecnologie di Sicurezza

Presso Sala Mascagni – Quartiere fieristico – Bologna – 17 Ottobre 2013

L’articolo 71 comma 8 del D.Lgs. 81/08 e s.m.i. stabilisce che il datore di lavoro provveda ad assicurare i controlli necessari al mantenimento nel tempo del buono stato di conservazione e dell’efficienza delle attrezzature di lavoro attenendosi alle indicazioni fornite dai fabbricanti o, in assenza di queste, alle pertinenti norme tecniche. Considerati tali obblighi per il datore di lavoro e la difficolta’, (altro…)