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I rischi nell’uso degli apparecchi per il sollevamento dei carichi

Roma, 4 Dic – Gli apparecchi per il sollevamento dei carichi sono generalmente “considerati una categoria di macchine e/o attrezzature particolarmente pericolose perché, in caso di carenze costruttive, manutentive o di utilizzo, i rischi per la sicurezza delle persone che stazionano nelle aree di lavoro interessate dalla loro presenza sono molto elevati”. Ed è per questo motivo che la normativa vigente prescrive che queste macchine debbano essere sottoposte periodicamente a verifica “per accertarne lo stato di funzionamento e di conservazione ai fini della sicurezza”.

 

A parlare in questi termini delle attrezzature di sollevamento dei carichi, con riferimento al comparto metalmeccanico, è il documento “ ImpresaSicura_Metalmeccanica” correlato a Impresa Sicura, un progetto multimediale – elaborato da EBEREBAM, Regione Marche, Regione Emilia-Romagna e Inail – che è stato validato dalla Commissione Consultiva Permanente come buona prassi nella seduta del 27 novembre 2013.

 

Riguardo al sollevamento dei carichi il documento si sofferma su alcune specifiche tipologie di gru:

– gru a ponte;

– gru sospese;

– gru a bandiera;

– gru a cavalletto.

E sono presentati i rischi per gli operatori insieme alle possibili misure di prevenzione.

 

Ad esempio il documento affronta il rischio di rovesciamento e/o caduta dell’apparecchio di sollevamento, ricordando le principali cause:

– “scorretta installazione dell’apparecchio:

– errata progettazione e/o realizzazione delle strutture portanti dell’apparecchio;

– insufficiente manutenzione delle strutture e dei dispositivi di sicurezza (fine corsa);

– sollevamento di carichi eccedenti la portata dell’apparecchio;

– interferenza tra più apparecchi di sollevamento che incrociano il raggio di azione”.

 

In particolare si indica che se i rischi di rovesciamento o caduta dovuti ad errori di progettazione o a difetti di costruzione “non sono escludibili”, questi rischi “sono più frequenti quando l’installazione degli apparecchi non è avvenuta nel rispetto della buona tecnica e quando le strutture di sostegno dell’apparecchio non sono adeguatamente dimensionate”.

Non bisogna poi dimenticare che la carenza di manutenzione delle strutture e dei dispositivi di sicurezza “può determinare un ulteriore rischio per l’aumentata probabilità di rotture o di guasti. Possono verificarsi incidenti, con caduta dell’apparecchio di sollevamento, in seguito alla rottura di bulloni di fissaggio o di altre parti meccaniche eccessivamente arrugginite o usurate. Il mancato funzionamento dei dispositivi di blocco a fine corsa, conseguente a una insufficiente manutenzione, comporta anch’esso rischi significativi di caduta degli apparecchi di sollevamento”.

 

Inoltre il sollevamento di carichi eccedenti la portata dell’apparecchio “dovrebbe essere inibito dalla presenza di specifici dispositivi di sicurezza (limitatori di carico e limitatori di momento). Durante il normale svolgimento dell’attività lavorativa, accade di frequente che la valutazione sull’effettivo peso del carico da movimentare e la sua compatibilità con il mezzo di sollevamento venga eseguita per tentativi: si prova a sollevare il carico contando sull’intervento del dispositivo di sicurezza in caso di carico eccessivo. Tale procedura operativa determina un sovraccarico anomalo di tutta la struttura prima che il dispositivo di sicurezza intervenga. Allo stesso tempo, il dispositivo di sicurezza è continuamente sollecitato e, di fatto, viene utilizzato quale organo di comando. In queste condizioni aumenta la probabilità di rotture o guasti di elementi strutturali e degli stessi dispositivi di sicurezza”. E tra i comportamenti gravemente scorretti – continua il documento – si segnala “l’intervento di manomissione dei dispositivi di sicurezza che alcuni addetti agli apparecchi di sollevamento operano al fine di aumentare la portata dell’apparecchio stesso, contando sui margini di sicurezza previsti in sede di progettazione. Tale pratica, determina rischi gravissimi per la stabilità del mezzo di sollevamento”.

 

Un altro tema importante, che abbiamo affrontato in diversi articoli di PuntoSicuro, è relativo alle interferenze tra mezzi diversi.

Il documento sottolinea che quando nello stesso ambiente “sono installati più apparecchi di sollevamento che possono intersecare tra loro il raggio di azione, il rischio di urti tra le varie parti in movimento è decisamente elevato. In caso di urto è possibile ipotizzare anche la caduta o il rovesciamento degli apparecchi”.

 

Un altro rischio affrontato è relativo alla caduta del carico.

Infatti “la caduta del carico e il possibile conseguente investimento degli operatori da parte dell’intero carico o di una parte di esso, rappresenta il rischio prevalente connesso alla presenza negli ambienti di lavoro di apparecchi per il sollevamento”.

Queste le principali cause:

– “errata imbracatura del carico:

– assenza o non idoneità dei sistemi di trattenuta e di imbracatura;

– non idoneità o insufficiente manutenzione dei freni e dei fine corsa;

– eccessiva velocità o manovre brusche durante la traslazione del carico;

– sollevamento di carichi eccedenti la portata dell’apparecchio;

– interferenza tra più apparecchi di sollevamento che incrociano il raggio di azione”.

 

Si sottolinea, in particolare, che “l’assenza di idonei sistemi di trattenuta e di imbracatura così come il mancato utilizzo di adeguati contenitori per i pezzi di piccole dimensioni comporta significativi rischi di caduta”. E il sollevamento e il trasporto di carichi con imbracature non correttamente realizzate “è causa di frequenti cadute di interi carichi o di parti del carico”. Inoltre “anche in questo caso la mancata manutenzione degli impianti e, in particolare, dei freni e dei dispositivi di blocco di fine corsa può aumentare i rischi di rotture o guasti. Si ricorda a tale proposito che anche le funi di imbracatura devono essere sottoposte a controlli, almeno trimestrali, come le funi e le catene dell’impianto”.

Incidenti possono poi dipendere dalla “scorretta esecuzione delle manovre da parte dell’operatore addetto all’ apparecchio di sollevamento quali, ad esempio, l’eccessiva velocità di traslazione e di salita o discesa del carico così come le brusche accelerate e frenate”. Queste sono “causa di eccessive sollecitazioni della struttura o della imbracatura e di possibili oscillazioni del carico stesso. In tutti questi casi aumenta significativamente il rischio di caduta”.

Ed è evidente che il sollevamento di carichi eccedenti la portata dell’apparecchio, “oltre che presentare un elevato rischio di caduta dell’apparecchio stesso comporta il rischio di caduta del carico per rottura dei sistemi di trattenuta. Tutte le problematiche evidenziate in precedenza circa il rischio di caduta dell’apparecchio determinato dal sollevamento di carichi eccessivi si ripropongono parimenti per il rischio di caduta del carico”.

Infine nel caso del rischio di possibili urti, “per la presenza di più apparecchi di sollevamento che possono intersecare tra loro il raggio di azione, il pericolo più immediato è quello della conseguente caduta dei carichi”.

 

Ci soffermiamo anche sul rischio di urti o investimenti del carico, un rischio che può dipendere da:

– “insufficiente visibilità per l’addetto alla manovra;

– eccessiva velocità o manovre brusche durante la traslazione del carico;

– non idoneità dei dispositivi di segnalazione o avviso”.

 

In particolare si indica che le modalità di esecuzione delle manovre da parte dell’operatore addetto all’apparecchio di sollevamento “costituiscono l’aspetto più rilevante nell’individuazione di possibili rischi connessi alla presenza negli ambienti di lavoro di questi apparecchi”. E la causa può essere anche una “non adeguata formazione o un addestramento insufficiente del personale addetto”.

Inoltre “un’altra rilevante condizione di pericolo si determina quando, durante la manovra dell’apparecchio, vi sono ostacoli che impediscono una corretta visuale di tutta l’area interessata dal movimento”. Senza dimenticare che “operare senza seguire le opportune segnalazioni, l’assenza di avvisi adeguati o, anche in questo caso, una insufficiente formazione degli operatori, sono tutte situazioni che determinano significativi rischi di urti o investimenti”.

 

Concludiamo questa breve rassegna dei rischi correlati agli apparecchi di sollevamento, affrontando anche i rischi di cesoiamento, schiacciamento, lesioni varie.

Queste le principali cause:

– “contatti con sistemi di imbracatura del carico;

– contatto con parti meccaniche in movimento dell’apparecchio di sollevamento;

– scorretta manipolazione del carico”.

 

Si segnala che per evitare i rischi di cesoiamento, di schiacciamento, di abrasione o, comunque, di infortuni di natura meccanica, “è innanzitutto indispensabile che tutte le parti meccaniche in movimento degli apparecchi per il sollevamento siano protette o segregate secondo quanto previsto dalle norme vigenti”. Inoltre “l’esecuzione di manovre errate, soprattutto nella fase di imbracatura o di manipolazione del carico, può comportare ulteriori rischi di cesoiamento o di schiacciamento tra il carico e i sistemi di imbracatura o tra parti del carico stesso. Pratiche operative assai diffuse che prevedono la presenza di un operatore che dirige e/o trattiene il carico durante la traslazione sono anch’esse origine di molte situazioni di rischio”.

 

Infine segnaliamo che nel documento di Impresa Sicura, che vi invitiamo a leggere integralmente, sono analizzate anche dettagliate misure di prevenzione per i vari rischi presentati.

 

RTM

 

Il sito “ Impresa Sicura”: l’accesso via internet è gratuito e avviene tramite una registrazione al sito.

 

Commissione Consultiva Permanente per la salute e sicurezza sul lavoro – Buone Prassi -Documento approvato nella seduta del 27 novembre 2013 – Impresa Sicura

 

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

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Sull’obbligo di verificare la sicurezza dei lavori subappaltati

È un richiamo quello che emerge dalla lettura di questa sentenza della Corte di Cassazione all’applicazione dell’articolo 26 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81 e s.m.i. riguardante l’obbligo del datore di lavoro dell’impresa affidataria che lo stesso deve comunque ottemperare anche se non partecipa direttamente all’esecuzione dei lavori. L’impresa affidataria, ha infatti sostenuto la suprema Corte, anche quando subappalta integralmente l’esecuzione delle opere ad altre imprese, deve comunque verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza.

 

L’irregolarità che nel caso particolare di cui alla sentenza è stata contestata all’impresa affidataria è quella di un ponteggio fatto allestire dalla ditta subappaltatrice essendo lo stesso risultato privo di alcuni elementi fondamentali ai fini della sicurezza e di idonei parapetti e fasce fermapiedi a protezione contro la caduta dall’alto nonché dotato di insufficienti ancoraggi contro il rischio di ribaltamento della struttura.

 

Sulla posizione di difesa del ricorrente, basata sul fatto che lo stesso aveva subappaltato i lavori a una ditta con un contratto che prevedeva anche l’allestimento del ponteggio, la suprema Corte non si è detta d’accordo in quanto, oltre a non essere emerso dall’ispezione che nel contratto fosse stato previsto l’allestimento del ponteggio, lo stesso, secondo gli accertamenti ispettivi, veniva comunque utilizzato dal personale dell’appaltatore. Di qui la responsabilità individuata a carico del datore di lavoro dell’impresa affidataria.

 

Il caso, la condanna e il ricorso in cassazione

Il legale rappresentante di una società ha ricorso in cassazione per l’annullamento della sentenza del Tribunale che lo aveva condannato alla pena di 400,00 euro di ammenda per il reato di cui all’art. 125, comma 6, del D. Lgs. n. 81 del 2008, per avere omesso di ancorare il ponteggio durante i lavori di manutenzione di una scuola elementare. Lo stesso era stato tratto a giudizio per rispondere dei seguenti reati: (capo 3) art. 111, comma 1, lett. a), del D. Lgs. n. 81 del 2008 (omesso allestimento lungo l’intero perimetro della scuola elementare di idonei apprestamenti contro la caduta di persone e cose verso il vuoto); (capo 4) art. 125, comma 6, del D. Lgs. n. 81 2008; (capo 5) art. 133, del D. Lgs. n. 81 del 2008 (omessa predisposizione del progetto del ponteggio misto e fornitura di progetto allegato al PiMUS difforme dall’ opera provvisionale prevista in cantiere); (capo 6) art. 122 del D. Lgs. n. 81 del 2008 (mancato allestimento di ponteggio idoneo a eliminare i rischi di caduta di persone e cose dall’alto); (capo 7) art. 24 del D. Lgs. n. 81 del 2008 (allestimento di ponteggio non conforme e non effettuato a regola d’arte).

 

Come prima motivazione il ricorrente ha sostenuto che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto che l’allestimento del ponteggio non rientrasse tra le opere affidate all’impresa subappaltatrice e che l’affermazione secondo la quale il contratto lasciava intravedere un subappalto di quota di opere e non dell’opera nella sua interezza era logicamente incompatibile e inconciliabile con le risultanze probatorie emerse durante il procedimento. Lo stesso ha sostenuto altresì che dall’istruttoria dibattimentale non erano emersi elementi in base ai quali poter affermare che il ponteggio in esame era stato di fatto allestito dalla sua impresa e che la stessa si era limitata invece a montare un altro ponteggio più basso che al momento del sopralluogo dell’ispettore era stato già smontato. Il Tribunale stesso del resto, ha sottolineato, aveva riconosciuto come al momento di tale sopralluogo il ponteggio era in uso da parte dell’impresa subappaltatrice.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte di Cassazione che lo ha pertanto rigettato. La stessa ha fatto notare che, stando a quanto è risultato dal testo della sentenza impugnata, l’ispettore del lavoro nel corso del proprio sopralluogo aveva accertato che alcuni lavoratori, tra i quali un lavoratore dipendente della ditta del ricorrente stazionavano sul tetto della scuola elementare interessata dagli interventi di risparmio energetico intenti alla ripassatura della copertura, privi di cinture di sicurezza, in assenza di punti di ancoraggio e di linee guida. Il ponteggio era risultato in alcuni punti incompleto, privo di parapetti idonei o delle fasce fermapiedi e non era adeguatamente ancorato alla costruzione con rischio di ribaltamento.

 

Le contravvenzioni erano state contestata anche al ricorrente quale legale rappresentante dell’impresa che aveva allestito il ponteggio in quanto era in uso anche ai suoi dipendenti, oltre che ai dipendenti della impresa subappaltatrice e di un lavoratore autonomo. La contravvenzione di cui all’art. 122 del D. Lgs. n. 81 del 2008 di cui al capo 6 era stata estinta dall’impresa affidataria mediante il pagamento dell’oblazione amministrativa. L’imputato era stato invece assolto dal reato di cui agli inidonei apprestamenti contro la caduta di persone e cose verso il vuoto (capo 3) sul rilievo che la norma riguardava esclusivamente la sicurezza dei lavoratori nel momento dell’esecuzione del lavoro e non l’allestimento del ponteggio poi concesso per l’appalto, sicché soggetto attivo del reato poteva essere solo il datore di lavoro delle opere in corso. E’ apparsa dunque abbastanza chiara, secondo la suprema Corte, la logica che aveva ispirata la decisione del giudice secondo il quale il ricorrente doveva rispondere della ipotesi di reato di cui all’art. 122 del D. Lgs. n. 81 del 2008 perché autore dell’allestimento del ponteggio.

 

La Corte suprema ha sottolineato che non era in contestazione il fatto che, all’atto dell’accesso in cantiere dell’ispettore, nei lavori fossero impegnati ben due dipendenti dell’impresa legalmente rappresentata dal ricorrente, uno dei quali addirittura presente proprio sul ponteggio. Tale circostanza, oltre a porsi in conflitto con la tesi difensiva del subappalto integrale delle opere, è risultata idonea a fondare in via diretta e immediata la responsabilità penale del ricorrente per il reato di cui all’art. 125, comma 6, del D. Lgs. n. 81 del 2008. Il datore di lavoro, infatti, ha così proseguito la Sezione feriale, anche quando non allestisce direttamente il ponteggio sul quale operano i suoi dipendenti, è comunque tenuto ad accertare se esso risponde ai requisiti di sicurezza imposti, come nel caso in esame, dall’art. 125 del D. Lgs. n. 81. In questi casi non ha alcuna rilevanza il fatto che i lavori siano stati integralmente subappaltati ad altre imprese; la tutela dell’integrità fisica dei prestatori di lavoro (arti. 2086, cod. civ.) deriva all’imprenditore dal fatto di essere titolare del rapporto di lavoro e ciò gli impone di valutare sempre e comunque quali rischi possano derivare alla salute e alla sicurezza dei lavoratori dipendenti dal luogo e/o dal contesto nel quale sono chiamati a disimpegnare le loro prestazioni.

 

In ogni caso, però, la Corte di Cassazione ha fatto presente che, anche senza considerare la presenza di propri dipendenti sul luogo di esecuzione dell’appalto, è necessario ricordare quanto prevede l’art. 97 del D. Lgs. n. 81 del 2008 secondo il quale il datore di lavoro dell’impresa affidataria deve verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e delle prescrizioni del piano di sicurezza e coordinamento.

 

“L’impresa affidataria dei lavori, dunque” ha così proseguito la Corte di Cassazione, “anche quando ne subappalti l’integrale esecuzione ad altre imprese, deve comunque verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni e del piano di sicurezza e coordinamento” per cui “l’eventualità che l’impresa subappaltatrice abbia direttamente apprestato il ponteggio non esonera l’impresa affidataria dall’obbligo di verifica imposto dall’art. 97, comma 1, d.lgs. n. 81, cit., né da quelli ben più pregnanti previsti dall’art. 26, comma 2, a mente del quale ‘I datori di lavoro, ivi compresi i subappaltatori: a) cooperano all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto; b) coordinano gli interventi di protezione e prevenzione dai rischi cui sono esposti i lavoratori, informandosi reciprocamente anche al fine di eliminare rischi dovuti alle interferenze tra i lavori delle diverse imprese coinvolte nell’esecuzione dell’opera complessiva”

 

La suprema Corte in conclusione non ha pertanto ritenuto corretto il sostenere che le disposizioni di cui all’art. 125, comma 6, del D. Lgs. n. 81 del 2008 si applicano solo all’impresa subappaltatrice, perché della sua violazione risponde anche l’impresa affidataria sulla quale permane l’obbligo di cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro. Obbligo nel caso di specie non assolto nemmeno nella forma equipollente prevista dall’alt. 96, comma 2, del D. Lgs. n. 81 del 2008 per cui ha rigettato il ricorso condannando il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

 

 

Gerardo Porreca

 

 

 

Corte di Cassazione Sezione Feriale Penale – Sentenza n. 41795 del 14 settembre 2017 (u. p. 22 agosto 2017) –  Pres. Savani – Est. Aceto – P.M. Baldi – Ric. A.R..  – L’impresa affidataria dei lavori, anche quando subappalta integralmente l’esecuzione delle opere ad altre imprese, deve comunque verificare le condizioni di sicurezza dei lavori affidati e l’applicazione delle disposizioni del piano di sicurezza.

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

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Comunicazione di infortunio

La comunicazione di infortunio è l’adempimento con cui tutti i datori di lavoro, compresi i datori di lavoro privati di lavoratori assicurati presso altri enti o con polizze private e i loro intermediari, hanno l’obbligo di comunicare in via telematica all’Inail e per il suo tramite al sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (Sinp), a fini statistici e informativi, i dati e le informazioni relativi agli infortuni sul lavoro dei lavoratori dipendenti o assimilati che comportano l’assenza dal lavoro di almeno un giorno escluso quello dell’evento (combinato disposto art. 3, art. 18, co. 1, lett. r) e art. 21 d.lgs. 81/2008 e s.m.).

Pertanto, a decorrere dal 12 ottobre 2017 (art. 3, co. 3-bis d.l. 244/2016  convertito con modificazioni dalla l. 19/2017) tutti i datori di lavoro, compresi i datori di lavoro privati di lavoratori assicurati presso altri Enti o con polizze private, nonché i soggetti abilitati ad intermediazione hanno l’obbligo di comunicare all’Inail entro 48 ore dalla ricezione dei riferimenti del certificato medico (obbligo che deriva dall’art. 21 del d.lgs. 151/2015), i dati relativi agli infortuni che comportano un’assenza dal lavoro di almeno un giorno, escluso quello dell’evento.

Nel caso in cui l’infortunio sul lavoro preveda un’assenza dal lavoro superiore ai tre giorni permane l’obbligo della denuncia di infortunio ai sensi dell’art. 53 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, e successive modificazioni apportate, da ultimo con il decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 151.

L’obbligo della comunicazione di infortunio sul lavoro che comporti un’assenza dal lavoro superiore a tre giorni, si considera comunque assolto per mezzo della denuncia di infortunio di cui al richiamato art. 53 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124 (art.18, co. 1, lett. r)).

Sanzioni
Il mancato rispetto dei termini previsti per l’invio della comunicazione d’infortunio di un solo giorno a fini statistici e informativi (art. 18, co.1, lett. r), d.lgs.81/2008 e s.m.), determina l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 548,00 a 1.972,80 euro (art. 55, co. 5, lett. h), d.lgs. 81/2008 e s.m.).

Nel caso di infortuni superiori ai tre giorni, il mancato rispetto dei termini previsti per l’invio della comunicazione di infortunio (art. 18, co. 1, lett. r), d.lgs. 81/2008 e s.m.) comporta l’applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria da 1.096,00 a 4.932,00 euro (art. 55, co. 5, lett. g), d.lgs. 81/2008 e s.m.).

La normativa in esame (art. 55, co. 6, d.lgs. 81/2008 e s.m.) prevede inoltre – nel caso di infortuni superiori a tre giorni – l’esclusione dell’applicazione delle sanzioni di cui al citato comma 5 lett. g) del d.lgs. 81/2008 e s,.m., conseguenti alla violazione dell’articolo 53 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124.

Nell’ipotesi di mancato rispetto dei termini previsti per l’invio della comunicazione d’infortunio di un solo giorno a fini statistici e informativi, di cui all’art. 18 comma 1, lettera r), o di omesso invio della stessa, competenti all’accertamento e alla irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria sopra richiamata sono gli Organi di vigilanza di cui all’art. 13 del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, con particolare riferimento alle Aziende sanitarie locali competenti per territorio.

Istruzioni per i lavoratori
Il lavoratore, in caso di infortunio, deve fornire al datore di lavoro i riferimenti del certificato medico, ovvero il numero identificativo, la data di rilascio e i giorni di prognosi indicati nel certificato stesso.
In tal modo potrà assolvere all’obbligo di dare immediata notizia al datore di lavoro di qualsiasi infortunio, anche di lieve entità.
Nel caso in cui il lavoratore non disponga del numero identificativo del certificato, dovrà fornire al datore di lavoro il certificato medico in forma cartacea.

Moduli e modelli specifici di sezione

La denuncia/comunicazione di infortunio è l’adempimento al quale è tenuto il datore di lavoro nei confronti dell’Inail in caso di infortuni sul lavoro dei lavoratori dipendenti o assimilati soggetti all’obbligo assicurativo, che siano prognosticati non guaribili entro tre giorni escluso quello dell’evento, indipendentemente da ogni valutazione circa la ricorrenza degli estremi di legge per l’indennizzabilità.

Comunicazione di infortunio a fini statistici e informativi ai sensi dell’art. 18 commi 1, lettera r), e 1-bis del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 e successive modificazioni e decreti applicativi. Prime istruzioni operative.

 

Fonte: inail.it

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La vigilanza nei luoghi di lavoro

I Servizi di prevenzione Igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro hanno il compito di assicurare informazione, formazione, assistenza, vigilanza e controllo in tutti i luoghi di lavoro che insistono nel territorio dell’Azienda Sanitaria di Firenze.

 

L’attività di vigilanza e controllo, effettuata per lo più da operatori che hanno la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria, ha una finalità preventiva, disponendo al contravventore la rimozione delle situazioni di rischio riscontrate, ed una repressiva finalizzata ad assicurare l’erogazione delle sanzioni ai contravventori.

 

La delicatezza delle attività di vigilanza e controllo impone che le stesse vengano condotte con criteri definiti e chiari, sia per quanto attiene la individuazione dei luoghi di lavoro nei quali effettuare l’intervento che per quanto riguarda le modalità con cui il controllo stesso viene effettuato.
A tal fine riportiamo di seguito i criteri seguiti sia per individuare le priorità d’intervento che per effettuare gli interventi stessi.

 

Priorità di intervento nel settore PISLL

  1. Settori individuati come prioritari dal piano sanitario regionale (edilizia, grandi opere infrastrutturali, settore estrattivo, agricoltura e selvicoltura, meccanica, strutture sanitarie)
  2. Piani mirati di intervento per il 2011: settore del legno, settore della grande distribuzione, microimpresa, ricerca attiva delle malattie professionali
  3. Segnalazioni, provenienti da Organizzazioni Sindacali e Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza ( RLS), segnatamente se dettagliate nella individuazione dei problemi e se riferite a rischi di consistente gravità
  4. Interventi richiesti nell’ambito del servizio di pronta disponibilità (per lo più infortuni o segnalazioni di situazioni ad alto rischio)
  5. Interventi conseguenti ad eventi (reati) perseguibili d’ufficio (infortuni o malattie professionali che hanno determinato lesioni gravi)
  6. Richieste della magistratura (indagini delegate)
  7. Interventi per verifiche legate a nuovi insediamenti produttivi o autorizzazione di strutture sanitarie
  8. Interventi di controllo per la rimozione di amianto.

 

All’interno dell’edilizia la scelta dei cantieri avviene con i seguenti criteri:

  • Notifiche presentate (tutte le opere di più rilevanti dimensioni e una parte delle altre individuate tramite sorteggio)
  • Segnalazioni
  • A vista per rischio elevato evidenziato da un sommario esame del cantiere dall’esterno
  • Campagne su singole zone (es. tutti i cantieri di una via individuata con criterio di rotazione)
  • Necessità di effettuare una inchiesta per infortunio o per malattia professionale
  • Nelle grandi opere si realizza una vigilanza ripetuta in tutti i cantieri.

Nell’ambito dei piani mirati le imprese da controllare, se non sono la totalità, vengono scelte tramite sorteggio previa stratificazione in gruppi omogenei di aziende.

 

Modalità di effettuazione del controllo

  1. Se l’intervento è mirato, il controllo si limita all’esame del o dei fattori di rischio che si intendono esaminare
  2. Negli altri casi la vigilanza è estesa al complessivo controllo del rispetto di quanto previsto dal D.L.vo 81/2008
  3. Per infortuni o malattie professionali il controllo è mirato all’evento esaminato, salvo che emergano altri rilevanti problemi per la salute e sicurezza dei lavoratori
  4. In edilizia sono possibili controlli mirati ai soli rischi più rilevanti con particolare attenzione al rischio di caduta dall’alto
  5. Tutti gli interventi sopra segnalati avvengono senza preavviso alle imprese. Unica eccezione in tal senso sono le verifiche degli impianti e delle macchine per le quali i datori di lavoro sono di norma avvertiti del giorno e dell’ora dell’intervento in modo da poter garantire, quando necessaria, la presenza di tecnici di propria fiducia, la messa a disposizione della documentazione utile e la messa in sicurezza degli impianti
  6. L’intervento inizia con la presentazione degli operatori al datore di lavoro o suo sostituto
  7. Al sopralluogo vengono invitati a partecipare, se presenti, il datore di lavoro o suo sostituto, il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione.

 

Giuseppe Petrioli

direttore Dipartimento della Prevenzione Azienda Sanitaria di Firenze

 

Fonte: asf.toscana.it

 

 

Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it

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Il rapporto tra l’attività fisica e il benessere psicofisico

Imola, 20 Nov – Se “mens sana in corpore sano” è una frase che risale a Decimo Giunio Giovenale, vissuto intorno al primo secolo d.C., in epoca moderna anche a livello scientifico c’è ormai la consapevolezza che l’attività fisica, se praticata in modo regolare, “favorisce la corretta funzionalità dei nostri organi” e “incide in modo significativo sulla qualità della vita, sullo stato di salute e sul benessere globale della persona, anche nella sua dimensione psicologica”.

 

A ricordare in questi termini l’importanza dell’attività fisica, sottolineandone anche l’utilità e praticabilità nel mondo del lavoro per una migliore tutela della salute dei lavoratori, è un intervento al convegno “Benessere sul lavoro e produttività” (Imola, 16 novembre 2016) che si è svolto nell’ambito delle Settimane della Sicurezza 2016organizzate dall’ Associazione Tavolo 81 Imola.

 

Nell’intervento “ Promozione dell’attività fisica e il benessere psicofisico”, a cura di Renza Maria Berdondini (Medico Competente), si fa riferimento all’ attività fisica quale agente riducente i fattori di rischio relativi a: ipertensione, malattie cardiovascolari, obesità, diabete, dislipidemia, osteoporosi, tumori, …

E riguardo al rapporto tra attività fisica e tumori si indica che “la ricerca svolta dall’American Institute for Cancer Research documenta l’associazione fra alcuni stili di vita, quali per esempio l’alimentazione e l’attività fisica, e i diversi tipi di patologia tumorale (WCRF/AICR 2007). Viene confermata l’associazione protettiva fra attività fisica e cancro del colon e della mammella, anche se per il primo le evidenze sono più consistenti”.

In definitiva secondo le stime dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS – World Health Organization, WHO in inglese) la mancanza di attività fisica è “il quarto fattore ‘comportamentale di rischio’ di mortalità”.

 

La relazione si sofferma anche sulla lombalgia, un disturbo che coinvolge muscoli e ossa della schiena.

Si indica che la lombalgia è frequente in molte attività lavorative a causa di:

– “sforzi fisici importanti e ripetuti in posture non corrette;

– sedentarietà”

La prevenzione primaria è comune per tutti i tipi di lombalgia e si basa su:

– “adozione di corrette posture;

– imparare la giusta tecnica di sollevamento dei pesi;

– ridurre per quanto possibile gli stress, adottando opportune tecniche di rilassamento;

– fare attività fisica con programmi specifici: rafforzamento ed allungamento (stretching) che possono essere svolti anche nelle pause di lavoro”.

 

Se si vuole poi quantificare l’attività fisica:

– con attività fisica “non si deve intendere necessariamente la pratica di uno sport o l’effettuazione di faticosi allenamenti, ma un’attività moderata alla portata di tutti, purché costantemente ripetuta;

– è sufficiente camminare per almeno 30 minuti al giorno per ‘bruciare’ le calorie in eccesso. L’attività fisica contribuisce al consumo energetico riducendo i rischi derivanti dalle possibili patologie collegate al sovrappeso;

– a seconda delle età e delle opportunità possono essere considerati attività fisica anche il gioco, semplici esercizi di mobilizzazione o di allungamento, salire le scale e spostarsi a piedi quando non sia assolutamente necessario l’uso dell’auto o dei mezzi pubblici;

– 150 minuti alla settimana diminuisce del 20-30% il rischio di mortalità per tutte le cause (OMS 2010), con evidenze in particolare per disturbi cardiovascolari, diabete”.

 

Inoltre se l’attività fisica è svolta in compagnia, “diventa fattore di socializzazione, divertimento, svago”.  C’è, insomma, un aspetto relazionale che è “fondamentale per il nostro benessere e per un corretto sviluppo della persona”. E che nell’ambito lavorativo “migliora i rapporti interpersonali”.

 

Riguardo poi al rapporto tra stress e attività fisica:

– “studi osservazionali dimostrano che la partecipazione ad attività regolare può ridurre i sintomi di depressione e lo stress;

– l’esercizio fisico agisce come modulatore e regolatore dei processi fisiologici e neurobiologici che sono alla base dei meccanismi relativi allo stato depressivo (Ehrman, J. K., … & Keteyian, S. J. (Eds.) (2013)”.

 

La relazione si sofferma poi sul concetto e sull’interesse per la salute.

Si segnala che il concetto di salute “si è costantemente modificato nel tempo, per arrivare a assumere, oggi, un’accezione molto più ampia che associa strettamente non solo una condizione di assenza di patologie ma uno stato di ben-essere ‘globale’ della persona”.

E lo stesso D.Lgs. 81/2008 riprende il concetto di salute espresso dall’OMS e che è relativo ad uno ‘stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità’.

Inoltre si ricorda che:

– nel maggio 1998 l’OMS adotta la “Dichiarazione Mondiale sulla Salute”, con la quale “gli Stati membri si impegnano a realizzare un vasto programma per l’attuazione di una ‘Strategia della Salute per tutti per il 21° secolo’;

– successivamente gli Stati Membri Europei traducevano la ‘Dichiarazione mondiale sulla salute’ in un Documento di carattere politico, tecnico ed operativo con cui venivano stabiliti 21 punti chiave per la promozione della salute nella Comunità Europea. Fra questi l’adozione di stili di vita più sani”.

 

Dunque la promozione dell’attività fisica è “un’azione di sanità pubblica prioritaria, spesso inserita nei piani e nella programmazione sanitaria in tutto il mondo” e lo stesso Piano Nazionale della Prevenzione (PNP) 2014-2018, approvato il 13 novembre 2014 dalla Conferenza Stato-Regioni e Province autonome, indica in alcuni passaggi “l’importanza della pianificazione dell’attività fisica nelle sue ricadute sul benessere psico-fisico e sulla prevenzione delle patologie”.

 

Come agire concretamente?

La relazione sottolinea che la promozione della salute sul luogo di lavoro “deriva dalle sinergie attivate fra i datori di lavoro, i lavoratori e la comunità”.

È, ad esempio, possibile “predisporre un percorso educativo:

– attraverso la conoscenza (sapere) – approcci informativi: basati sulla produzione di informazioni finalizzate;

– attraverso la modifica dei comportamenti (saper fare) – approcci comportamentali (formazione): finalizzati alla modificazione di comportamenti, attraverso l’acquisizione/rafforzamento di competenze;

– attraverso coinvolgimento sociale – approcci ambientali: con interventi (organizzativo, ambientale, scolastico, urbanistico, sociale) che facilitino la pratica e la diffusione dell’attività fisica. Tra questi incide maggiormente la prevenzione degli incidenti stradali, ma anche la riduzione dei livelli di inquinamento atmosferico”.

E si indica che la sedentarietà “è considerata, in relazione ai risultati di studi e ricerche pubblicate a livello internazionale, come un rilevante fattore di rischio per l’insorgenza di patologie importanti e per la conseguente incidenza sui livelli di mortalità della popolazione adulta”.

 

Concludiamo segnalando alcune stime dei costi dell’inattività:

– Canada (2009) “sono stati attribuiti all’inattività fisica 6,8 miliardi di dollari (Janssen 2012);

– l’inattività fisica costa in Inghilterra 8.2 miliardi di sterline all’anno includendo sia i costi diretti per i trattamenti maggiori e per le malattie correlate allo stile di vita, sia i costi indiretti collegati all’assenza dal lavoro (Start active, stay active, Health Department UK, 2011);

– una persona inattiva utilizza mediamente maggiori prestazioni sanitarie rispetto a una persona attiva (NICE 2009, Promoting phisical activity for childeren and young people)”.

Questi sono invece i risparmi dell’attività fisica:

– “si guadagna in Salute;

– si guadagna in Benessere;

– riduzione costi per la sanità pubblica;

– riduzione costi per assenze da lavoro”.

 

Segnaliamo, infine, che l’intervento, che vi invitiamo a visionare integralmente, riporta vari esempi pratici di promozione dell’ attività fisica, anche nei luoghi di lavoro, in Italia e nel mondo.

 

 

RTM

 

 Scarica il documento da cui è tratto l’articolo:

“ Benessere sul lavoro e produttività”, a cura di Renza Maria Berdondini (Medico Competente), intervento al convegno “Benessere sul lavoro e produttività” che si è tenuto a Imola nell’ambito delle Settimane della Sicurezza 2016 (formato PDF, 4.70 MB).

 

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Fonte:puntosicuro.it

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Attrezzature di sollevamento: gli accessori, la formazione e i controlli

Monza, 20 Nov – Sono tante le criticità che si possono riscontrare nei luoghi di lavoro in cui si utilizzano attrezzature per il sollevamento dei carichi. Criticità che spesso hanno come conseguenza un aumento dei rischi dei lavoratori, sia degli operatori delle attrezzature, che dei colleghi che operano in prossimità delle macchine o degli stessi manutentori e installatori.

 

Ci soffermiamo oggi su alcune “criticità frequentemente riscontrate” nelle aziende e riportate in una scheda dall’ Agenzia di Tutela della Salute (ATS) della Brianza.

 

Alcune criticità presentate riguardano, in particolare, gli accessori di sollevamento, cioè i ‘componenti o attrezzature non collegate alle macchine per il sollevamento, che consentono la presa del carico, disposti tra la macchina e il carico oppure sul carico stesso, oppure destinati a divenire parte integrante del carico e ad essere immessi sul mercato separatamente; anche le imbracature e le loro componenti sono considerate accessori di sollevamento’ ( Direttiva Macchine 2006/42/CE).

 

Ad esempio si riscontra spesso l’utilizzo non corretto degli accessori di sollevamento, l’imbracatura del carico “utilizzando le legature del fascio (tondini, filo di ferro, ecc.) non facendo uso di accessori di sollevamento conformi alla Direttiva macchine”.

 

Si indica che le legature “costituiscono veri e propri accessori di sollevamento/imbracatura e pertanto trovano la loro regolamentazione tecnica (requisiti di sicurezza) ed amministrativa (procedure per l’immissione in commercio o la messa in servizio) nella Direttiva macchine. Ciò comporta, in particolare, che queste anche quando siano realizzate per uso proprio (cioè destinate ad essere utilizzate direttamente da chi le costruisce), ovvero in unico esemplare, o, ancora, in configurazione non reimpiegabile (tipo ‘usa e getta’), sono soggette al regime procedurale (messa a punto del fascicolo tecnico, redazione del manuale di istruzioni per l’uso in sicurezza, emissione della dichiarazione di conformità, apposizione della marcatura CE) e tecnico-costruttivo (rispetto dei pertinenti requisiti dell’allegato I) ivi previsto” (Circolare n. 21/2002 del 17 aprile 2002 Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali).

 

Altre criticità, sempre relativamente agli accessori di sollevamento, riguardano:

– “deposito di accessori di sollevamento in luoghi non idonei ai fini della sicurezza” (“gli accessori di sollevamento devono essere depositati in modo tale da non essere danneggiati o deteriorati (punto 3.1.7. Allegato VI del D.lgs. n. 81/2008)”;

– “mancata esecuzione dei controlli (manutenzione) degli accessori di sollevamento” (“le funi e le catene devono essere sottoposte a controlli trimestrali in mancanza di specifica indicazione da parte del fabbricante (punto 3.1.2 Allegato VI del D.lgs. n. 81/2008)”.

 

Altre criticità riguardano poi il tema della formazione: nelle aziende si riscontra la “mancanza di documentazione attestante l’avvenuta formazione ed addestramento all’utilizzo” delle attrezzature.

 

Nella scheda si ricorda che – premesso che l’utilizzo di apparecchi di sollevamento è consentito esclusivamente a persona maggiorenne (Allegato I del D.Lgs. n. 345/99), informata, formata e addestrata all’uso specifico dell’attrezzatura di lavoro (art. 71, comma, 7 del D.lgs. n. 81/08) – il legislatore ha previsto che “per la conduzione di talune attrezzature di lavoro destinate al sollevamento è necessaria una specifica abilitazione all’uso (piattaforme di lavoro, gru a torre, gru mobile, gru per autocarro, carrelli elevatori semoventi con conducente a bordo, carrelli semoventi a braccio telescopico, carrelli industriali semoventi, carrelli/ sollevatori/ elevatori semoventi telescopici rotativi)”.

 

Altre criticità riguardano poi l’uso in sicurezza delle attrezzature:

– “sollevamenti multipli con due o più attrezzature di lavoro in assenza di idonea procedura”.  Si indica che tutte le operazioni di sollevamento “devono essere correttamente progettate nonché adeguatamente controllate ed eseguite al fine di tutelare la sicurezza dei lavoratori. In particolare, quando un carico deve essere sollevato simultaneamente da due o più attrezzature di lavoro che servono al sollevamento di carichi non guidati, si deve stabilire e applicare una procedura d’uso per garantire il buon coordinamento degli operatori. (punto 3.2.5 Allegato VI del D.lgs. n. 81/2008)”;

– “utilizzo non corretto delle attrezzature di lavoro”.

Si ricorda che:

– “il datore di lavoro deve prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano installate ed utilizzate in conformità alle istruzioni d’uso (art. 71, comma 4, del D.lgs. n. 81/2008)”;

– i lavoratori devono in particolare: “osservare le disposizioni e le istruzioni impartite dal datore di lavoro, dai dirigenti e dai preposti, ai fini della protezione collettiva e individuale; utilizzare correttamente le attrezzature di lavoro e non compiere di propria iniziativa operazioni o manovre che non sono di loro competenza ovvero che possono compromettere la sicurezza propria o di altri lavoratori”.

 

Nelle attività di verifica periodica si riscontrano inoltre “attrezzature messe in servizio da molti anni e per le quali il datore di lavoro non ha provveduto ad effettuare dei controlli sulle strutture al fine di verificare la presenza di eventuali difetti o anomalie”.

Si segnala che “in aggiunta ai controlli, da eseguirsi al montaggio e secondo le frequenze stabilite in base alle indicazioni fornite dai fabbricanti, ovvero dalle norme di buona tecnica, il legislatore ha previsto che per le gru mobili e trasferibili, il datore di lavoro, durante la verifica periodica deve esibire le risultanze dell’indagine supplementare finalizzata ad individuare eventuali vizi, difetti o anomalie, prodottisi nell’utilizzo dell’attrezzatura di lavoro messe in esercizio da oltre 20 anni nonché a stabilire la vita residua in cui la macchina potrà ancora operare in condizioni di sicurezza con le eventuali relative nuove portate nominali”.

 

Rimandando ad una lettura integrale della scheda, che si sofferma anche su altre criticità (ad esempio le interferenze) e riporta diverse immagini esplicative, ci soffermiamo, infine, sulla mancata esecuzione dei controlli(manutenzione) degli apparecchi di sollevamento.

 

Si sottolinea che il datore di lavoro “deve prendere le misure necessarie affinché le attrezzature di lavoro siano oggetto di idonea manutenzione al fine di garantire nel tempo la permanenza dei requisiti di sicurezza e siano corredate, ove necessario, da apposite istruzioni d’uso e libretto di manutenzione”. E la mancata effettuazione dei controlli “può pregiudicare la sicurezza dell’attrezzatura di lavoro ed essere causa anche di gravi incidenti”: per tale ragione il legislatore ha previsto sanzioni a carico del datore di lavoro e del dirigente.

 

Sono riportate informazioni su varie tipologie di controlli:

– controlli iniziali: “il datore di lavoro, secondo le indicazioni fornite dai fabbricanti ovvero, in assenza di queste, dalle pertinenti norme tecniche o dalle buone prassi o da linee guida, deve provvedere affinché le attrezzature di lavoro la cui sicurezza dipende dalle condizioni di installazione siano sottoposte a un controllo iniziale (dopo l’installazione e prima della messa in esercizio) e ad un controllo dopo ogni montaggio in un nuovo cantiere o in una nuova località di impianto, al fine di assicurarne l’installazione corretta e il buon funzionamento”;

– controlli periodici: “le attrezzature soggette a influssi che possono provocare deterioramenti suscettibili di dare origine a situazioni pericolose devono essere sottoposte ad interventi di controllo periodici, secondo frequenze stabilite in base alle indicazioni fornite dai fabbricanti, ovvero dalle norme di buona tecnica, o in assenza di queste ultime, desumibili dai codici di buona prassi;

– controlli trimestrali: “le funi e le catene devono essere sottoposte a controlli trimestrali in mancanza di specifica indicazione da parte del fabbricante (punto 3.1.2 Allegato VI del D.lgs. n. 81/2008)”;

– controlli straordinari: “le attrezzature soggette a influssi che possono provocare deterioramenti suscettibili di dare origine a situazioni pericolose devono essere sottoposte ad interventi di controllo straordinari al fine di garantire il mantenimento di buone condizioni di sicurezza, ogni volta che intervengano eventi eccezionali che possano avere conseguenze pregiudizievoli per la sicurezza delle attrezzature di lavoro, quali riparazioni trasformazioni, incidenti, fenomeni naturali o periodi prolungati di inattività”.

 

Concludiamo segnalando che il documento si sofferma anche sulle criticità riscontrate relative alla mancanza di documentazione, ad esempio con riferimento a:

– “assenza di documentazione attestante l’effettuazione delle verifiche periodiche di apparecchi di sollevamento, attrezzature in pressione e impianti termici (art. 71, comma 11, D.lgs. n. 81/2008)”;

– “assenza di documentazione attestante l’effettuazione dei controlli degli apparecchi di sollevamento”;

– “assenza di documentazione attestante l’effettuazione dei controlli e delle verifiche periodiche di impianti elettrici (art. 4 dpr 462/2001 e art. 86, comma 1, D.lgs. n. 81/2008)”.

 

 

 

ATS Brianza, “ Criticità frequentemente riscontrate”, scheda pubblicata nella sezione dell’ATS relativa a “apparecchiature e impiantistica” (formato PDF, 2.07 MB).

 

 

RTM

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Sul rischio di caduta dall’alto e sulla nozione di lavori in quota

E’ tornata la Corte di Cassazione, a distanza di un anno, a dare una nozione di “lavori in quota” che si ritiene errata o quantomeno non il linea con le disposizioni di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro vigenti al momento dell’evento infortunistico oggetto del ricorso sul quale la stessa Corte è stata chiamata ad esprimersi. Una analoga nozione dei lavori in quota era stata già data in occasione di un’altra sentenza della stessa Sez. IV della Corte suprema, la n. 39024 del 20/9/2016 (u. p. 15/3/2016) commentata sul quotidiano del 20/2/2017 (La nozione di lavori in quota e la protezione dal rischio caduta dall’alto), nel commentare la quale lo scrivente aveva avuto modo di affermare di non essere in linea con la suprema Corte, così come poche volte è accaduto. Ebbene se ne aggiunge un’altra perché non si è d’accordo sulla interpretazione che dai giudici, nella sentenza in commento, è stata data della disposizione sulla protezione dalla caduta dall’alto di cui all’art. 122 del D. Lgs. 9/4/2008 n. 81, giudici che ne hanno affermata la continuità con l’art. 16 dell’abrogato D.P.R. n. 164/1956, non tenendo conto della modifica allo stesso articolo 122 successivamente apportata dal D. Lgs. 3/8/2009 n. 106.

 

L’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, contenente le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni, ebbe a disporre in particolare che “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m. 2, devono essere adottate, seguendo lo sviluppo dei lavori stessi, adeguate impalcature o ponteggi o idonee opere provvisionali o comunque precauzioni atte ad eliminare i pericoli di caduta di persone e di cose” e sulla interpretazione da dare al contenuto dell’articolo stesso si è molto discusso nel senso che ci si è sempre chiesti, considerato che il legislatore finalizzava l’applicazione della misura di sicurezza esplicitamente alla eliminazione “dei pericoli di caduta di persone o di cose”, se per l’altezza di 2 metri era da intendersi la quota alla quale venivano effettuati i lavori, corrispondente sostanzialmente all’altezza delle posizioni delle braccia, o, come appariva più logico, quella dalla quale potesse cadere il lavoratore, corrispondente sostanzialmente al piano di calpestio sul quale opera lo stesso.

 

La Corte di Cassazione, chiamata più volte all’epoca ad interpretare la disposizione di cui all’art. 16 del D.P.R. n. 164/1956, si è espressa prevalentemente sostenendo che ciò che contava ai fini dell’applicazione dell’articolo stesso fosse l’altezza alla quale si stavano svolgendo i lavori (fra tutte Cass. Pen. Sez. IV 7 giugno 1983, Cass. Pen. Sez. IV 4 agosto 1982, Cass. Pen. Sez. IV n. 741 del 25 gennaio 1982) e non anche quella del piano di calpestio sul quale si trovava il lavoratore ma non sono mancate comunque delle espressioni della stessa Corte di Cassazione in senso contrario.

 

Nel 2008 con l’art. 122 del il D. Lgs. n. 81/2008 è stato sostanzialmente riscritto il contenuto dell’art. 16 abrogato creando così una sorta di continuità normativa fra le vecchie e le nuove disposizioni sulla protezione dalla caduta dall’alto, così come messo in evidenza dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 39024 della Sez. IV penale del 20/9/2016 sopra indicata.

 

Successivamente nel 2009 con il D. Lgs. n. 106/2009, correttivo ed integrativo del D. Lgs. n. 81/2008, il legislatore, forse proprio per dipanare i dubbi sorti sul’applicazione dell’art. 16 del D.P.R. n. 164/1996 e quindi dell’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, ha modificato lo stesso articolo 122 sostituendo l’espressione “nei lavori che sono eseguiti ad un’altezza superiore ai m 2 devono essere adottate…………….” che compariva nel testo originario con l’espressione “nei lavori in quota, devono essere adottate……” per cui nessun dubbio sussiste oggi sul campo di applicazione dell’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008, che il legislatore ha voluto legare al lavoro in quota definito esplicitamente dall’art 107 dello stesso D. Lgs. come l’”attività lavorativa che espone il lavoratore al rischio di caduta da una quota posta ad altezza superiore a 2 m rispetto ad un piano stabile” e per il quale è obbligatoria una protezione al fine di evitare la caduta dall’alto di persone o cose. Nessun dubbio sussiste quindi sulle misure di protezione da adottare ogni qualvolta nel testo di tale decreto legislativo vengono citati i lavori in quota, così come succede nell’art. 115 sui sistemi di protezione individuali.

 

Quanto sopra non vuol dire comunque che, nel caso di lavori per l’esecuzione dei quali un lavoratore venga a trovarsi su di un piano di calpestio di altezza inferiore ai 2 metri, come nel caso in esame, non vadano adottate ugualmente delle misure di protezione dalla caduta dall’alto e non vuol dire quindi che possano essere effettuati senza alcuna protezione. Nelle situazioni quali quelle appena citate, che possiamo definire per distinzione come “lavori sottoquota”, non va applicato l’art. 122 del D. Lgs. n. 81/2008 ma altre disposizioni in materia di sicurezza sul lavoro di cui allo stesso decreto legislativo. Se, infatti, esaminiamo più approfonditamente le disposizioni dettate dal D. Lgs. n. 81/2008 in merito alle misure da adottare a protezione dalla caduta dall’alto, emerge chiaramente che lo stesso decreto legislativo nell’Allegato IV, contenente i requisiti che devono possedere i luoghi di lavoro, con una disposizione che è quindi applicabile a tutte le attività oltre a quella svolta nei cantieri edili, ha indicato esplicitamente al punto 1.7.3 che “le impalcature, le passerelle, i ripiani, le rampe di accesso, i balconi ed i posti di lavoro o di passaggio sopraelevati devono essere provvisti, su tutti i lati aperti, di parapetti normali con arresto al piede o di difesa equivalenti”. Per la nozione di posti di lavoro o di passaggio sopraelevati non esiste nel D. Lgs. n. 81/2008 una precisa definizione ma per essa si può fare riferimento ad altre indicazioni fornite nello stesso decreto secondo le quali per tali posti sopraelevati potrebbero intendersi tali quelli situati ad una altezza superiore ai 50 cm dal suolo.

 

Il fatto, il ricorso in Cassazione e le motivazioni

Il datore di lavoro di un’azienda ha ricorso in cassazione avverso la sentenza con la quale la Corte di Appello, in riforma della pronuncia assolutoria di primo grado, aveva dichiarata la sua penale responsabilità in ordine al reato di cui all’art. 590 cod. pen. per avere cagionato delle lesioni personali gravi a un dipendente dell’azienda stesa dalle quali è derivata una malattia guarita in 60 giorni, non esigendo che lo stesso indossasse il previsto elmetto protettivo, messogli a disposizione durante l’esecuzione dei lavori in un cantiere edile, e non contemplando, nel piano operativo di sicurezza, l’apprestamento dell’opera provvisoria su cui operava il lavoratore e dal quale, mentre smontava quest’ultima cadeva al suolo da un’altezza di m 1,87, privo del previsto l’elmetto protettivo,.

 

Con un primo motivo il ricorrente ha lamentato che la Corte di Appello non ha dato rilievo all’esistenza di una delega alla sicurezza rilasciata a un professionista amministratore di una società specializzata nella sicurezza ragione per cui non toccava a lui l’obbligo di verificare se un’opera provvisoria era contemplata nel piano operativo di sicurezza e se l’operaio, la mattina dell’incidente, indossasse o meno il casco, considerata anche la presenza, oltre che del delegato, anche di un coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione dell’opera. Lo stesso ricorrente ha sostenuto che non era neanche dimostrato che, al momento dell’infortunio, il lavoratore non indossasse il casco, poiché dai rilievi fotografici si evinceva la presenza di un elmetto protettivo rovesciato, che ben poteva essere quello in dotazione all’infortunato, il quale non ha mai chiarito questa circostanza e ha sostenuto che le perdite di sangue dalla nuca avevano evidenziato semmai un cattivo allacciamento dell’elmetto pur avendo il dipendente partecipato a corsi di formazione e pur essendo lo stesso sicuramente in grado di indossarlo correttamente. Non vi era prova altresì, secondo lo stesso, che l’opera provvisoria da cui era caduto il lavoratore non fosse prevista nel piano operativo di sicurezza, poiché mancava agli atti la copia dello stesso e comunque non era affatto certo che, se l’opera fosse stata prevista, con tutte le specificazioni del caso, il lavoratore non avrebbe compiuto ugualmente quella manovra che gli è costata la caduta.

 

Erroneamente inoltre, ha sostenuto il ricorrente, era stato ritenuto che si trattasse di lavori in quota, poiché il piano di calpestio era posto all’altezza di 1,80 metri e dunque non poteva affermarsi che i lavori fossero stati eseguiti ad un’altezza superiore a 2 metri. Ha sostenuto ancora che la Corte di Appello avrebbe dovuto applicare la diminuente del terzo della pena poiché il processo in primo grado si era svolto con rito abbreviato mentre nella sentenza non vi era traccia alcuna di tale diminuzione.

 

Le decisioni della Corte di Cassazione

Il primo motivo del ricorso relativo alla esistenza di una delega di funzioni non è stato accolto dalla Corte di Cassazione, La Corte di Appello, infatti, aveva chiarito, con motivazione esente da vizi logico-giuridici, che gli ufficiali di polizia giudiziaria operanti avevano attestato che non era emerso, durante le indagini, il rilascio di deleghe in materia di sicurezza sul lavoro né queste ultime erano state esibite, nonostante esplicita richiesta, in sede di sopralluogo.

 

Con riferimento poi alla presenza del casco protettivo i giudici avevano dato rilevanza alle dichiarazioni rese dal lavoratore infortunato il quale aveva riferito che, al momento del sinistro, calzava solo le scarpe antinfortunistiche nonché di tutti i testimoni escussi che avevano concordemente affermato che il collega, al momento dei primi soccorsi, non aveva l’elmetto. Le gravi lesioni patite al capo del resto, ha precisato la Corte di Appello avevano portato ad escludere, con ragionevole certezza, che la vittima avesse il casco. Il casco, infatti, era stato rinvenuto capovolto ad una distanza di alcuni metri dal posto in cui l’infortunato era stato soccorso e, considerata l’altezza, davvero modesta, dalla quale il lavoratore era caduto era decisamente poco verosimile che un elmetto regolarmente indossato potesse essere sbalzato così lontano, per effetto dell’impatto con il suolo. Per di più, tra gli indumenti dell’infortunato rimossi dal 118, in sede di soccorso, e rinvenuti dagli operanti, era presente un cappellino con evidenti tracce presumibilmente ematiche.

 

Per ciò che concerne l’assenza della previsione del ponteggio nell’ambito del piano operativo di sicurezza, i giudici avevano posto in rilievo che tale lacuna è stata riscontrata dal tecnico della prevenzione, il quale aveva riferito che la realizzazione della predetta opera provvisoria e le relative metodologie lavorative, poste in essere sulla struttura stessa, non erano state contemplate né nel piano operativo di sicurezza né nel piano di sicurezza e controllo. Il tutto del resto era stato confermato dallo coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione il quale aveva riferito che nulla era riportato nei predetti documenti in ordine alla realizzazione della struttura dalla quale era caduto il lavoratore. Di qui la conclusione secondo cui l’assenza di una specifica valutazione dei rischi riguardanti l’allestimento del ponteggio non aveva consentito di regolamentare la sua realizzazione, con l’individuazione di adeguate misure volte a salvaguardare l’incolumità fisica dei lavoratori. Se vi fosse stata una specifica determinazione delle metodologie lavorative da osservare e delle opere prevenzionali da adottare, l’infortunio, avevano concluso i giudici, non si sarebbe verificato.

 

Anche la motivazione legata alla nozione dei lavori in quota è stata ritenuta dalla Corte di Cassazione priva di fondamento. Si è infatti condivisibilmente ritenuto, in giurisprudenza, ha precisato la Sezione IV, che “l’altezza superiore a m 2 dal suolo, tale da richiedere le particolari misure di prevenzione prescritte dall’art. 122 del D. Lgs. n. 81 del 2008 (che ha sostituito l’art. 16 del D.. P. R. n. 164 del 1956, ponendosi però in continuità con esso), va calcolata in riferimento all’altezza alla quale il lavoro viene eseguito, rispetto al terreno sottostante, e non al piano di calpestio del lavoratore (Cass., Sez. 4, n. 43987 del 28-2-2013, Rv. 257693; Cass., n. 741 del 1982; n. 7604 del 1982; n. 5461 del 1983)”. Sotto il profilo giuridico, quindi, secondo la Corte suprema, non ha rilievo che il piano di calpestio fosse posto ad un’altezza inferiore a metri 2, se il lavoro si svolgeva ad un’altezza superiore. In questa prospettiva, la Cassazione ha osservato come la Corte d’appello avesse sottolineato che l’operaio lavorava a un’altezza tale per cui c’era il rischio, sia teorico che effettivo, che egli potesse cadere dall’alto, trattandosi di un lavoro da effettuarsi, ad operaio in posizione eretta, a oltre 2 m , ragion per cui il rischio di caduta era prevedibile e doverosamente evitabile, sia in via preventiva nel POS sia nel momento esecutivo

 

Fondato è stato invece ritenuto dalla suprema Corte l’ultimo motivo di ricorso essendo risultato infatti dalla sentenza impugnata che, in primo grado, il processo si era svolto con rito abbreviato. La stessa ha precisato in merito che, qualora la Corte di Appello pronunci una sentenza di condanna, in riforma della sentenza assolutoria emessa in primo grado, nell’ambito di un processo svoltosi con rito abbreviato, la stessa deve applicare la diminuzione di pena prevista dall’art. 442 cod. proc. pen. per cui erroneamente la Corte di Appello non aveva applicata la diminuente della pena. Trattandosi, comunque, di una determinazione di carattere obbligatorio, cui è estraneo ogni connotato di discrezionalità, ha così concluso la sezione IV, la predetta diminuente, nell’ottica delineata dall’art. 620, lett. I, cod. proc. pen., può essere applicata anche dalla suprema Corte e la relativa riduzione di pena, stabilità dalla legge in misura fissa, può essere effettuata anche in sede di legittimità, muovendo dalla pena irrogata dalla Corte d’appello (mesi 4 di reclusione) e diminuendola di un terzo.

 

La Corte di Cassazione in definitiva ha annullata la sentenza impugnata senza rinvio, limitatamente alla misura della pena, che ha quindi rideterminata in mesi 2 e giorni 20 di reclusione rigettando il ricorso nel resto.

 

 

Gerardo Porreca

 

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza 15 settembre 2017, n. 42261 – Caduta al suolo e mancanza di elmetto. Lavori in quota e dpi

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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“Formare continuamente il personale è un elemento fondamentale per tutte le aziende”, precisa Antonio Bartoccini, titolare di un gruppo imprenditoriale in continua espansione

L’Umbria della piccole e medie imprese, oltre a tante debacle, riserva piacevoli sorprese con imprenditori giovani e determinati, la cui fiducia in un futuro possibilmente migliore sembra non essere mai venuta meno. E questo anche nei momenti più difficili.
Una di queste sorprese è sicuramente Antonio Bartoccini, un personaggio comunque impegnato inoltre a livello sociale, essendo il gruppo noto per la presenza nel mondo dello sport in virtù dei valori che rappresenta : “positivi e costruttivi”.

Infatti Bartoccini Gioiellerie Perugia dà il nome ad una squadra di volley femminile che milita in Serie A2. Ma l’impegno non si ferma qui, visto che sulle maglie della squadra c’è uno sponsor etico: “Avanti tutta”, un’ associazione perugina che aiuta e sostiene i malati di cancro.

Il gruppo Bartoccini inoltre sostiene da anni le realtà sportive più importanti della città, il Perugia Calcio e la Sir Safety Conad Perugia in Serie A1 della pallavolo maschile.
Le domande da porre sarebbero molte e nell’intervista abbiamo cercato di capire non solo la filosofia dell’azienda ma anche le motivazioni alla base di un settore che offre beni di lusso spesso voluttuari, cercando di capire come ha reagito il mercato nel corso degli ultimi difficilissimi anni.

“La mia attività lavorativa comincia molto presto con la presenza a negozio sin da ragazzo durante la scuola. L’estate e i pomeriggi spesso affiancavo mio padre e mia madre nel lavoro”, ci racconta Bartoccini che entra stabilmente nell’azienda di famiglia nel lontano 1989, diventando dopo vari corsi “Gemmologo” e socio dell’ Associazione Italiana Gemmologi.
Un lungo cammino percorso insieme alla sorella Fidela, che divenuta maestra orafa permette di produrre una linea di gioielli con diamanti acquistati direttamente nei centri di taglio e commercializzati nei vari punti vendita di una realtà in costante crescita.Il Gruppo barroccini,va sottolineato,impiega 45 dipendenti ed è in continua espansione.

“Noi abbiamo un mix merceologico molto ampio, che va dal regalino da 20 euro al gioiello importante da oltre 10.000 puntualizza Antonio Bartoccini. Non possiamo definirci completamente azienda di lusso, perché abbiamo molti prodotti al di fuori daquesta definizione. I beni però che possono rientrare in questa categoria sono gli orologi svizzeri di marchi storici importanti e i gioielli in oro con diamanti e pietre preziose. Personalmente non mi piace parlare di crisi, ma di cambiamento del comportamento dei consumatori. La nostra varietà di offerta merceologica ci ha permesso comunque di passare indenni attraverso questi anni, con fatturati, a parità di perimetro, stabili”.

Ci dovranno essere dei punti di forza che permettono all’azienda di essere un punto di riferimento del settore sia in Umbria che fuori Regione, chiediamo per comprendere meglio l’espansione del Gruppo Bartoccini nel corso del tempo.

“La grande varietà di assortimento, il servizio post vendita, la presenza molto diffusa sul territorio umbro, la capacità di rispondere velocemente al cambiamento di gusto dei consumatori, adeguando l’offerta alle esigenze della clientela e soprattutto la stabilità dei nostri collaboratori molto preparati e professionali”, sottolinea con orgoglio Antonio Bartoccini.
In un settore così delicato la formazione diventa importantissima nello sviluppo futuro. Infatti credo che “formare continuamente il personale sia la chiave di volta di tutte le aziende. Il nostro settore vanta un ritardo pluridecennale sulla competenza delle persone che lavorano nella filiera, soprattutto al dettaglio. Per esempio essere gemmologo o avere fatto corsi di aggiornamento su diamanti e pietre preziose è una condizione essenziale per vendere gioielli. E’ come se vado dal dottore ma non ha la laurea in medicina. Non è concepibile. Nel frattempo,conclude Antonio Bartoccini, la tecnologia si è evoluta in maniera incredibile,facendo nascere l’esigenza di professionalità reinventate e di nuove figura professionali. Parliamo ad esempio di disegnatori con cad, operatori per prototipazione rapida, esperti dell’ e-commerce e web marketing. Sopra a tuttì conclude Bartoccini,metterei l’orologiaio, una figura che va scomparendo e sempre più difficile da trovare.”
Già l’orologiaio, aggiungiamo noi, una figura tipica di un mondo superato dalla tecnologia ma tipica di un’arte creativa a livello manuale che sembra lontana nel tempo.

 

Fonte: corrieredelleconomia.it

Generic

Sistemi RFid: i limiti e le criticità per la privacy e la salute

Roma, 8 Nov – Il riconoscimento a distanza di un oggetto per mezzo di comunicazioni radio, attraverso sistemi RFId(Radio-Frequency Identification), è una tecnologia che ha avuto un rapido successo ed evoluzione: un trasponder (Tag) viene accoppiato all’oggetto che deve essere riconosciuto e un apposito lettore (Reader) può interrogare i Tag per ricavare le informazioni di interesse.

E questa tecnologia, presentata nel dettaglio nel documento Inail “ RFId (Radio-Frequency Identification) in applicazioni di sicurezza”, può avere diverse applicazione anche in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, come raccontato in precedenti articoli del nostro giornale.

 

Tuttavia questi sistemi RFid, per quanto utili ed evoluti, non sono esenti non solo da criticità ma anche da pericoli per la privacy e la salute.

 

Ed è lo stesso documento Inail a ricordare alcuni aspetti critici nell’utilizzo della tecnologia RFid, almeno rispetto alle caratteristiche ideali del sistema.

Si indica che esistono, infatti, alcuni problemi “che costituiscono ancora un freno all’introduzione massiva degli RFId in taluni campi applicativi, anche se si spera che in un prossimo futuro potranno essere risolti con lo sviluppo tecnologico”.

Viene presentato un breve elenco, non esaustivo, di tali problemi:

– “scarsa compatibilità ‘worldwide’ (non uniformità di frequenze e potenze operative in tutto il pianeta);

– difficoltà nell’allestimento dell’applicazione (mancanza di sistemi ‘chiavi in mano’, aspettative non realistiche indotte dagli integratori rispetto alle prestazioni effettive di Reader e Tag);

– mancata ripartizione dei costi sull’intera catena di distribuzione (produzione, trasporto, commercio);

– limiti fisici dei sistemi reali (scarsa distanza operativa, possibilità di fallimenti nelle operazioni di lettura, incompleta applicabilità su tutte le merci, bassa velocità di lettura-scrittura);

– scarsa flessibilità per la progettazione delle antenne con conseguenti limiti su forma, dimensioni e contenitori dei TAG;

– difficoltà ad ottenere fiducia dai consumatori (modesta sicurezza e protezione dei dati, impatto ambientale non trascurabile per alcuni tipi di Tag) e dalle aziende (alti costi del software applicativo, alto costo dei Tag, che viene percepito come il maggior fattore ostativo perché si somma al prezzo finale delle merci, limitata integrazione dei processi di ‘tagging’ in alcuni dei processi aziendali, immaturità tecnica dei sistemi ‘middleware’ che devono processare dati e istruzioni)”.

 

Il documento affronta poi i pericoli per la privacy.

 

Si segnala, ad esempio, che il ciclo di vita dei Tag “supera spesso quello degli oggetti a cui il Tag è associato. I Tag passivi, in particolare, non necessitando di batterie, hanno aspettativa di vita teoricamente infinita, e continuano a funzionare anche quando la catena di distribuzione è giunta al termine”. E questo significa che teoricamente è possibile “continuare ad interrogare gli oggetti a cui i Tag sono associati, anche se sono ormai da tempo in possesso di proprietari privati, traendo da ciò informazioni sulle abitudini di tali persone”.

 

Il problema poi non è relativo solo ai Tag associati a singoli articoli di consumo, “che non hanno un’associazione diretta con i dati personali dei proprietari”, ma può coinvolgere anche “altri oggetti abitualmente in possesso dei privati che invece possono consentire di risalire a dati personali (carte di pagamento o di accesso, passaporto elettronico, tessera sanitaria, chip biomedico, apparati elettronici, ticket, ecc.)”.

 

In relazione a tale problematica, nel settore della logistica, “lo standard EPC-Gen2 prevede che i Tag contengano solamente un unico codice (ovvero un numero di serie), cosicché la lettura di un Tag (posizionato su di un oggetto a fini di inventario) sia identica (trattandosi di una soluzione a breve raggio) a quella di un codice a barre e quindi non contenga alcuna informazione utile sull’identità del possessore, mentre diverso è il discorso per i chip che contengono informazioni sensibili”. In ogni caso aziende o organizzazioni di vario genere potrebbero comunque “ancora acquisire informazioni indebite sulla clientela, ad esempio potrebbero realizzare indagini di mercato sui consumi delle singole persone, acquisendo informazioni al momento del pagamento elettronico”.

 

Nel documento si indica poi che un altro problema relativo alla privacy è relativo al tracking dell’individuo per mezzo di sistemi RFId. E anche in questo caso il problema “assume maggiore rilevanza in presenza di Tag che contengano a bordo informazioni personali che potrebbero essere soggetti a letture non autorizzate per finalità diverse da quelle originarie”.

Tuttavia, continua il documento, questo problema è, “allo stato attuale della tecnologia RFId, alquanto sopravvalutato risultando più teorico che pratico. Infatti, una limitazione proviene direttamente dalla piccola estensione delle zone di copertura dei Reader degli RFId”.

Si indica che distanze di lettura “dipendono fortemente dalle condizioni ambientali e dalle tecnologie utilizzate. In pratica le normative e i dispositivi attuali prevedono le seguenti portate operative:

– per i Tag passivi da 125 a 134.2 kHz, la distanza di lettura varia da quasi a contatto a circa 1 m;

– per i Tag a 13,56 MHz, la distanza di lettura varia da quasi a contatto a circa 1 m;

– per i Tag UHF passivi usati per la logistica (da 860 a 960 MHz), la distanza tipica prevista dalla normativa varia da 1 a 10 metri”.

E i Tag UHF, quelli con la maggiore portata, subiscono poi una limitazione della portata “in presenza di acqua e, poiché il corpo umano è composto al 70% da acqua, l’ipotesi di utilizzarli (in forma cutanea) per il controllo degli spostamenti di una persona (pedinamento), anche se non impossibile, è poco efficace”.

Dunque in relazione alla portata limitata della comunicazione wireless dei Tag, per il tracking sarebbe necessario “un numero enorme di lettori sparsi su un territorio con lievitazione dei costi relativi”. E si sottolinea anche che il tracking visivo “assicura la copertura di distanze maggiori con migliore accuratezza, e che le forze dell’ordine, se incaricate dall’autorità giudiziaria, possono accedere ben più facilmente ai dati degli operatori di telefonia mobile per seguire gli spostamenti di persone ricercate o soggette ad indagine”.

 

Una problematica diversa è quella poi del tracciamento degli spostamenti del personale di un’azienda, all’interno dell’azienda stessa, per mezzo delle tessere RFId di riconoscimento ed accesso.

In questo caso anche Tag passivi da 125 a 134.2 kHz o da 13,56 MHz “potrebbero essere utilizzati. Posizionando i Reader in corrispondenza delle porte delle stanze è possibile un grossolano posizionamento del personale (presenza o assenza all’interno della stanza)”. E l’effettiva realizzabilità di tali sistemi di tracciamento “è legata agli accordi sindacali e all’accettazione da parte del personale interessato”.

 

Il documento si sofferma poi sul pericolo di diffusione di informazioni commerciali, con particolare riferimento a quelli relativi all’etichettatura elettronica.

 

Si indica che poiché i “product code” sono ormai “molto diffusi in ambito commerciale come identificatori di prodotti (catene produttive e gestione di magazzino), la violazione della segretezza della comunicazione wireless di risposta dei Tag (e la vendita al mercato nero dei dati relativi ai prodotti) costituisce un rischio per l’attività produttiva e commerciale delle aziende, con danni economici potenzialmente rilevanti e un possibile guadagno per le aziende competitrici”.

 

In conclusione il documento riporta anche alcuni riferimenti agli eventuali rischi per la salute.

 

Il documento segnala che l’Agenzia IARC (International Agency for Research on Cancer) ha classificato i campi elettromagnetici a radiofrequenza come ‘possibilmente cancerogeni per gli esseri umani (Gruppo 2B)’, una categoria generalmente usata quando ‘un’associazione causale è considerate credibile, ma la casualità, il pregiudizio o l’incertezza, non possono essere esclusi con ragionevole confidenza’.

E dunque è necessario “evitare esposizioni indebite per durata e potenza di esseri umani ai campi elettromagnetici” ed esistono limiti opportuni “che dipendono dalla frequenza e devono essere verificati di caso in caso a seconda dell’applicazione specifica”.

 

In questo senso, segnala infine il documento Inail, analizzando opportunamente i vari parametri necessari al funzionamento del sistema (frequenza, ampiezza/potenza, durata) è possibile che “la maggior parte delle attuali applicazioni RFId siano realizzabili senza problemi per la salute, soprattutto se i dispositivi hanno una sufficiente distanza dal corpo”.

 

 

RTM

 

 

Scarica il documento da cui è tratto l’articolo:

Dipartimento innovazioni tecnologiche e sicurezza degli impianti, prodotti e insediamenti antropici dell’Inail, “ RFId (Radio-Frequency Identification) in applicazioni di sicurezza”, a cura di Giovanni Luca Amicucci e Fabio Fiamingo, versione 2016, pubblicazione gennaio 2017 (formato PDF, 2.26 MB).

 

 

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Questo articolo è pubblicato sotto una Licenza Creative Commons.

 

Fonte: puntosicuro.it11

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Laboratori chimici: un manuale per la valutazione del rischio

Roma, 8 Nov – L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ( ISPRA) è un ente che svolge attività di ricerca, sperimentazione, controllo, monitoraggio e valutazione in materia ambientale e le varie agenzie di protezione ambientale si trovano spesso a trattare sostanze chimiche con varie tipologie di pericolosità.

Per questo motivo in questi anni – anche attraverso l’attività del Centro interagenziale “Igiene e sicurezza del lavoro” istituito dal Consiglio del Sistema nazionale a rete per la protezione dell’ambiente (SNPA) – sono stati prodotti diversi documenti, tra il 2005 e il 2011, contenenti linee guida per la valutazione del rischio da esposizione ad agenti chimici pericolosi e ad agenti cancerogeni e mutageni. Linee guida che sono state recentemente riviste (“terza revisione”) con un nuovo manuale che tiene conto di diversi fattori:

– le modifiche della normativa comunitaria in tema di protezione della salute umana e dell’ambiente dai possibili rischi derivanti da agenti chimici concretizzatasi attraverso il Regolamento 1907/2006 REACH nonché di classificazione, etichettatura e imballaggio di sostanze e miscele pericolose mediante l’emanazione del Regolamento 1972/2008 CLP;

– l’intervento della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro (art. 6 del D.lsg 81/08) con riferimento al documento del 2012 “ Criteri e strumenti per la valutazione e la gestione del rischio chimico negli ambienti di lavoro ai sensi del D.Lgs. n. 81/2008 e smi, (Reg. (CE) n. 1907/2006, Reg. (CE) n. 1272/2008 e Reg. (UE) n. 453/2010)”;

– l’esperienza derivante dalla applicazione dei criteri di valutazione del rischio chimico delle edizioni del 2006 e 2011 delle linee guida (2006 e 2011) che hanno permesso di individuare spunti di miglioramento.

 

Il nuovo documento, dal titolo “Manuale per la valutazione del rischio da esposizione ad agenti chimici pericolosi e ad agenti cancerogeni e mutageni”, curato da un tavolo di lavoro e relativo alla Delibera del Consiglio SNPA, seduta del 1 agosto 2017 (Doc. n. 18/17), tratta – come indicato in prefazione – “in maniera esaustiva e aggiornata gli aspetti riguardanti la valutazione, le misure di mitigazione e la gestione in ottica di SGSL del rischio chimico cui sono esposti gli operatori dei laboratori di ISPRA e delle Agenzie Ambientali”. Ed è arricchito da un “applicativo in formato Excel e Access per il calcolo automatico dei livelli d’esposizione agli agenti chimici pericolosi e di efficacia delle misure di tutela per gli agenti cancerogeni e mutageni, che, una volta immesse le informazioni sulle sostanze e miscele impiegate, diventa un efficace strumento di progetto, verifica e gestione delle misure di sicurezza applicate e/o applicabili per ridurre e gestire l’esposizione dei operatori”.

 

Ci soffermiamo in questo primo articolo di presentazione del documento, prima di entrare nello specifico della gestione e valutazione dei rischi chimici, su alcune considerazioni generali relative al concetto di rischio e all’importanza degli indici di rischio.

 

Il documento ricorda che il concetto di rischio “non ha mai avuto una definizione univoca “ e che attualmente  l’interpretazione comune tende ancora ad associare il rischio alle “situazioni potenzialmente dannose cui è esposta un’azienda, riconoscendolo come l’’esposizione all’incertezza che ha potenziali conseguenze negative’, considerandone quindi l’esposizione agli eventi negativi ed escludendone le possibili conseguenze positive indicate separatamente come ‘opportunità’”. E anche in letteratura l’accento “è comunemente posto sul ‘downside-risk’ (conseguenze derivanti da un evento negativo)”.  Tuttavia “nonostante alcuni rischi non siano controllabili dal management, così da cautelarsi dai possibili risvolti negativi, la maggior parte si rivela gestibile e magari sfruttabile per conquistare benefici più elevati. Abbracciando una ‘definizione neutrale’, alcuni rischi possono essere d’aiuto a studiare ipotesi per una migliore gestione”.

Si indica poi che il rischio viene connesso ad una misura dell’incertezza come “combinazione di probabilità (espressa anche in termini di frequenza, intesa come numero di volte che l’evento può verificarsi in un dato periodo di tempo) e conseguenze (‘impatto’ o ‘gravità’, quantificando l’entità del danno al verificarsi dell’evento) associate alla realizzazione dell’evento di riferimento. Il rischio quindi combina due aspetti concorrenti: il danno, cioè l’entità delle conseguenze negative, e la frequenza (o probabilità) del suo avverarsi”.

 

Veniamo all’importanza degli indici di rischio.

 

Infatti il documento indica che nel tentativo di “superare i limiti propri di un giudizio qualitativo affidato all’esperienza dei tecnici, attraverso la sistematizzazione dell’analisi dei rischi, è sorta l’esigenza di individuare indici numerici per esprimere sinteticamente il grado di rischio relativo allo svolgimento di una data attività”. E in generale le “motivazioni per l’adozione di un indice numerico rappresentativo del rischio, possono essere:

– fornire un metodo razionale per il confronto tra le situazioni di rischio in relazione alle scelte effettuate e alle situazioni analizzate;

– consentire a specialisti e non, un raffronto tra i livelli di rischio che le diverse scelte e situazioni analizzate comportano;

– mostrare come un’obiettiva analisi della realtà può eliminare pregiudizi e valutazioni emotive portando ad un più equilibrato apprezzamento del grado di accettabilità dei rischi”.

E se gli indici di rischio hanno una derivazione statistica, molte volte il dato numerico “oltre che invalidato dall’arbitrarietà delle stime è viziato da veri e propri errori logici”. E talvolta alcuni fattori indispensabili non vengono presi in considerazione, “tra questi si ricorda:

– “il grado di conoscenza del pericolo, che è ovviamente determinante in una corretta formulazione di un modello di accettazione dei rischi;

– il rapporto tra coscienza del pericolo e comportamento soggettivo degli individui esposti;

– il grado di influenza del comportamento e dello stato psicofisico degli esposti sulle condizioni oggettive di pericolo e quindi la possibilità di controllo su parametri che influenzano in modo non indifferente le condizioni globali di pericolo;

– la significatività delle medie rispetto alle situazioni specifiche;

– la dipendenza dell’integrazione del rischio per il tempo totale di esposizione nell’intera vita;

– la connessione tra accettazione e volontarietà dei rischi: si può parlare di rischio accettato solo nel caso in cui il rischio sia assolutamente volontario, mentre nel caso di totale imposizione si deve parlare di rischio subito con minore o maggiore rassegnazione, la classificazione nelle due sole categorie di rischi volontari e involontari è comunque troppo grossolana per consentire apprezzamenti quantitativi;

– la distinzione tra accettazione individuale e accettazione sociale: non è detto che il grado di disponibilità individuale a correre un determinato rischio sia proporzionale all’accettazione media di quel rischio da parte della società; e nemmeno che la disponibilità sociale verso determinati rischi sia strettamente correlata al grado di accettazione o di rassegnazione a quei rischi da parte degli individui esposti”.

In questo senso gli indici di rischio “non riescono a dare, per ogni situazione specifica, una rappresentazione tanto dettagliata da consentire l’individuazione delle singole cause di incidente; essi si limitano a fornire una indicazione su quali scelte producono livelli di danno, che può definirsi di trascurabilità dei rischi”.

 

Veniamo, infine, al rischio chimico, cancerogeno e mutageno e alle peculiarità della valutazione dei rischi nelle attività dei laboratori.

 

Il manuale sottolinea che nella realtà delle Agenzie Ambientali, “esistono diverse attività lavorative, come quelle che si effettuano nei laboratori di prova, che possono esporre i lavoratori ad agenti o a prodotti chimici e ciò può rappresentare un rischio sia per la salute (intossicazione acuta e cronica, ustioni chimiche, effetti mutageni, cancerogeni, ecc.), sia per la sicurezza (incendio, esplosione) dei lavoratori. Si tratta tipicamente di laboratori che effettuano analisi su svariate matrici ambientali e alimentari in cui è presente una vasta gamma di agenti chimici”. E si rileva che i campioni che arrivano al laboratorio sono spesso costituiti da “materiali di composizione ignota (ad esempio rifiuti abbandonati) e ciò rappresenta una fonte di rischio aggiuntivo e richiede sempre la massima attenzione da parte dell’operatore”.

È evidente che l’utilizzo di una sostanza chimica “non costituisce, di per sé, necessariamente un rischio effettivo per la salute, in quanto questo dipende e deriva solo dalle caratteristiche tossicologiche della sostanza e, in funzione di queste, dalle modalità del contatto che si realizza nel corso dell’attività lavorativa”. E la procedura di valutazione del rischio di esposizione ad agenti chimici nelle attività dei laboratori, “ha connotazioni peculiari rispetto alle valutazioni di attività in cui si fa uso di agenti chimici in cicli produttivi (industriali), nei quali si è in presenza di livelli d’emissione relativamente alti e sufficientemente costanti nel tempo. Attività per le quali può avere significato fare indagini ambientali al fine di confrontare i risultati con i valori limite di riferimento”.

Invece nelle attività di laboratorio delle Agenzie per l’Ambiente è utilizzata una “moltitudine di sostanze chimiche, dalle caratteristiche tossicologiche più disparate, in quantità molto piccole e per tempi d’esposizione molto brevi. Queste modalità operative possono rendere critica la misurazione ambientale dei contaminanti potenzialmente presenti in quanto il campionamento potrebbe non rispondere ai criteri di rappresentatività e significatività richiesti”.

 

Ricordando che il documento sottolinea l’importanza, nel settore dei rischi relativi alle sostanze chimiche, del “linguaggio” utilizzato, riportiamo brevemente alcune delle definizioni contenute nella pubblicazione:

– agente chimico pericoloso: “1) agente chimico che soddisfa i criteri di classificazione come pericoloso in una delle classi di pericolo fisico o di pericolo per la salute di cui al regolamento (CE) n.  1272/2008 s.m.i. del Parlamento europeo e del Consiglio, indipendentemente dal fatto che tali agenti chimici siano classificati nell’ambito di tale regolamento; 2) agente chimico che, pur non essendo classificabile come pericoloso ai sensi di quanto riportato al punto 1, comportano un rischio per la sicurezza e la salute dei lavoratori a causa di loro proprietà chimicofisiche, chimiche o tossicologiche e del modo in cui sono utilizzati o presenti sul luogo di lavoro, compresi gli agenti chimici cui è stato assegnato un valore limite di esposizione professionale di cui all’Allegato XXXVIII del d.lgs. 81/08”;

– agenti chimici: “tutti gli elementi o composti chimici, sia da soli sia nei loro miscugli, allo stato naturale o ottenuti, utilizzati o smaltiti, compreso lo smaltimento come rifiuti, mediante qualsiasi attività lavorativa, siano essi prodotti intenzionalmente o no e siano immessi o no sul mercato”;

– attività che comporta la presenza di agenti chimici: “gni attività lavorativa in cui sono utilizzati agenti chimici, o se ne prevede l’utilizzo, in ogni tipo di procedimento, compresi la produzione, la manipolazione, l’immagazzinamento, il trasporto o l’eliminazione e il trattamento dei rifiuti, o che risultino da tale attività lavorativa”.

 

L’indice del documento:

 

  1. PREMESSA ALLA TERZA EDIZIONE
  2. IL RISCHIO CONNESSO ALL’USO DI SOSTANZE PERICOLOSE
    2.1 Il concetto di “rischio”
    2.2 Gli indici di rischio
    2.3 Il rischio chimico, cancerogeno e mutageno
  3. RIFERIMENTI DEFINIZIONI E TERMINOLOGIA

 

  1. SOSTANZE E MISCELE PERICOLOSE
    4.1 Saper leggere le etichette e le schede di sicurezza
    4.2 Sistemi di classificazione
    4.3 REACH e CLP – Caratteristiche di pericolosità delle sostanze
    4.4 Consigli di prudenza
    4.5 Caratteristiche di pericolo nei rifiuti e classificazione CLP
    4.6 Metodi e strumenti per riconoscere i pericoli
  2. L’EVOLUZIONE NORMATIVA IN TEMA DI SOSTANZE CHIMICHE
    5.1 La normativa di riferimento in Europa
    5.2 La normativa di riferimento in Italia
  3. PRINCIPI GENERALI PER OPERARE CON AGENTI CHIMICI PERICOLOSI
    6.1 Introduzione
    6.2 Indicazioni generali
    6.3 Uso delle lenti a contatto nei laboratori
    6.4 Manipolazione di agenti chimici pericolosi
    6.5 Dispositivi di protezione collettiva (DPC)
    6.6 I dispositivi di protezione individuale (DPI)
    6.7 Bombole di gas in pressione
    6.8 Liquidi criogenici
    6.9 Utilizzo di apparecchiature
    6.10 Impianti e apparecchiature elettrici
    6.11 Norme generali per laboratori con presenza di campi magnetici statici
    6.12 Comportamenti in caso di emergenza e/o incidente
    6.13 Precauzioni per l’uso e lo stoccaggio degli agenti chimici pericolosi
    6.14 Indicazioni sulle classi di incompatibilità delle sostanze
    6.15 Valutazione delle incompatibilità: manipolazione e smaltimento
  4. IL RISCHIO DA ESPOSIZIONE A SOSTANZE PERICOLOSE
    7.1 I rischi connessi all’impiego di sostanze pericolose
    7.2 Le vie di assorbimento degli agenti chimici nell’organismo
    7.3 La rilevanza delle tipologie di esposizione
    7.4 Le principali forme di tossicità
    7.5 Relazione dose-risposta
    7.6 L’esposizione a più sostanze ed effetti sulla salute dei lavoratori – sinergia
  5. VALUTAZIONE DEL RISCHIO DA ESPOSIZIONE AD AGENTI CHIMICI PERICOLOSI
    8.1 Un indirizzo metodologico per la valutazione
    8.2 Introduzione
    8.3 Lo schema logico di valutazione del rischio chimico
    8.4 Valutazione del rischio per la sicurezza
    8.5 Il rischio per la salute
    8.6 Valutazione del rischio per polveri non altrimenti classificate e fibre
  6. VALUTAZIONE DEL RISCHIO DA ESPOSIZIONE AD AGENTI CANCEROGENI E MUTAGENI
    9.1 La procedura di valutazione del rischio cancerogeno e mutageno
    9.2 L’algoritmo di valutazione dell’adeguatezza delle misure di tutela applicate
    9.3 Monitoraggi ambientali e/o biologici nell’utilizzo di agenti cancerogeni / mutageni
  7. PROCEDURA DI GESTIONE DEGLI AGENTI CHIMICI PERICOLOSI
    11. IL MONITORAGGIO BIOLOGICO E AMBIENTALE
    11.1 La misurazione degli effetti sull’organismo
    11.2 Misurazione dell’agente chimico pericoloso nell’ambiente di lavoro

APPENDICE A
BIBLIOGRAFIA, NORMATIVA E SITOGRAFIA
APPENDICE B
RAFFRONTO CLP, DPP E DSP
APPENDICE C
SCHEDA RACCOLTA DATI AGENTI CHIMICI PERICOLOSI
APPENDICE D
SCHEDA RACCOLTA DATI AGENTI CANCEROGENI E MUTAGENI

 

 

 

 

RTM

 

 

Scarica i documenti da cui è tratto l’articolo:

ISPRA, Consiglio SNPA, “ Manuale per la valutazione del rischio da esposizione ad agenti chimici pericolosi e ad agenti cancerogeni e mutageni”, documento curato da un tavolo di lavoro e relativo alla Delibera del Consiglio SNPA, seduta del 1 agosto 2017 – Doc. n. 18/17 – edizione ottobre 2017 (formato PDF, 3.93 MB).

 

Consiglio SNPA, “ Algoritmo di calcolo dell’Indice di Rischio Chimico e del Rischio Cancerogeno come da MLG 73/2011 di ISPRA (Linee guida per la valutazione del rischio da esposizione ad Agenti Chimici Pericolosi e ad Agenti Cancerogeni e Mutageni, Centro Interagenziale ‘Igiene e Sicurezza del Lavoro’)” – Revisionato nel 2015-2016 (formato PDF, 7.94 MB).

 

 

 

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Fonte: puntosicuro.it

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Carrelli elevatori: responsabilità, comportamenti e nessi causali

Roma, 8 Nov – Sono molti gli articoli che PuntoSicuro ha pubblicato negli anni per raccontare i tanti incidenti che avvengono nel nostro Paese durante l’utilizzo dei carrelli elevatori, spesso durante i percorsi in retromarcia, e per la mancanza di idonea segnaletica e viabilità aziendale.

Per conoscere questa tipologia di infortuni e comprendere le responsabilità in azienda, possiamo fare riferimento ad alcune sentenze della Corte di Cassazione.

Una recente sentenza, la sentenza n. 40706 del 07 settembre 2017, affronta, ad esempio, un ricorso relativo ad una condanna per un infortunio ad un lavoratore investito da un muletto in retromarcia. E permette anche di fare sempre più luce sulle condizioni per poter considerare abnormi i comportamenti dei lavoratori ed eventualmente interrompere i nessi causali su cui si basano le condanne di chi riveste posizioni di garanzia.

Nella sentenza n. 40706 si indica che P.G., datore di lavoro, ricorre per cassazione avverso una sentenza che in riforma della sentenza assolutoria di primo grado ha dichiarato la responsabilità penale del ricorrente, in ordine al reato di cui all’art. 590 cod. pen. “perché, in qualità di datore di lavoro, omettendo di individuare, nel documento di valutazione dei rischi, misure di prevenzione e protezione da attuare per la gestione della viabilità all’interno dei capannoni ed omettendo di apporre la dovuta segnaletica, cagionava lesioni personali gravi al dipendente G.G., il quale, mentre era intento al proprio lavoro, veniva investito, all’interno del capannone, da un carrello elevatore, che stava effettuando una manovra di retromarcia”.

Si indica in particolare che il ricorrente “deduce violazione di legge e vizio di motivazione” e si sottolinea che il G.G. “nel giorno del sinistro avrebbe dovuto svolgere la propria attività lavorativa al di fuori del capannone”. Nella ricostruzione del ricorrente G.G. “si recò all’interno di quest’ultimo esclusivamente per invitare il collega A.M. a bere un caffè. Poiché quest’ultimo rifiutò, il G.G. scese dal muletto su cui, in violazione di ogni disposizione, era salito, senza alcuna prudenza, e venne investito dal muletto stesso. Ha infatti dichiarato A.M. che il G.G. si chinò, nelle vicinanze del mezzo, per raccogliere dei bollini da alcune confezioni di dolci, rendendosi di fatto invisibile al A.M., che, nel compiere la manovra di retromarcia, urtò con lo pneumatico posteriore destro il piede della persona offesa. Si è trattato dunque di un comportamento abnorme da parte del G.G., che, all’orario in cui si verificò l’infortunio, non avrebbe neanche dovuto essere presente sul luogo di lavoro, poiché il suo turno non era ancora iniziato, e che tenne una condotta assolutamente al di fuori della normale prevedibilità”.

E sempre secondo il ricorrente appare dunque “insussistente il nesso di causalità, poiché le lesioni subite dal lavoratore non sono conseguenza di un’azione od omissione dell’imputato, in quanto, se il G.G. non avesse distolto l’attenzione del collega dall’attività lavorativa, addirittura salendo e poi scendendo inopinatamente dal muletto, non si sarebbe verificato l’infortunio”.

Inoltre, sempre per il ricorrente, “la Corte d’appello, trattandosi di ribaltamento dell’esito assolutorio del giudizio di primo grado, avrebbe dovuto risentire i testi e confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza”.

 

A queste posizioni la Corte di Cassazione risponde innanzitutto che “la prima doglianza è infondata”.

 

Infatti l’interruzione del nesso causale è “configurabile esclusivamente laddove la causa sopravvenuta inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originario, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Ne deriva che, laddove si verifichi un infortunio sul lavoro, l’interruzione del nesso causale è ravvisabile esclusivamente qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi, è configurabile la colpa dell’Infortunato nella produzione dell’evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez. 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202)”.

Viceversa, in questo caso, il giudice a quo (il giudice di cui s’impugna la sentenza) “ha posto in rilievo che l’ingresso del G.G. nell’area dove stava lavorando il mulettista non può considerarsi atto abnorme, essendo assai probabile che qualsiasi lavoratore, anche esperto, ove non venga adeguatamente reso edotto dei rischi specifici di un’area, vi si rechi, esponendosi ai pericoli derivanti da errate manovre. A ciò è da aggiungersi, in questa sede, che, sotto il profilo giuridico, non può ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l’evento, il comportamento imprudente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa del datore di lavoro (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391)”.

E nel caso in esame, il P.G., secondo quanto risulta dalla sentenza impugnata, “omise di procedere ad una corretta valutazione dei rischi specifici, nel settore viabilità, nonché di apporre in loco idonea segnaletica. E’, pertanto, esente da censure la conclusione del giudice a quo, secondo cui, se è indubbia la sussistenza di profili di colpa a carico del lavoratore, nell’avvicinarsi al carrello elevatore, ciò rileva solo ai fini del risarcimento del danno ma non vale ad elidere il nesso causale rispetto alla condotta del datore di lavoro”.

Si sottolinea poi che tale asserto è “perfettamente in linea con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell’incolumità fisica intrinsecamente connaturati all’esercizio di talune attività lavorative, anche nell’ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497)”.

E dunque il garante ove abbia “negligentemente e imprudentemente omesso di attivarsi per impedire l’evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l’errore sulla legittima aspettativa in ordine all’assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l’incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori (Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161)”.

Inoltre la Corte territoriale ha negato qualunque rilievo alla “questione relativa all’orario di inizio dell’attività lavorativa, da parte dell’infortunato. Non può infatti ascriversi al G.G. la responsabilità dell’accaduto sulla base del rilievo che, al momento in cui si verificò il sinistro, egli non avrebbe dovuto essere presente sul luogo di lavoro. La violazione delle regole inerenti ai turni di lavoro è infatti del tutto irrilevante ai fini delle valutazioni relative all’infortunio verificatosi. Ai fini dell’ascrivibilità di una responsabilità a titolo di colpa, occorre infatti verificare se la regola violata fosse diretta ad evitare eventi della tipologia di quello verificatosi”.

Rimandiamo poi alla lettura della sentenza che si sofferma ampiamente sull’infondatezza anche del secondo motivo di ricorso relativo a due questioni: “la mancata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello e il ribaltamento della pronuncia assolutoria di primo grado senza un’adeguata confutazione degli argomenti addotti dal primo giudice”.

 

In definitiva, con tale sentenza, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

 

Tiziano Menduto

 

Scarica la sentenza:

Corte di Cassazione Penale Sezione IV – Sentenza 07 settembre 2017, n. 40706 – Lavoratore investito dal muletto in retromarcia. Scorretta valutazione dei rischi specifici, nel settore viabilità, nonché mancanza di idonea segnaletica

 

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Fonte: puntosicuro.it

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SMART WORKING: DALL’INAIL LE PRIME ISTRUZIONI OPERATIVE

Nella circolare n.48 del 2 novembre 2017 le indicazioni sull’applicazione della tutela assicurativa ai lavoratori agil

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Sul suo sito istituzionale, l’INAIL ha diffuso la circolare n. 48 del 2 novembre 2017 con la quale fornisce importanti indicazioni normative sul lavoro agile o smart working, ed istruzioni operative in materia assicurativa. Ricordiamo che, secondo quanto dettato dall’articolo 18, comma 1 della Legge 22 maggio 2017, n.81:

Il lavoro agile è una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato stabilita mediante accordo tra le parti, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro, con il possibile utilizzo di strumenti tecnologici per lo svolgimento dell’attività lavorativa. La prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva.

La circolare è consultabile all’indirizzo https://www.inail.it/cs/internet/atti-e-documenti/note-e-provvedimenti/circolari/circolare-n-48-del-2-novembre-2017.html.

 

 

Fonte: aifos.it